N° 7 - Agosto-Settembre 2012
I nostri poeti
  GEREMIA
di Mario Bassani


 
 

Geremia, ‘l pastoro,

pu preciso e coreto d’l paeso,

‘l mei formagh’ar d’la zona,

d’la giustizia, o mei, di giudici,

gh’a sempr’avù ‘n  ricordo

amaro, tristo…

I’n s’er preocupà che d’ spiegar

la su rascion,

butand là la promesa d’una formeta,

ma po’, arivà al municipio

i s’er acorto d’averla scordà.

‘L conciliatoro gh’è stà preciso:

col ment ‘n t’la man,

i och’i aperti ma fisà luntan…

Prima gh’a ‘nterogà ‘l calzolaro

E po’ gh’ a lascià parlar Geremia,

che a ch’ach’ra i s’la cavev ben.

S’ntù i do litiganti,

‘n moment d’ riflescion,

‘n sfogh’olar d’ libri,

‘na lunga ch’ach’rata

E po’…la rajon al calzolaro.

Fra tanti articoli dì a memoria,

tanta parola dificile

e ‘n posar e pigh’ar d’ libri,

a Geremia gh’è armast ‘n menta

‘l finale d’la s’ntenza chi dijeve:

“Cacio non vedendo

la giustizia a piedi andò”.

 

                                                                  

 

 

GEREMIA-  Geremia (Galloni), il pastore più preciso e corretto del paese, il miglior formaggiaio della zona, della giustizia, o meglio, dei giudici, ha sempre avuto un ricordo amaro, triste. Non si era preoccupato che di spiegare le sue ragioni buttando là la promessa di una formetta (di formaggio), ma poi, arrivato al municipio (dove si svolgevano le udienze), s’era accorto d’averla dimenticata. Il conciliatore è stato preciso: col mento nella mano, gli occhi aperti ma fissati lontano, prima ha interrogato il calzolaio poi ha lasciato parlare Geremia che a chiacchiere se la cavava bene. Sentiti i due litiganti, un momento di riflessione, uno sfogliare di libri, una lunga chiacchierata e poi… la ragione al calzolaio. Fra tanti articoli citati a memoria, tante parole difficili e un posare e prendere libri, a Geremia è rimasto in mente il finale della sentenza che diceva: “Cacio non vedendo, la giustizia a piedi andò!”.
 
 
 

  LA CASA SEPOLTA
di Maria Giovanna Perroni Lorenzini


 
 

Ma perché ancora, in sogno, mi tormenti,

vano fantasma,

nero simulacro dagli occhi vuoti,

scheletro di mura?

Anche tu ti portavi nella carne

I segni di sferzate a forza impresse

dal vento di passioni furibonde,

covate entro tizzoni di rancori…

Ma, poi, fosti, per me, scomodo letto:

il ricordo del tiepido di nido,

degli affetti di rapide imbeccate

sommerso dallo scroscio di catene

d’amara schiavitù di Babilonia.

E, per salvarmi, io, naufraga di vita,

con entrambe le mani, t’ho sepolta.

 

 

                Nel Congedo de La pace delle bambole, il mio primo libro su Arcola e sugli anni della mia infanzia e della mia adolescenza, ne promettevo un secondo. Che non doveva essere semplicemente il seguito del precedente, ma avrebbe costituito, per così dire, l’altra faccia della medaglia: un’opera cioè che avrebbe esaminato con sguardo il più possibile oggettivo le profonde lacerazioni che, in quegli anni difficili, dividevano pressappoco contemporaneamente il mio paese e la mia famiglia; ebbero, entrambi, dolorose ripercussioni nel mio spirito di bambina e di adolescente, ancora in formazione. E furono proprio questi effetti negativi che fecero maturare in me la decisione dell’esilio volontario; decisione non eroica, ma l’unica che mi permettesse di salvare la pace della mia vita.

            Quando feci quella promessa, sapevo che scrivere una simile opera sarebbe stato difficile. E in seguito, in certi momenti, ho temuto che sarebbe stato addirittura impossibile. Così, per anni, ho rimandato l’attuazione del progetto; anche perché le cure che dovevo prodigare a mia madre, ormai irrimediabilmente inferma, richiesero, per un lungo periodo, tutta la mia attenzione e assorbirono tutte le mie energie. Ma anche dopo la sua morte, quando sarei stata libera per questo lavoro, ho continuato a rimandare per molto tempo: perché sempre più mi andavo persuadendo che non avevo il coraggio e l’equilibrio necessari per riaprire quegli antichi scrigni; i quali, quindi, sarebbero stati destinati a rimanere chiusi per sempre, celando, intatti, i loro segreti. Io non avevo la forza per riaprirli.

            Finché un giorno, rileggendo di seguito tutte le mie poesie (questo periodico rivisitare la mia produzione poetica è per me il modo migliore di approfondire la conoscenza di me stessa), mi sono improvvisamente accorta che quel libro che tanto temevo, e da cui continuamente rifuggivo, era già lì sotto i miei occhi. Almeno “in nuce” esisteva già. Io non ero stata fino ad allora consapevole; ma in molte delle mie poesie avevo già riaperto quegli scrigni, avevo già frugato in quei dolori, li avevo rivissuti e avevo trovato la capacità di superarli, perché ero riuscita a parlarne nella forza catartica della poesia. Anche se non lo avevo fatto in modo programmato e sistematico; ma a seconda dei vari stati d’animo diversi nel tempo. E pensare che, per la maggior parte, quelle mie composizioni erano tra le prime che avevo scritto! Evidentemente fin dagli inizi della mia attività poetica avevo intrapreso quell’opera di decantazione e di purificazione, necessaria per me e per la realizzazione del mio proposito.

            Per cui ho pensato che, grazie alle poesie, mi sarebbe stato sufficiente raccontarle in prosa ad una ad una, ciascuna con la sua carica di sofferenze, in una narrazione capace di rievocarne lo spirito e ricrearne l’atmosfera, allo scopo di mettere in grado il lettore, esponendone il contenuto in uno stile piano ed agevole, di ripercorrere le varie tappe di quel dolore che le aveva ispirate. Ora, tra tutte queste composizioni, per bellezza di immagini, ma soprattutto per drammaticità di contenuto, spiccava La casa sepolta. Da essa, perciò, ho tratto il titolo di questo mio nuovo libro.

            Naturalmente il valore della parola “sepolta” è metaforico: la casa, in realtà, io l’ho venduta; ma il mio gesto di venderla significava un volerla cancellare dalla mia vita e dalla mia memoria; voleva dire desiderio di allontanarmi da lei, per cercare salvezza altrove; e uccidere in me quei dolorosissimi ricordi che ad essa erano legati.

            Ma la casa dove uno ha vissuto per molti anni, una gran parte della sua vita, non sono solo, come si dice, quattro mura… E così, mentre operavo questa violenta rottura, proprio mentre me ne andavo, e per sempre, sentivo che quella dimora avrebbe voluto da me un coraggioso atto d’amore, per sanare insieme, io e lei, le ferite che entrambe portavamo in noi. E per le ferite della casa intendevo sia i buchi delle cannonate nei giorni che precedettero la Liberazione, e che rimasero per molti anni tali e quali, a testimoniare le brutture della guerra; sia i successivi gravi segni dell’incuria; perché le persone che l’abitavano, prese dai loro dolori, dai loro egoismi e dai reciproci loro rancori, non l’amarono; la videro anzi come una prigione e di proposito la trascurarono, fino a farla diventare un edificio fatiscente. Quel gesto d’amore allora lo rifiutai. Ma l’amore rimase. E all’amore non si può resistere all’infinito. Ed io, che avevo cercato di seppellire quella casa, poi me la ritrovavo sempre presente nei sogni e viva nel cuore. E ancora oggi è viva e presente in me. E l’unico modo che ho di placare i suoi richiami è, credo, quello di scrivere la storia dei momenti dolorosi che abbiamo condiviso; continuando così e completando quel tanto di negativo che già si poteva scorgere ne La pace delle bambole. E insieme alla storia della casa, anche la storia del mio paese, da quando incominciai a vederlo non più come l’idillico luogo dei giochi, dei sogni e della fantasia, ma nella sua realtà di borgo crudelmente diviso da rancori e odi immedicabili.

            Il mio nuovo libro, dunque, sarà la storia di queste mie sempre più tristi scoperte; e la storia del mio sempre più deciso, anche se addolorato, addio ai miei luoghi natali.

                                                                     

 

                                                                                                         (da La casa sepolta, ed. Albatros).
 

  La Sindone
di Padre Maurilio Montefiori


 
 
 

Mi sono fermato, muto

davanti al lenzuolo del tuo martirio.

Qui sei convenuto

a identificarti con noi

e con tutti i lontani

da tutte le sofferenze,

a donare la tua morte

al Padre

per capovolgerne il mistero

e far posto

al Dio escluso dall’uomo.

Ti sei consegnato alla notte

rinunciando all’ultimo barlume

di luce

per ridare a noi un volto

e per dirci

che non siamo

un misero turbinio di molecole,

piccole zolle di fango,

sperduti in un oceano di silenzio.

Mai morte fu morte più cruda.

La voce umana

qui non ha voce.

Parla il silenzio!

La contemplazione si attua

al di là di ogni discorso

nel raccoglimento

dove la pace

è pianto.

 

 
 

  NOSTRA SIGNORA DEL MIRTETO
di Ugo Ventura


 

 

 

Fronte al mare, barbicato su collina,

Ortonovo là si staglia dirimpetto.

E si onora della santa più divina,

la Madonna, Gran Signora del Mirteto.

 

A settembre ogni anno festeggiata

da migliaia di persone più credenti;

santuario frequentato qui in vallata,

sacro luogo di preghiera e pentimenti.

 

Son di sangue quelle lacrime cadute

dall’immagine che a vederla sembra vera:

forse è segno di speranze ricredute,

nella fede d’una eterna primavera.

 

Processioni, Santi Vespri, commozione,

ogni anno ci rinnovano la fede,

invochiamo, Santa Madre, protezione

specie a chi, con arroganza, non ti crede.

 

Sale al cielo dei fedeli il dolce canto

perché giunga al tuo grembo immacolato:

sa di gioia, di rispetto e forse pianto

per il dono, immeritato, del Creato.

 

                                                     

 

  CENTO ANNI!
di M. Angela Albertazzi


 
 

Cara Linda, a cent’anni sei arrivata

anche se dura la tua vita è stata.

Quante cose hai da raccontare:

eri felice col tuo Fernando

anche se sempre eravate a lavorare.

Anche i tuoi figli a lavorar con te negli ulivi,

poi a raccoglierne il frutto, stanchi ma giulivi.

Ricordi, nelle pause, le barzellette da raccontare,

tu e la Italia:

quante risate di cuore facevate fare.

Pensavamo di ridere noi sole

invece al di là dei rovi, a sentire,

c’era don Tito e suo padre,

che poi si facevano scoprire,

con la loro risata;

e la nostra, con la loro

veniva aumentata.

Eravamo poveri ma speranzosi

di un migliore avvenire.

Ora hai Marcello e Domenico,

due gran bravi giovani

dai quali molti dovrebbero prender esempio;

non han lasciato, oggi come ieri,

la loro cara rispettata nonna,

facendo tutto, come due bravi infermieri.

Un elogio all’assiduità giornaliera

di Celestina, prodiga in ogni cosa,

che accorre anche di notte, premurosa.

Come vedi, sei sempre in buona compagnia.

Linda, ti auguro pace e serenità

e tanta, sempre tanta lucidità

per tutto il tempo che Dio ancora ti darà.

 
 
 

  IL MARE
di Archimede Parodi


 
 
 

Il mare:

 il suo respiro lo sento;

lo amo, l’ammiro, lo invidio.

Invidio l’eterno suo muoversi,

l’eterno suo respirare,

la sua calma,

le sue parole,

le sue ire.

Il mare:

fonte di vita,

maestro di vita.

 

                                                 Archimede Parodi (23.01.2004)

 
 
 

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