N° 8 - Agosto-Settembre 2016
Le Graffiature. Lutero e le sue colpe indotte
di Antonio Ratti


 Ho appena letto l’articolo-intervista al card. Kasper su “Avvenire” di domenica 17 luglio e mi sono subito sentito autorizzato ad esprimere i miei datati convincimenti in merito, perché mi trovo finalmente in ottima compagnia. “Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore”.
Una frase ruvida nella sua chiarezza” commenta l’articolista Riccardo Maccioni.
Concordo, ma l’affermazione del cardinale poggia sulla documentazione storica. E ancora: la Chiesa di allora “non era proprio un modello da imitare, c’era corruzione, mondanità, attaccamento ai soldi e al potere. Per questo lui ha protestato”.
Ri-concordo appieno. Il mediocre e impreparato, non solo teologicamente, Leone X con il suo entourage del tutto inadeguato, come il segretario di Stato, card. Silvestro Prierias, tronfio nella sua vacua nullità come il pavone quando fa la ruota per farsi notare (pensando anche ai suoi pomposamente ridicoli abbigliamenti), aveva in testa ben altre cose che cercare di capire le ragioni che spingevano l’integerrimo agostiniano, teologo sopraffino, a prendere posizione contro alcune attività degeneranti e fuorvianti (mercato delle indulgenze, delle Messe private, delle reliquie, del lucro sul Giubileo e dell’imposizione delle decime raccolte con metodi che anticipavano di secoli quelli, talvolta, messi in atto da Equitalia!) e contro il satrapismo smodato della Curia e della Corte papale, che costava un patrimonio in elemosine, spesso coatte.
Proprio per questa sua pochezza, Leone interpreta la protesta di Lutero  come una voce isolata fuori dal coro e come una banale interferenza da risolvere dando incarico  al suo cardinale di Stato di scrivere per il riottoso frate un opuscolo  sui diritti del Papa (De potestate papae dialogus).
Lo scritto fece perdere ogni freno inibitorio al cheto agostiniano - è l’acqua cheta che travolge i ponti -, il quale comincia, per demolire il potere infallibile di chi occupa indegnamente la cattedra petrina, a scardinare i cardini della fede, abolendo i Sacramenti basati sul Vangelo e la Tradizione, escluso il Battesimo. L’opera demolitrice mirava a togliere ogni valore ad una fede fatta di obblighi e dogmi imposti e gestiti da una struttura verticistica del tutto avulsa dallo spirito evangelico. Leone X non trova di meglio che condannarlo e scomunicarlo con la bolla Exsurge Domine, nella quale lo  definiva “cinghiale nella vigna del Signore”.
Il Papa di cinghiali e dei loro danni ai vigneti se n’intendeva, passando molto del suo tempo alla caccia dell’animale nella Maremma  toscana di proprietà della famiglia, i Medici di Firenze. Nella più totale incomprensione della gravità degli eventi si consuma la drammatica frattura nella Chiesa d’Occidente.
La presuntuosa incapacità di certi personaggi, arrivati a ricoprire incarichi unici per la loro delicatezza e importanza con mezzi spuri, di comprendere che i tempi stessero rapidamente mutando e che si stava entrando nell’era moderna, mi stimola  a considerare due concetti essenziali: l’infallibilità e il valore dei dogmi  nel senso di obblighi da rispettare. A che serve una fede fatta di obblighi da accettare e non da bisogni radicati nello spirito di ciascuno da soddisfare? Esemplifico: l’obbligo della Messa festiva implica solo la presenza fisica; il bisogno intimo di ricordare il sacrificio dell’Eucarestia è partecipazione attiva e condivisione della bellezza del dono di Gesù.
La differenza è formale o sostanziale?
Potrei continuare a lungo con gli esempi. Una fede sostenuta da obblighi è un peso, non una gioia da perseguire e approfondire. La Genesi racconta che dieci minuti dopo l’obbligo dato dal Creatore di non mangiare il frutto dell’albero, Adamo ed Eva l’avevano già disatteso in piena letizia (a dire il vero, per poco tempo). Perché  assistiamo impotenti alla emarginazione progressiva della fede nella maggioranza delle persone? Ritengo per due motivi. a) Oggi conta l’abilità, non la sapienza e la saggezza (regressione ad homo abilis, non più sapiens).  b) L’abilità rende liberi di fare quello che si vuole, la saggezza, invece,  ti suggerisce l’esigenza di guardarti dentro, avanti e al futuro, di darti  un obiettivo esistenziale che giustifichi in modo soddisfacente il tuo esistere. Da qui si origina il suo rigetto a favore della meno impegnativa abilità.
La conclusione?  La fede è capire il futuro, dare un senso, un valore, un significato alla propria vita, perché non scivoli via nel nulla e nel vuoto del niente. Compreso questo, non servono obblighi, ma l’ansia di raggiungere il traguardo. San Francesco e Teresa di Calcutta, tanto per fare due nomi, non percepivano obblighi, ma ansia gioiosa di dare di più per l’attesa meta.
Circa l’infallibilità rimando al “non c’indurre in tentazione”  col quale Gesù ci ha messo in guardia dal delirio di autoreferenzialità e di onnipotenza. Papa Francesco ogni domenica terminando l’Angelus chiedendo: “Per favore non dimenticatevi di pregare per me”, mi sembra che invochi , attraverso la preghiera di tutti, la capacità d’intendere e attuare i disegni dello Spirito Santo. Benedetto XVI, quando ha rinunciato al suo sommo ministero per la consapevolezza di non farcela più a sostenere nella loro attuazione i suggerimenti dello Spirito Santo, ha smentito quel suo predecessore che invece ci credeva, eccome! Forse recitava il “non c’indurre in tentazione”, anziché rifletterlo.
 Viva mons. Antonio Rosmini, che, inutilmente, cercò a caro prezzo di farglielo capire.



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