N° 8 - Agosto-Settembre 2016
Storie dei lettori
  I giovani incontrano l'Europa
di Millene Lazzoni Puglia




Ci conosceremo, miei giovani coetanei d’Europa!

Ci daremo la mano ed un bacio sulla guancia;

confideremo le nostre gioie, ansie, timori, ambizioni,

e progetti di un nuovo futuro insieme.

Io vi porterò un raggio del mio sole,

un lembo di spiaggia dorata e voglia di vita nuova.

In cambio mi basterà un tulipano da deporre

sul selciato che fu bagnato di sangue;

sentire fra li dita il calcinaccio d’un muro sgretolato,

la musica d’un violino magiaro;

spargere sabbia sulla Ceca terra deturpata dai cingoli;

accarezzare il volto di chi ancora giovane

ha sofferto per rinvigorire la sua linfa di vita.

E insieme costruire un mondo tutto nostro

di Pace e Libertà.




              Silvano e Martina Puglia (estate 1991)

Con questa poesia presentata al Concorso  “I giovani incontrano l’Europa”, aperto a tutti i ragazzi europei, Martina ha vinto una vacanza al mare a Iesolo nell’estate 1991.

Questa poesia ricorda un periodo felice di ben 25 anni fa, quando il ‘sogno’ europeo era una realtà per quasi tutti noi. Io ero fra questi e avevo insistito e ‘rotto’ in famiglia perché questa poesia fosse scritta e che Martina (allora ventenne) partecipasse a quel Concorso indetto non solo dalla RAI ma anche dai vari movimenti politici, culturali e varie associazioni giovanili europee, facendo così parte di un gruppo ESP (Europa - Struttura - Progetto) come giovane ragazza europea. Ed era stata una bellissima idea, perché dopo quella vacanza a Iesolo sono venute altre esperienze con viaggi culturali a Torino, Roma, Orbetello con altri giovani europei, non soltanto italiani.
A suo tempo questa poesia (scritta soprattutto da Silvano) mi aveva molto emozionata; nel 1991 era da poco caduto il muro di Berlino e il futuro dell’Europa si delineava meraviglioso con la libera circolazione delle persone e delle merci e col mercato unico ormai alle porte.
Oggi che in Europa sono sorti tanti problemi riguardo alla libera circolazione sia delle merci  sia delle persone; oggi che stanno sorgendo nuovi ‘muri’ in un’Europa martoriata, questa poesia mi emoziona ancora di più…, però, ahimé, in un modo diverso, perché è come la fine di un bel sogno.
L’ESP era finito da poco (per mancanza di fondi) quando è nato il ‘Progetto Erasmus’ per far crescere insieme i nuovi giovani europei.
Però è certo che in Europa qualcosa non funziona; forse i politici dovrebbero rivedere un po’ il loro ‘impegno’ al riguardo. Noi persone comuni possiamo soltanto prenderne coscienza molto amaramente.



  I 'coccini' di San Lorenzo
di Paola G. Vitale




Quelle piccole terrecotte smaltate hanno sempre esercitato un fascino speciale su di me, tanto è vero che ne conservo ancora più di un pezzo.
Per la festa di San Lorenzo ero sempre in campagna presso i nonni materni e sempre riuscivo a farmi regalare tre o quattro ‘coccini’, cioè la pentolina, la piccola padella e almeno una brocchetta.
Era sentita la festa anche laggiù fuori paese, in fondo ai campi ben tenuti. Mia nonna preparava un pranzo ricco e una panca coperta di dolci, come il Pan degli Angeli, il ciambellone, i biscotti grandi, mentre il nonno portava su il vin dolce. E poi arrivavano puntuali i numerosi parenti dal prospicente Pian di Pisa.
La prima cosa per me era la Santa Messa, su in cima al paese; la nonna mi preparava con cura e mi faceva incamminare per tempo, data la distanza. La bella chiesa ospita l’affresco del Santo Lorenzo, nel frontone sopra la porta centrale. Era, ed è, la chiesa in cui ho ricevuto il Battesimo e il bellissimo attestato di affidamento al santo Angelo Custode.
Ricordo il piazzale pieno di ghiaia che ospitava, a quei tempi, la fiera del bestiame, nonostante l’espresso disappunto del “Don” in carica. La Messa era in latino e abbastanza prolungata nella chiesa gremita e colorata dalla luce filtrante dai rosoni laterali.
Come era diverso e libero il tempo di quelle giornate!  Alla sera, quando i parenti se ne erano andati, la nonna indossava “il grembiule nuovo” della domenica e pian piano sfilavamo lungo l’unica via del paese fini davanti all’emporio che esponeva ceste piene di terrecotte e attrezzi agricoli, e poi, piano piano, su fino alla gelateria tenuta dalle stesse persone che venivano a ritirare il latte fin da mio nonno.
Si faceva notte e tornavamo a casa stanche e contente, ringraziando il Santo Patrono.



  Appunti di un Pellegrino
di Gualtiero Sollazzi



Il sarchiapone

I più anziani ricorderanno una gag in TV. Due figuri, i comici Walter Chiari e Giogio Campanini, terrorizzano i passeggeri dello scompartimento di un treno indicando un “sarchiapone” chiuso in una scatola sul portabagagli. Quelli scappano.
La balla serve a quei due per viaggiare indisturbati. Il terribile animale è del tutto inventato. Sembra una parabola dedicata ai creduloni. Con un proverbio: “Per ogni volpe in giro, c’è sempre un pollo a tiro”.
“Bevi, compagno”, scrivevano nel ‘48, accanto ai manifesti del vecchio Partito Comunista, gli avversari. Ma ancora “si beve”. Basta che si parli di un’apparizione e tutti non solo a curiosare, ma a credere tutto. Con risultati deludenti, come tempo fa in una cittadina della Valdera. “Appare la Madonna, la vede un ragazzino!” Tutti a spergiurare che Lei appariva, mandando al diavolo Vescovo e Parroco che invitavano a un po’ di prudenza. Con beffa finale del “veggente”: “Ho tutto inventato!”.
Non va dimenticato l’invito di Gesù sugli ultimi tempi, ma valido anche per questi: “Se dunque vi diranno: Ecco, è nel deserto, non ci andate; o: E’ in casa, non ci credete”.
Stop, allora, al credulismo e ripassiamo l’invito di Dante: “Siate, cristiani,  a muovervi più gravi:/ non siate come penna ad ogne vento,/e non crediate ch’ogne acqua vi lavi./Avete il novo e l’vecchio Testamento, /e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida;/ questo vi basti a vostro salvamento”.
 

 

Cenacolo in piazza

 

Una comunità cristiana, se vuol annunciare il Vangelo e testimoniarlo, sa di non dover rinunciare a due “luoghi”: cenacolo e piazza. Se non rivive la scelta degli apostoli che “al piano superiore erano assidui e concordi nella preghiera insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù”, ogni iniziativa pastorale, anche la più brillante, sarà vana.
Pure la scelta della sola “piazza” darà scarsi frutti. L’abbinamento, invece, il “matrimonio” direbbe mons. Ablondi, fra due poli così significativi, è efficace. Si realizza il Vangelo se si avrà sete di Cenacolo “un po’ di Te in noi, mio Dio” (Etty Hillesum) e la sete di uscire sulle piazze “ma con la veste battesimale” direbbe Tonino Bello.
Così una Chiesa unita in preghiera e in uscita verso il mondo della scuola, della fabbrica, degli ambienti, sarà una Chiesa non ripiegata su se stessa, ma con le vele aperte al vento dello Spirito e potrà annunciare le grandi opere di Dio.
Sarebbe stupendo se il cristiano facesse suo, appassionatamente il “sogno” di Romano Guardini: “Una Chiesa che guarda alle stelle e sta attenta ai vicoli”.


  Lettera a “Il Sentiero”
di Mila



Caro Sentiero,

l’ultima volta che ti ho scritto mio marito mi ha domandato perché scrivo sempre in forma di lettera, gli ho risposto che per me è come salutare tutte quelle “ragazze” che leggono  “Il Sentiero” e che ho avuto occasione di conoscere più che altro nelle varie manifestazioni religiose, ma soprattutto ai pellegrinaggi del 1° sabato del mese.
Ciao “ragazze”, grazie dell’affetto che mi avete sempre dimostrato e dell’interesse per i miei poveri scritti. Per me sono un modo per evadere dalla noia che a volte mi opprime, anche se ho sempre tante cose da fare. Mentre scrivo mi sembra proprio di essere seduta da qualche parte a chiacchierare con voi e spero tanto che anche voi proviate nei miei confronti gli stessi sentimenti. Comunque dopo quest’ultimo scritto non più “Caro Sentiero” ma semplici titoli secondo l’argomento.
Veramente in questo ultimo anno non ho scritto molto, quando si fa la nonna a tempo pieno non è facile coltivare altri interessi. Per lo stesso motivo ho potuto partecipare soltanto a pochi pellegrinaggi, e pensare che mi piace tanto!
Nel pellegrinaggio del 1° sabato di luglio abbiamo fatto visita alla Madonna di  Caravaggio in Valgiuncata di Zignago. Quattro case in mezzo al bosco e alla fine del paese una piccola chiesa-santuario semplicemente meravigliosa. Dentro la chiesa c’era anche uno di quei grossi e pesanti crocifissi che a volte si vedono nelle processioni “importanti”; era appena stato restaurato. Io mi sono domandata com’è che una volta era questione d’orgoglio per gli abitanti di un paese, piccolo o grande che fosse, avere una bella chiesa, invece adesso sembra che le chiese siano diventate semplicemente degli optional e questo non soltanto per i laici.
Noi, abitanti di Luni Mare, aspettiamo il nostro campanile da più di trent’anni, ormai abbiamo perso le speranze e probabilmente dovremo accontentarci di quella specie di edificio rimasto incompiuto e che ormai sta diventando un rudere. Colpa del Comune? colpa della Curia? I fedeli sono pochi, non ci sono soldi, non ci sono preti; io a volte mi domando ma il popolo, il popolo di Dio cosa ne pensa? Forse non ci capisce più niente, forse pensa che non ci sia più neanche Nostro Signore. Ormai siamo scoraggiati e stanchi e ci sentiamo anche un po' presi in giro e questa non è una sensazione soltanto mia, ma si sente anche parlando con la gente, sia i residenti che i villeggianti.
Scusate lo sfogo, ci sentiamo.

                                                                 

  Adelinde e Parzival, Una decisione importante: un sodalizio che vale più dell’oro
di Marta


 

 

Durante una gara di equitazione in queste ultime Olimpiadi, una atleta olandese lascia le gare per salvare il suo cavallo! (sembra una notizia inverosimile). Il cavallo si chiama Parzival e la sua “padroncina” Adelinde Cornelissen; assieme hanno lavorato molto e hanno ottenuto ottimi risultati; quest’anno speravano proprio in una medaglia d’oro.

E così, giorno dopo giorno, con tanto impegno, tanto allenamento è arrivato il momento delle gare. I presupposti ci sono tutti per arrivare al massimo traguardo. Ma il destino non è di certo molto propizio per loro.
A soli tre giorni dalla gara il cavallo viene punto da un insetto provocando febbre alta e un gonfiore sul muso, tanto da impedirgli una buona visuale. Rischia forse anche la morte, dicono i medici del team olandese.
La febbre alta dura due giorni, durante i quali Adelinde non lo lascia solo neanche un momento il suo Parzival: neanche la notte.
Il giorno della gara, medici e tecnici sostengono che può gareggiare; viene iscritto, ha il numero 349.
Ma Adelinde sente che il cavallo non è più il “suo” cavallo; non è più quello di prima, anche se risponde agli ordini e incitamenti della sua cavallerizza. Le sfiora il dubbio che Parzival potrebbe avere delle serie conseguenze da quella gara forzata; è un suo personale presentimento. E così decide di non gareggiare: si ritira dal torneo olimpico.

“Il mio cavallo è il mio compagno di una vita; il mio più caro amico; ha dato tutto per me durante la sua vita; non merita di rischiare tutto questo. Il mio cavallo è più importante di una medaglia d’oro”. Questo dice Adelinde Cornelissen, quattro volte campionessa europea e campionessa mondiale.

Brava, Adelinde, il legami che si instaura col proprio animale è qualcosa di unico, di speciale. Tanta stima e ammirazione per questa atleta, e ricordiamoci che la grandezza di un uomo si vede anche da piccoli gesti.

 

                                                                            

  Di Cupido, ovverosia dell’Amore
di Una gentile signora che ha voluto mantenere l'anonimato



“In illo tempore” (anni ’20-’30) le cose andavano così. Cupido lanciava la sua freccia e colpiva il cuore del malcapitato che da quel momento in poi non avrebbe avuto più pace.
Incominciava l’assalto alla conquista dell’amata. Se non si trattava di una compagna di scuola o di un’amica di famiglia, l’incontro fatale poteva avvenire per strada, in tram, in treno o altrove. “Permette, signorina?”, era la frase tipica dell’approccio cui seguiva il gesto galante di togliersi il cappello con un leggero inchino (gesto ormai quasi del tutto scomparso). Se la richiesta veniva accettata, la prima vittoria era conseguita. Da allora cominciavano gli incontri segreti e furtivi (i genitori non dovevano sapere) che potevano avvenire in un parco, al cinema o in un piccolo romantico caffè.

Un’altra strategia era quella della lettera, la dichiarazione d’amore, che quasi sempre incominciava così: “Gentile signorina, dal primo giorno che l’ho vista, non faccio che pensare a lei…” e via frasi d’amore appassionate. Per chi non se la cavava molto in italiano, esisteva un libro “Il segretario galante”, dove poteva trovare quello che faceva al suo bisogno.

In questa prima fase i due colombi imparavano a conoscersi. Nelle effusioni amorose lei non doveva mai prendere l’iniziativa perché correva il rischio di sembrare una ragazza poco seria.  Infine veniva il giorno in cui lui si recava a casa dell’amata per chiedere la sua mano ai genitori. Si faceva precedere, secondo il galateo, da un mazzo di fiori (rose o garofani) e portava “l’anello di fidanzamento” (d’oro con un solo brillante, il solitario, vero o falso, a seconda delle possibilità di lui). Da quel momento i due erano fidanzati “ufficiali” cioè “promessi sposi”.
Cominciava allora la sorveglianza dei famigliari sui due colombi perché la sposa arrivasse illibata al matrimonio. Da piccola sono stata la “chaperon” (N.d.r. Signora di mezz'età che accompagnava le giovani non sposate)  di una mia zia per ordine della nonna. Mi conduceva in salotto dove stavano i fidanzati e mi diceva: “Non ti muovere di qui!”. Io, nonostante i due colombi cercassero di corrompermi con caramelle o altri dolciumi, restavo lì, fedele alla consegna, come un soldatino, magari sfogliando il “Corriere dei piccoli” o giocando con la mia bambola.
Il fidanzamento poteva durare pochi mesi, ma alle volte anche parecchi anni. Durante questo periodo nella casa della futura sposa si preparava il corredo, cioè tutta la biancheria per la casa dei futuri sposi. Bisogna sapere che allora, già da piccole, le bambine venivano mandate dalle suore per imparare a ricamare, e già dalla scuola elementare (terza classe) c’era il voto di economia domestica (all’esame la bambina, come prova, doveva saper cucire un orlo). Quindi molti capi del corredo erano ricamati dalla futura sposa. Ho ancora nel mio corredo le lenzuola e federe ricamate da me con orli a giorno, punto smerlo, gigliuccio, ecc… . Il corredo veniva conservato in un baule ed era esposto aperto tra i regali di nozze nei giorni precedenti la cerimonia. Più la famiglia era abbiente, più ricco era il corredo, che comprendeva tovaglie, asciugamani, lenzuola, tutti rigorosamente bianchi, di lino o cotone.
Ed ecco arrivare il grande giorno, preceduto, come anche oggi, dall’invio delle partecipazioni e degli inviti. L’abito della sposa veniva cucito da una sarta (la più rinomata per questo, nel luogo), bianco, lungo, aveva una piccola scollatura e le maniche lunghe (oggi hanno scollature ardite inconcepibili per quei tempi in chiesa!). Dalla modista si andava a comprare il piccolo diadema di fiori di arancio e cera che avrebbe trattenuto il velo.

Anche l’abito dello sposo veniva cucito dal suo sarto di fiducia; generalmente blu, doppio petto, cravatta argentea.
In chiesa, durante la cerimonia, in genere, i suoni dell’organo venivano accompagnati dal canto dell’Ave Maria di Schubert. Non esisteva l’usanza del lancio del mazzolino della sposa, mentre c’era quella del lancio del riso.
Dopo il pranzo di nozze, che era preparato in casa con l’aiuto di un cuoco specializzato (dato che gli invitati non erano così numerosi come al giorno d’oggi e le feste venivano vissute nell’ambito della famiglia), gli sposi distribuivano le bomboniere con i confetti già benedette nel rito religioso. Poi, finalmente, potendolo fare (mica tutti se lo potevano permettere!), c’era la partenza per il viaggio di nozze. Le mete erano quasi sempre Roma, Firenze, Milano, Venezia. Da quelle città arrivavano a casa le cartoline illustrate, a colori, con i luoghi visitati, che in casa passavano di mano in mano tra esclamazioni di meraviglia (allora la TV non ci portava il mondo in casa!).
Si concludeva così la storia cominciata con “Permette signorina?” e nasceva una nuova famiglia italiana. Se Cupido aveva colpito nel segno con la sua freccia, il matrimonio durava per tutta la vita (il mio è durato sessant’anni!). In caso contrario non c’era nulla da fare (il divorzio era di là da venire). Ma riflettendo su come vanno oggi le cose, non sarà che Cupido, così invecchiato, non sappia più prendere la mira per scagliare nuove frecce?

 

                                                    

  Un otto settembre un po' particolare
di Giuseppe Franciosi (1994)


 

Riproponiamo ai lettori questo articolo del Preside Franciosi già pubblicato oltre 20 anni fa (1994). Vogliamo con questo tenere vivo il ricordo di questo grande personaggio e anche rivivere la festa della Madonna  di quegli anni.

A Ortonovo ci sono tante feste: San Martino, San Giuseppe, San Guglielmo, ecc. ecc., ma sono feste che lasciano il tempo che trovano; ognuno di noi festeggia il suo Santo e si interessa poco o niente degli altri Santi. C’è però una festa che è la festa di tutti, di quelli di Ortonovo centro storico, di quelli di Casano, di Isola, di Nicola: è la festa dell’8 settembre, ‘la festa della Madonna’.
Tutti facciamo festa quel giorno; di giorno o di notte, tutti andiamo su, al santuario; la Madonna per me è stata sempre la festa più grande, col Natale. Quel giorno arriva tanta gente, da Carrara, da Sarzana, da Ameglia, da tanti paesi; c’è la processione, ci sono i fuochi d’artificio, la pesca di beneficenza, c’è l’illuminazione, la grande illuminazione di tutto il paese, ma soprattutto del Santuario. Oggi, dappertutto si vedono monumenti e chiese illuminati, ma una volta l’illuminazione del Santuario era una cosa eccezionale.
Quando ero a Piana Battola, la sera della vigilia, con altra gente, uscivamo dal paese e raggiungevamo una località dalla quale si vedeva, lontano, una grande luce: i grandi dicevano che era il Santuario di Ortonovo. Una volta le gente incominciava ad arrivare già nel primo mattino della vigilia a piedi e questo pellegrinaggio andava avanti tutta la notte e continuava la mattina dell’8 fino a mezzogiorno. Tanta gente stava lassù tutta la notte, qualcuno dormiva in chiesa, nelle panche, dove capitava. Oggi è tutto cambiato: il pomeriggio della vigilia non si vede nessuno; la gente arriva dopo cena in auto o in corriera fino alla Piazza XXIX novembre (a Casano) e poi, con un’altra corriera, più piccola, si sale a Ortonovo. Oggi tutto si fa in fretta: si va su, si sosta un po’ e poi si riparte.
Quando tutti andavamo su a piedi, a ogni curva della mulattiera, sistemati per terra, vedevamo dei mendicanti che ai pellegrini chiedevano l’elemosina. “La Madonna ve ne renda merito”, dicevano a tutti. Qualche mendicante a chi gli faceva l’offerta consegnava un foglietto, il “Pianeta della Fortuna” che conteneva anche i numeri del lotto: io non li ho mai giocati. Ho provato sempre un senso di vergogna a tentare di risolvere i miei problemi col gioco. Il mendicante sembrava, un tempo, un elemento normale nel panorama italiano; lungo la strada, come vedevi gli alberi, così non ti meravigliavi di vedere anche i mendicanti. Il ‘Barba’, ricordo, si era dato un regolamento: ogni giorno al primo che passava dovevamo dare una lira, al secondo mezza lira, a tutti gli altri dieci centesimi.
Quando andavo all’estero i mendicanti non li vedevo, sentivo ancor più viva l’umiliazione; oggi, e da molto tempo ormai, ce ne siamo liberati anche noi italiani: ne sia ringraziato Dio.
Ricordo i pranzi dell’8 settembre a casa di mia nonna, la Palmì; quel giorno a casa di mia nonna c’eravamo tutti: noi di Ortonovo, i parenti di Fontia, di Arcola, di Spezia; quel giorno (anche il giorno dei Morti) rivedevo tutti gli zii, tutti i cugini. Il pranzo era lungo, finiva tardi; dalla sala dove erano i grandi (noi ragazzi eravamo in cucina), giungeva un gran parlare.
Non mancava mai la torta di riso; tutti quel giorno la mangiavamo (forse non è vero), ma la mangiavamo solo quel giorno. Di solito a capotavola sedeva mio zio ‘Milié’; gli volevo bene. Era un cacciatore fanatico, ma gli uccelletti non li mangiava: li regalava. Nel 1940, quando incominciai a frequentare il Liceo Classico di Carrara, mi recavo tutti giorni a scuola in bicicletta; mio zio, per permettermi di difendermi dalla pioggia (non feci mai un giorno di assenza ed il Preside un giorno lo rilevò davanti a tutta la classe), mi regalò il suo impermeabile. Grazie, zio, anche se (ma che colpa ne avevi tu?) era un po’ troppo corto (mi arrivava alle ginocchia) e un po’ troppo largo (ci stavo dentro due volte). Io ero un po’ goffo dentro quell’impermeabile; i miei compagni, figli di banchieri, di medici, di avvocati, non me lo fecero mai pesare: mi volevano bene.
Quando ero ragazzo mi scervellavo per capire perché il tempietto (all’interno del santuario) lo avevano fatto né a destra né a sinistra, né al centro: è lì, in una posizione strana: “Se fosse al centro, concludevo, l’altar maggiore non si vedrebbe. Ecco, deve essere questa la ragione”.
Un anno, ero un ragazzo, a Ortonovo venne Cornaggia Medici, un corridore automobilista di Milano, con un’Alfa Romeo rossa fiammante. Era un dirigente dell’Azione cattolica; ci fece un discorso fuori, all’aperto, dalla scalinata del Santuario. Quando, a sera, partì (era solo) si portò via anche il parroco di Nicola che salì sicuramente senza rendersi conto della situazione. Don Ernesto, è vero, aveva la motocicletta, quindi i motori, la velocità per lui erano cibo quotidiano, ma qui si trattava di ben altri: si trattava di viaggiare su un’Alfa Romeo con uno dei corridori più famosi di allora.  Ricordo la partenza: l’Alfa schizzò via come un fulmine; era appena partita e già era sparita dietro la prima curva. Di don Ernesto mi è rimasta, indelebile, un’immagine: vedo ancora il povero prete, spaventato, agitarsi e tenersi stretto il cappello sul capo con entrambe le mani. Non ricordo come finì la storia; ricordo però quello che dicevano i grandi: “Stavolta il prevosto se la fa addosso!”.
Ricordo un 8 settembre un po’ particolare, non gioioso, vissuto quando avevo 8-9 anni.
Abitavamo a Serravalle; mia madre aveva un negozietto. La notte dalla Madonna non andava a letto, stava alzata tutta la notte a vendere le candele. Le faceva arrivare il vecchio farmacista, Ettore Piola; mia madre le prendeva da lui. Faceva delle striscioline di carta colorata, tagliuzzata e le avvolgeva intorno alle candele; noi l’aiutavamo. Le candele venivano appese lungo la facciata della casa; ce n’erano di tante misure, di tanti i prezzi.
Erano bellissime le candele di mia madre. Io e mia sorella stavamo alzati anche noi finché il sonno non ci vinceva. Le donne che passavano si fermavano, acquistavano le candele, qualche chiacchiera e poi si rimettevano in cammino. E questo durava tutta la notte.
Al mattino mia madre era stanca, ma contenta; aveva ottenuto un giusta, onesta
ricompensa.
Quella notte però le cose non andarono così; le donne passavano anche quell’anno, a piedi, ma non si fermavano, non compravano le candele. Passavano le ore, ma le candele erano ancora tutte lì. La notte è lunga, ci dicevamo, le cose potranno cambiare, ma non cambiarono. Un disastro. Mia madre era distrutta. Ed ora? Il negozietto di mia madre funzionava così: si ordinava la merce, si vendeva e poi si pagava; bastava un affare sbagliato ed era la fine. Quel negozietto ci permetteva di vivere decorosamente; i miei amici d’estate andavano scalzi, io avevo i sandali di cuoio. A dire la verità quei sandali li odiavo; appena girato l’angolo li buttavo via; con quei sandali mi sentivo ‘diverso’ e poi i miei compagni mi prendevano in giro: “Porta i sandali come i frati”, dicevano.
“Le candele non le ho vendute (quell’anno avevano incominciato a venderle al Santuario), ma al farmacista le devo pagare lo stesso - diceva mia madre - e il denaro non c’è”.
 La nostra sorte era nelle mani del farmacista; mia madre decise di andare da lui subito.
Ci andò con la disperazione addosso; che cosa disse, che cosa fece, io non lo so.
Eravamo sicuri che sarebbe ritornata con gli occhi pieni di lacrime; le lacrime c’erano, ma erano lacrime gioia. Il farmacista si riprendeva tutte le candele, e non pretendeva niente.
Si ritornava a vivere. Il farmacista mi sembrava austero, severo, da quel giorno diventò per me la persona più brava del mondo. Fu quello un 8 settembre di immenso dolore prima, di incontenibile gioia poi. La Madonna del Mirteto, alla quale tutti (mia madre in particolare) eravamo devoti, ci tese la mano e ci salvò.

  Attesa
di Paola G: Vitale



C’è un sole che spacca. Un volo di cornacchie segna l’orizzonte in fondo ai campi del fieno. I platani muovono appena le loro fronde esuberanti e lasciano cadere le prime foglie ingiallite. Sembrerebbe un momento ideale, e allora mi rimetto davanti alla bianca tela, da giorni sul cavalletto, messa lì con entusiasmo e chi sa con quali idee.
Il bianco della tela spacca come il sole. So bene che il segno resterà nel pennello, inutile alla mia mano. Il cuore ha perso il filo e non lo ritrova. Il filo del sogno resta nel cuore, prigioniero come la speranza impaurita, sbattuta dall’arroganza dei giorni duri.
Duri. Mi ritrovo a seguire la realtà, tutto qui. Ma non è questa la realtà serena del filo ideale a cui avevo avvolto la mia vita. I giorni hanno preso strade diverse, quella dei miei giovani figli in cerca della loro vita.
Così, l’ansia che non può agire più di tanto, l’amore che più di tanto non può aiutare, si trasformano in uno strano bagliore, interminabile come l’attesa di un sospiro liberatore.
Mi ritrovo più vicina agli stretti doveri della giornata, come in offerta silenziosa, quasi essa fosse un riscatto alla fantasia gioiosa che accompagna la mia vita. Ritornerà… Forse la ritroverò la mia spensierata fantasia.
Ora è proprio un bianco silenzio. Momenti e momenti di trepidante silenzio, cuciti uno all’altro dalla volontà di farcela.

 

                                                        

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