N° 8 - Ottobre 2014
Storie dei lettori
  Un medico dei nostri tempi
di Carlo Lorenzini



Non sono un ‘laudator temporis acti’ (lodatore del tempo passato) per partito preso. Anche oggi, nonostante le apparenze, si trovano medici che hanno a cuore il malato, soprattutto il malato, a costo di ogni sacrificio; anche oggi esser ‘medico della mutua’ può significare essere un missionario ed essere un eroe.

 

L’avevo scritto in Com’eravamo di un medico d’altri tempi, del dottore della mia infanzia, che fu medico dei malati e non delle malattie (il dott. Bongioanni, N.d.R.). Mentre oggi lo devo scrivere d’un medico dei nostri tempi. Ché anche lui è stato il medico dei malati e non delle malattie. Ci sono medici esclusivamente delle malattie: cardiologo, oncologo, neurologo, dermatologo…, i quali sulla base di questa loro specializzazione costruiscono la loro fortuna. Loro i malati non li conoscono. Essi arrivano per mezzo di appuntamenti telefonici gestiti dalle segretarie. Una seduta di mezz’ora. A dirti cose che ti ha già detto anche lui, il tuo medico di base. Il sacrificio di due o trecento euro è compensato però dall’orgoglio di aver consultato un luminare.
Ma Pietro, così si chiamava il medico che rievochiamo, Pietro era così. Lui non voleva approfittare delle malattie: “Pietro, hai specializzazioni, perché non ne approfitti?”. Lui, vestito del suo camice bianco immacolato, che nobilitava un fisico magro di persona sobria e morigerata, sorriso buono in cui c’era meraviglia: “Proprio lei, professore, mi dice queste cose, basta vedere i profitti che lei e la signora Giovanna avete ricavato dalle vostre pubblicazioni!”. E non rispondeva. La risposta era nel suo comportamento a esercitare la professione: sempre puntuale alle otto in ambulatorio, sempre assiduo nelle visite a domicilio, sempre conversevole con i pazienti di cui era amico più che medico, sempre sorridente nonostante i suoi problemi, sempre disponibile anche fuori orario, mai assente dalla sua condotta. Infatti non faceva neanche le ferie: viveva tra casa e ambulatorio; o nei momenti liberi un po’ di caccia oppure dietro a curare le sue piante: “Ho passato la domenica a potare”. “Ora sarai stanco”. “Macché stanco, sono pieno d’ossigeno!”.
Io gli davo del tu. Lui mi dava del lei. Era stato nostro scolaro al Liceo classico. Era venuto da noi cambiando sezione. Lo studio. Non è che fosse fanatico nello studio; ma della coerenza e della lealtà, sì. Svolgeva i temi (io ero il suo professore di Italiano) dove non sempre la sintassi trionfava; ma dove trovavi abbondanza di concetti morali e di saggezza. La sua rettitudine gli impediva di copiare; “Perché”, diceva, “non voglio appropriarmi della personalità e della cultura degli altri. Quello che sono è lì”. E lì, nei suoi scritti, c’era il ragazzo, non brillante, non il primo della classe, ma pieno di umanità e di rettitudine, di realismo e di concretezza, pronto a diventare quel professionista che poi fu: alla fantasia e al romanticismo dei poeti preferì il rigore della notomista e fu medico; ma anche lui, come l’altro medico della mia infanzia, medico degli ammalati e non delle malattie. Quando i pazienti entravano nel suo studio, lui li accoglieva con un sorriso e una stretta di mano, li chiamava per nome e prima di essere il medico che fa le diagnosi o che prescrive le terapie, era l’amico o il compaesano, con cui, incontrandolo, ci si ferma a fare due chiacchiere, parlando della caccia o degli ulivi oppure della campagna o semplicemente del tempo.

Nella sua professione di medico, prese il posto di suo padre, che gli fu maestro di comportamento. Non metteva paura agli ammalati, né aveva sulla bocca bugiarde parole che ingenerassero false speranze. Con semplicità e determinazione, guardandoti negli occhi con quel suo sguardo limpido in cui c’era la sicurezza del professionista che sa il fatti suo, diceva la sua verità. “Dottore, se mi opero risolvo?”. “Risolvi lì per lì. Poi il male ritorna”. “Dottore, è grave, vero?”. “E’ solo un po’ di bruciore di stomaco. Con queste pasticche passerà”. Comunque fosse, quando ti faceva una diagnosi, aveva nello sguardo e nel tono delle parole l’umanità dell’amico.
Ogni volta che andavo da lui, per delle ricette o altro, lui mi chiedeva sempre di Rita, nostra figlia. L’aveva conosciuta che lui era già studente liceale e lei era una bimbetta da asilo. Noi, come amici di famiglia, eravamo spesso loro ospiti a cena. Poi lui si laureò, si fidanzò e si sposò. Poi lei crebbe e anche lei si laureò ed ebbe il suo destino lontano dal paese di residenza: Palermo, Roma, Bologna, Padova. Per cui ogni volta lui mi chiedeva: “E’ venuta Rita? Come sta? Come va la sua fisica?” (Rita è laureata in fisica e lavora a delle ricerche nucleari a Padova dove risiede col marito). Forse una incrinatura di romanticismo nella sua razionale struttura di scienziato: il desiderio di una sorellina, che lui, figlio unico, non ha potuto avere.

Quando seppi ciò che improvvisamente gli era successo, un mio particolare senso premonitore mi avvertì che il nostro Pietro, il nostro dottore, per il quale esistevano i malati e non le malattie, in ambulatorio non ce l’avremmo trovato più. Non avremmo più goduto di quel suo sorriso leale di disponibilità e di accoglienza, di quella sua calda stretta di mano di conforto e di amicizia.

A Dio, dottor Pietro. A rivederci.


  Battesimi
di Marta



Il mese di giugno scorso sono stata invitata alla celebrazione di un Battesimo.
Ero veramente gioiosa di partecipare al primo sacramento di quella  nostra, dolce piccolina. Quel pomeriggio, quindi, tutti vestiti a festa ci siamo ritrovati sul sagrato della chiesa. C’erano tante persone con tante carrozzine e passeggini, e quindi diversi bimbi da battezzare coi vari nonni, genitori, padrini, madrine e amici. Ero un po’ sorpresa da questo Battesimo di gruppo, non vi avevo mai partecipato.
Ecco che esce il parroco dal portone della chiesa e, con sollecitudine, invita i presenti ad entrare svelti e prendere posto. Non eravamo ancora sistemati nelle panche che l’officiante inizia la formula di rito con la professione di fede. Non riuscivo neanche a distinguere le parole, sia dalla fretta, sia dalle urla di un bimbo che per tutto il tempo ha pianto a dirotto. Si passa subito al rito con i nomi e l’aspersione veloce di tutti i bimbi. Le camiciole bianche erano tutte pronte, come pure le candele… Il celebrante recita la preghiera di congedo, con l’aspersorio benedice tutti e se ne va. Sono rimasta scioccata. Pensavo ad una cerimonia lunghissima (essendo in tanti), invece tutto si è concluso in un baleno. Una signora mi ha poi spiegato che il parroco aveva molta premura perché aveva in programma un’altra celebrazione.
Qui a Ortonovo abbiamo ancora la fortuna di avere dei parroci che eseguono il rito quasi come fece  Giovanni Battista nel Giordano quando battezzò Gesù. Il nostro parroco don Andrea, ad esempio, è sempre molto felice quando celebra un Battesimo e ci sa tanto fare con i bambini che difficilmente piangono. Poi, al termine del rito, lo alza alla visione di tutta l’assemblea e spontaneo viene l’applauso. Dopodiché, sempre col piccolo tra le sue braccia, si avvia davanti alla statua di Maria Ausiliatrice per la recita di un’Ave Maria e l’affidamento alla Madonna.
Il Battesimo ci purifica dal peccato e ci fa entrare nella grande famiglia che è la Chiesa. Il Battesimo è solo l’inizio di un lungo cammino spirituale che durerà per tutto l’arco della nostra vita, per realizzare il disegno che Dio ha su ciascuno di noi: un disegno d’Amore!



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  CHERUBINI E SERAFINI
di Mila



 

Caro Sentiero, questa sera sono un po’ giù e allora, tanto per distrarmi, ho deciso di mettermi a scrivere. Voglio parlarti di una cosa che ho trovato tanto tempo fa in una spiaggia di Lagos, all’epoca capitale della Nigeria, sulle sponde dell’oceano Atlantico.
Non ricordo che giorno fosse, è passato tanto tempo, quasi quarant’anni, ma sicuramente era domenica dato che nei giorni feriali i mariti lavoravano e quindi si andava al mare soltanto la domenica. La spiaggia era lunga e stretta, per un tratto era ben tenuta, senza ciottoli e detriti vari, separata dal palmeto che le stava alle spalle da una fila di capanni di rami di palma che riparavano dal cocente sole africano. Era la zona dei “bianchi” o meglio degli “oyibo” come li chiamano in Nigeria. Gli oyibo arrivavano, pagavano per la “cabina” di foglie di palma, poggiavano le loro borse sulla spiaggia e via di corsa in acqua: insomma, tutto come qui da noi quando si va al mare.
Dunque, quella domenica, appena arrivata, avevo notato non molto lontano dal nostro solito posto, un gruppetto di africani, uomini e donne tutti vestiti di bianco, comprese le scarpe e i copricapo. Erano in riva all’oceano con le braccia tese quasi a volerlo abbracciare e cantavano, e pregavano, e urlavano: erano i “Cherubini e Serafini”, una setta, se così posso dire, che si diceva cristiana e che andava a pregare in riva al mare o lungo il corso dei fiumi in ricordo dei loro fratelli che, fatti schiavi, erano stati trascinati via lungo i fiumi e al di là del mare e non avevano fatto mai più ritorno.
Ne avevo sentito parlare ma non avevo mai avuto l’occasione di vederli da vicino, così quel giorno approfittai di un momento in cui tutti erano alle prese con panini e bibite varie, per sgattaiolare lungo la spiaggia verso il gruppo dei “Cherubini e Serafini”.
Loro però erano molto più lontani di quanto mi era sembrato e la spiaggia diventava sempre più sassosa e impraticabile perché ingombra di pezzi di legno, radici, alghe e tutto ciò che porta il mare quando è in burrasca e così decisi di tornare indietro. Avevo appena girato quando il mio sguardo fu attirato da qualcosa che spuntava tra due sassi; lo raccolsi: era una bandierina triangolare di stoffa, come quelle dei festoni che sventolano tra gli alberi delle imbarcazioni. Era bianca, sciupata, con macchie di ruggine, attaccata a una piccola asta di legno spezzata e corrosa dall’acqua salata e al centro c’era la figura di una donna, l’Assunta, sì, Maria Assunta in cielo. Non vi so dire l’emozione d’aver trovato in quella lontana spiaggia d’Africa, di fronte all’oceano Atlantico, l’immagine della Madre di Dio. Chissà come sarà finita lì!
L’ho sempre portata con me in tutti i miei spostamenti, ormai sono trent’anni che sono qui a Luni Mare, non ne avevo mai parlato con nessuno, ma ultimamente ci pensavo spesso, forse perché pensavo a tutta quella povera gente che muore in mare mentre cerca una speranza sulle nostre coste.
Sulla mia bandierina, ai piedi della Madonna, c’è anche una scritta; io credevo fosse arabo invece è risultato essere ebraico e c’è scritto (così mi hanno detto) “proteggi questa casa”. Mi spiacerebbe andasse persa quando non ci sarò più, così pensavo di metterla nella nuova chiesa di Luni Mare ma ormai ho poche speranze di vedere questa nuova chiesa, chissà. Forse la porterò a Roma e la regalerò a Papa Francesco; magari prima gli scriverò… Chissà.!



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  Festa della Madonna Addolorata a Caffaggiola
di Maria Vittoria



 

La Parrocchia del Preziosissimo Sangue, per volere del compianto don Lodovico Capellini,  da alcuni anni è stata  dedicata alla Madonna Addolorata. Quest'anno il parroco, don Andrea, ha voluto particolari segni per onorare  l'Addolorata. Molti fedeli hanno visitato e pregato presso la copia autenticata della Sacra Sindone, che è stata gentilmente concessa per l'ostensione alla nostra comunità.  Nella giornata di venerdì 12 settembre, prima della Messa delle ore 18, don Andrea ha scoperto  la  copia  della Sacra Sindone. Alle ore 21, in chiesa, la professoressa Mara Barbieri Lorenzini ed il dottor Giuseppe Cecchinelli  hanno tenuto una conferenza sulla storia del sacro lino che, secondo la tradizione  avallata da documenti e  testimonianze, ha fasciato il santo Corpo di Gesù.
Già durante la Messa il parroco aveva anticipato alcune note sull'argomento, ma i presenti alla conferenza serale hanno potuto arricchire la loro cultura in merito.  La professoressa Mara, dal punto di vista storico, con grande maestrìa e capacità sintetica eccezionale, vista la vastità enorme dell'argomento, ha percorso l'avventuroso cammino  della  Sacra Sindone che, nei secoli, è sempre stata salvata da pericoli di ogni genere, passando di mano in  mano, fino ad arrivare a far parte delle proprietà dei Savoia. Successivamente Umberto II, ha lasciato il preziosissimo lino al Papa nel suo testamento.  Attualmente  l'originale viene custodito dalla Curia di Torino.
La seconda parte della conferenza è stata tenuta dal dottor Giuseppe Cecchinelli: egli ha inquadrato  l'argomento sotto l'aspetto scientifico-religioso, sottolineando che il primo testimone della  Resurrezione di Gesù è stato proprio il sacro lino che avvolgeva il Suo corpo e che sono  presenti, chiaramente, sulla tela, i segni della passione del Signore e delle torture subite, ma anche  le prove della  sua Resurrezione. 
Davanti alla copia della Sindone, sabato 13 settembre, i fedeli hanno sostato - alle ore 21- in preghiera, per un'ora di adorazione alla presenza del Santissimo Sacramento. I partecipanti, molto numerosi, hanno ascoltato, intensamente coinvolti, la lettura dei messaggi  e delle considerazioni fatte, a suo tempo, da Papa Giovanni Paolo II, ora Santo, da Papa Benedetto XVI e da Papa Francesco.  Lunedì  15 settembre, festa della Madonna Addolorata, è stata celebrata la Santa Messa solenne,  presieduta da mons. Gian Luca Galantini, canonico della Cattedrale e segretario particolare del Vescovo, coadiuvato da  don Andrea e dal Diacono Paolo. Prima dell'inizio della Messa, don Gianluca ha benedetto la nuova statua della Madonna  Addolorata, che è stata portata in chiesa  in processione e deposta nel presbiterio, in attesa della sistemazione definitiva.  In precedenza, nell'ambito delle celebrazioni per l'Addolorata, i fedeli hanno partecipato alla novena in Suo onore, mentre mercoledì 10  settembre una solenne Liturgia Penitenziale ha dato inizio alla festa che, introdotta da poco nella parrocchia, sta sempre più coinvolgendo i fedeli, provenienti anche da altri luoghi.




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  Preti e “anziani”
di Don Romeo Rossetti – già Parroco di S. Martino di Casano



 

A qualunque cristiano di qualunque parrocchia, nella sua partecipazione all’attività della stessa, appare evidente l’assoluta insufficienza del numero dei preti locali ai fini del normale svolgimento delle varie attività liturgiche e spirituali in genere. Mi permetto, in questo senso, di portare due semplici ma caratteristici esempi:

1)    Nella diocesi di Piacenza, svolge la sua attività di prete un mio carissimo confratello, il quale pure essendo della elevata età di 94 anni, ha il compito di svolgere la sua attività in ben 4 parrocchie.

2)    Mi risulta che nel Brasile esiste una diocesi di ben 800 parrocchie, il cui Vescovo agli effetti dell’assistenza dei relativi fedeli può servirsi di soli 27 preti.

Si tratta di 2 casi limite pur tuttavia mettono in luce l’esistenza del sopracitato problema.
Come ovviare alla crescente carenza di sacerdoti nel mondo? Sono sorte da parte di Vescovi, specialmente di certe zone come l’Africa e il Sud America, varie proposte delle quali però ha la prevalenza, anche perché gode dell’apprezzamento da parte di Papa Francesco, la soluzione degli “anziani”, una soluzione d’altra parte che risale alle prime comunità cristiane: ordinare accanto ai preti celibi anche degli anziani con famiglia organizzati in equipes e legati alla parrocchia che li ha espressi. Negli Atti degli Apostoli  si legge come S. Paolo, insieme agli altri missionari, quando visitavano le comunità di recente formazione, in ognuna di esse designarono “anziani” (14, 23), affinché potessero celebrare l’Eucarestia. Quindi in ciascuna di esse non c’era un solo leader ordinato, ma diversi e nessuno di loro era stipendiato, ma continuava a svolgere il proprio lavoro. Per secoli ci furono preti che non erano inviati alla comunità ma sorgevano al suo interno.
La parrocchia dovrebbe prima di tutto studiare nelle Sacre Scritture la vita della Chiesa primitiva in cui le comunità cristiane provvedevano da sole ai propri ministeri. Poi i candidati dovrebbero ricevere una formazione per i compiti più semplici, come guidare la celebrazione domenicale. Essi inizialmente non dovrebbero avere l’obiettivo di essere ordinati, ma di aiutarsi a vicenda per rendere attiva la comunità. Molto più tardi, alcuni di loro potrebbero essere ordinati. I suddetti “anziani” dovrebbero esercitare il ministero sempre in equipes e mai da soli perché sono volontari e non preti a tempo pieno. I buoni leaders volontari non devono lavorare da soli né distinguersi troppo dai membri della comunità e non devono essere oberati di impegni. Inoltre un’equipe attira candidati con una mentalità comunitaria, può includere i giovani e adeguarsi più facilmente al mutare dei tempi rispetto ad un singolo individuo e rende possibile che quando qualcuno diventa meno adatto, possa fare un passo indietro. Senza contare che c’è più varietà se le liturgie sono guidate a rotazione da persone diverse .
Un solo leader locale sposato potrebbe essere ordinato in una comunità che non ha il sacerdote residente. Il loro principio guida resta, non quello della sostituzione del parroco mancante; dobbiamo abbandonare completamente questa idea e considerare l’equipe di “anziani” una forma diversa di presbiterato. Avere una equipe di “anziani” e non un solo “anziano” è il modo più efficace per istituire un ministero ordinato non “clericalizzato”. Essere l’unica persona ordinata nella comunità spingerebbe l’”anziano” a sentirsi speciale. Egli sarebbe tentato di comportarsi in modo preponderante. Se invece a essere ordinato fosse un gruppo, il pericolo si ridurrebbe. Poiché dovrebbero essere più di 3 “anziani” in una comunità, uno non dovrebbe presiedere ogni domenica. Nelle altre domeniche gli “anziani” che non presiedono si mescolerebbero con la comunità sperimentando di essere membri come gli altri.
Questa proposta non mira solo a superare la scarsità di preti ma anche rendere attiva la comunità. Quindi la costruzione di comunità idonee viene decisamente prima della ricerca di candidati adatti. Dobbiamo formare leader laici ovunque, anche dove ci sono ancora molti preti; impegnarci per costruire delle comunità in cui le persone lavorino insieme e condividere i compiti della comunità. L’obiettivo è creare una Chiesa partecipativa.

 

 

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