N° 4 - Aprile 2014
I nostri poeti
  L’incanto di nascere femmina
di M. F. Alieta Serponi




Tu, donna, sei il tramonto

che colora il cielo di porpora,

il cielo di notte ricamato di stelle,

l’alba radiosa del mattino,

il cielo azzurro d’un giorno d’estate,

la sorgente che disseta,

perché il tuo cuore è pieno d’amore.

Tu, donna, non sei il tempo che passa,

il vento che soffia:

sei il dolce maggio,

una rosa bianca che sboccia,

il fiore più bello mai colto,

e non appassirà all’impeto dei giorni.

Figlia, moglie, mamma, nonna:

sei l’incanto di nascere femmina

e di portare nel proprio grembo

il dono della Vita.

 

                  


  Felicità
di M.G. Perroni Lorenzini




Un tepido micio sul cuore,

un cane steso ai miei piedi,

il complice sorriso di chi amo,

l’affetto oramai quieto di mia madre,

la vivace dolcezza di mia figlia,

una casa che ci protegge tutti

immersa in un paesaggio ancora puro:

forse sei tutta qui, felicità,

anche altrove cercata.

Ti tocco, già trepida

per la certezza di perderti.

 

                          


  Le serpi
di Roberto Bologna (1985)



 

Vivere all’ombra

di un giardino spoglio,

dove il vento raccoglie

le ultime foglie,

è vivere lontano dalla vita

che mai sai cos’è,

se non quando se ne va

o la scacci via.

Vivere seduti

su una pietra ruvida,

dove le serpi rubano il sole,

È vivere assaporando

la gioia di morire.

                                      



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  Non piangere, mia terra di Liguria
di Anna Maria De Ghisi




Non piangere, mia terra,

se ti grido addio

e con mani di morte ti saluto,

varcando la soglia

che porta all’Infinito.

 

Non piangere, mia terra:

mi vedrai tornare

in questo regno

che credevo perduto

e rimanervi eterno.

 

Al tramonto sarò nell’oro

che si scioglie in mare;

e quando il mare

cullerà le sue onde

colme di sogni luminosi,

io sarò fra quei sogni.

 

Sarò lacrima di stella

e briciola di luna nel torrente,

mani di vento in corsa

carezzanti nuvole bianche

e vele e voli di gabbiani,

mani d’aromi pregne

di rose e salmastro.

 

Sarò nei sentieri che

mordon le colline,

nel rosso sorriso dei gerani,

nelle chiome dei vigneti,

nelle tue uve, negli ulivi,

nell’incenso dei pini.

 

Scenderò nuovamente

fra pareti smeraldine

tornando onda lunga

che le affaticate reti

intride e piedi nudi.

 

Tornerò, Liguria,

per guardarti con occhi

di luce.


(Fotografia di Alice Lorenzini)

 



  La Madonnina del sentiero
di Flora Gianfranceschi




 

Quando scorgi d’accanto, o passeggero,

incastonata là, in quel muricciolo,

la Madonnina del sentiero,

fermati almen per un minuto solo

e dille: “O Madonnina, io ti amo!”.

E’ dolce, sai, parlare alla Madonna,

qui nella solitudine montana,

qui, senza marmi e senza una colonna,

mera semplicità che gnun profana.

Raccogli un fiore, un filo d’erba, un ramo

per quell’immagine grande, umile e pia,

e dille: “O cara Madonnina, io ti amo!”.

Ella t’assisterà per ogni via

e il tuo passo svelto e affaticato

avrà un sostegno,

e avrai una guida a lato.

 




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  Imparare a capire
di M.G. Perroni Lorenzini (dal libro La casa sepolta, ed. Albatros)




 

Non voglio ripensare ai visi cari

sciupati da passioni, da rancori

e distorti nell’ira, nel furore…

Acrobati sul filo della vita,

in precario equilibrio, le cadute

non le contai, ma vidi ogni ferita

che, di riflesso, impressi nel mio cuore

giovane troppo e fronte di liti annose,

che non chiedevano che di riscoppiare,

e pieno solo d’impotente amore.

Ma è d’obbligo conoscere se stessi:

“gnòthi seautòn”, l’oracolo mi dice.

Così, spesso, riaffronto quel cammino

difficile, insidioso, senza fine.

Non mi smarrisco solo se ho quel lume

(il senno guadagnato a poco a poco)

che rischiara gli anfratti e le paludi,

mostra le cause prime di ogni errore

e mi aiuta a capire e perdonare.

 


CONGEDO


Imparare a capire per me non è stato facile. E’ un processo che ha richiesto molto tempo. E non credo di esserci riuscita ancora del tutto. Della mia vita di bambina, di ragazza e di giovane, poi, non ne ho voluto più sapere. Per lungo tempo l’ho tenuta sepolta in me, con una pietra sopra, nei recessi più nascosti della mia anima. Come la mia casa, che pure amavo, ma che mi ricordava troppi momenti d’angoscia. E così, com’ero fuggita dalla mia casa, ero fuggita anche da quella mia prima vita: in esilio, qui, a Montepulciano, occupata per circa vent’anni nella mia nuova casa, nel matrimonio, nella famiglia, nell’insegnamento. E sull’altra vita, quella di Arcola, gli occhi chiusi e il cuore chiuso. Tornavo là nelle vacanze e quando se ne presentava la necessità; e lì ogni volta mi toccava ancora di assistere alla divisione dei miei; e, se pur ormai marginalmente, anche a quella del paese. Ma io vivevo quei giorni con la consapevolezza che la mia vita, la vita che avevo saputo realizzare, la mia vittoria, era altrove. Quelli invece erano i residui, dolorosi ancora e insolubili, ma residui, dell’antica sconfitta.
Poi tutto si spense con la morte improvvisa di mio padre, seguita da quella dello zio Giacomino, a tredici giorni di distanza; e con la decisione di vendere la casa e di far venire mia madre, ormai quasi cieca, da noi a Montepulciano. Con tale decisione feci forzosamente interrompere anche l’altro motivo di continui sobbollimenti: la querelle tra mia madre e zia Elena; querelle che, appena morto mio padre, era, per il momento, finita nel silenzio e nel gelo. ; almeno tra loro due direttamente; ma che, rimanendo mia madre ad Arcola, avrebbe potuto nuovamente riaccendersi.
La lontananza diede a tutti maggior quiete; ed io cercai di evitare ogni occasione di rinvangare le cose passate. Come ho già detto, però mia madre, come tutti gli anziani e anche per suo proprio carattere, in quel passato ci viveva e spesso riapriva quelle ferite. Tuttavia la lontananza dal paese e il mio atteggiamento volto a farle ricordare le cose belle e passare velocemente sopra le altre, ci dettero quel tanto di pace che era necessario ad entrambe per affrontare poi le pene, già vicine e reali, della sua vecchiaia e della sua malattia; che purtroppo comportarono anche un riaccendersi di tutte le sue passioni e di tutte le sue nostalgie. Per cui i rapporti con mia madre, da vecchia e malata, visceralmente immersa nel suo passato, mi ripiombarono in quel dolorosissimo tempo lontano; tanto che fui costretta e riesumarlo, e riviverlo in tutta la sua crudezza e in seguito a raccontarlo.
E se dal “voler” ricordare le cose belle era nata La pace delle bambole, un’opera di rievocazione di tutto ciò che il paese e in parte la famiglia, nei suoi momenti migliori, mi aveva dato di bello e di buono, era giusto dover parlare anche dell’altro aspetto, quello negativo. Ed è qui che ho cercato di farlo. Dunque, La pace delle bambole  testimonia le mie ore più felici. Ne La casa sepolta  prevalgono le note più dolorose. L’uno e l’altro libro insieme rappresentano tutta la mia vita di allora, nel bene e nel male. Ma in questo mio secondo libro le note cupe sono state rievocate da sole all’unico fine di provare a capire se quelle persone in quelle condizioni avrebbero potuto essere diverse, tanto da poter comprendere il male che si facevano e facevano agli altri; e, in particolare a me, che intanto, però, con l’aiuto della scuola e dei libri, mi facevo via via diversa da loro, anche perché volevo esserlo.
Così, ad un certo punto, mi sentii abbastanza forte per le mie realizzazioni, anche se non tanto da fidarmi a rimanere in quell’ambiente che avrebbe potuto a poco a poco imbrigliarmi senza che neanche me ne accorgessi e tenermi prigioniera in quella vita di rancori, di dissidi, di lotte aperte o sotterranee, ma sempre feroci. E così me ne allontanai. E se dapprima credevo che la mia fosse solo una precauzione provvisoria, in seguito la decisione divenne definitiva. Fu una scelta dolorosa, ma obbligata.
Poi ancora più tardi, una volta spenti i riflettori, come alla fine di una recita, ho meditato, e la poesia Poveri burattini me lo dimostra, e mi sono impegnata nel trovare la via per poter, eliminando via via in me ogni possibile residuo di rancore ed entrando sempre più addentro nel ricordo, anche dove faceva ancora male, imparare a sempre meglio “capire e perdonare”. Ed ora, a libro terminato, mi sembra di aver capito. E, soprattutto, e di questo son certa, ho perdonato.

                                                           M.G. Perroni Lorenzini (dal libro La casa sepolta, ed. Albatros)




  Per il prof. Giuseppe Franciosi
di Maria Angela Albertazzi



 

Caro Professore, quanti bei ricordi

e quanti insegnamenti ci ha lasciato;

quanto vuoto per la mancanza della sua figura

socievole e piena di cultura;

quanti libri e poesie ha corretto:

 veramente tanti!

Grazie, Professore per la sua comprensione

e per il suo sempre volenteroso aiuto.

Ha lasciato sul nostro “Sentiero”

molte verità e perle di saggezza;

è stata una persona che molti

dovrebbero prendere a modello

per la sua accoglienza sempre cara,

per la tanta pazienza e un’educazione

che ormai è cosa assai rara.

Oltre al lavoro il suo orto amava,

che un buon raccolto le donava;

per lei era un bel passatempo,

almeno così ci raccontava.

Poi arrivò la dura prova:

la morte dell’adorata Giulia.

Grande era il bene che vi legava,

insieme al caro figlio Piergiuseppe.

Quanta gioia nella casa a Quarazzana:

eravate tranquilli e felici,

 facevate passeggiate nel bosco

assieme a tanti amici.

Ma, da allora,

 ha vissuto triste e sconcertato,

da cari ricordi e foto

nel suo studio attorniato;

pure sul tavolo dove lavorava,

 quante volte al giorno la sospirava,

e quando aveva gente intorno

sempre lei la ricordava.

Poi Piergiuseppe con Barbara s’è sposato

e un po’ di sorriso le è tornato,

son rimasti lì con lei

e non l’hanno mai lasciato.

Ora, caro Professore,

ha smesso di sospirare la beneamata;

ora, in modo diverso, l’ha ritrovata

in un mondo dove la vera pace

non è un’illusione,

guardando sereni parenti e amici

pregando per noi in questo mondo affannati,

aspettando il ritrovarsi tra noi beati.

Allora arrivederci, caro Professore,

uomo dei tempi moderni

ma col cuore rivolto al passato,

con orgoglio e stima

per averlo incontrato.

 

                                                        


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