N° 9 - Novembre 2012
Storie dei lettori
  LE LETTURE DEL TEMPO FERIALE
di Paola G. Vitale


 

 

            Prima di essere trasferito a Luni alta, a Cafaggiola, don Andrea ci aveva provvisto dei nuovi libri delle Letture, ma con lui non abbiamo potuto leggere tanto perché avevamo soltanto la Santa Messa del mercoledì. Ora, col nuovo parroco, don Roberto, abbiamo tre Sante Messe feriali: devo dire che le Letture di questo anno pari si fanno sempre più esplicative e pungenti, tanto da sorprendermi nel profondo del cuore. Tuttavia sono efficaci perché nell’attimo della “sorpresa” o del sobbalzo del cuore, riesco a intravedere la verità della questione e avverto lo sprone ad una più ferrea vigilanza e adesione di comportamento.

            Sì, perché la risposta è: “Gesù, ti amo!” E al termine della Lettura declamo tranquilla: “Parola di Dio”. Quindi, avanti sotto il manto di Maria Santissima!


  CARO DON LODOVICO
di Marta


 

 

 

                Il 10 novembre sono due anni sei andato alla Casa del Padre. Certamente  a godere i benefici del Paradiso assieme alla schiera degli angeli e di tutti gli eletti, dove anche noi mortali aspiriamo a giungere un bel giorno. Però ci manchi. Ci manchi come persona e come padre spirituale.

Ci manca quel tuo rimproverarci, quando lasciavamo le luci accese; quel tuo modo di risparmiare sul riscaldamento, accendendolo a funzione incominciata e chiudendolo prima del termine; quel modo di riprenderci (a volte un po’ burbero), ma subito dopo aperto al sorriso, allo scherzo; e ritrovarti subito pronto per i bisogni dell’anima, sempre a disposizione di tutti.

Caro Don, facendo una ricerca sui terrazzamenti dei muretti a secco delle 5 Terre dove tu sei nato, a Volastra, ho trovato un tuo scritto; non c’è nessuna data ma è firmato da te e si intitola: “Il ladro di letame” e dice così.

“Mio padre Enrico aveva impiantato nuove viti nella Rocca. Io avrò avuto 10-11 anni e fui incaricato di trasportare il letame. Feci un paio di viaggi da Volastra alla Rocca con sulle spalle la piccola cesta. Poi calcolai i tempi del percorso: 40 minuti per andare e 30-35 per tornare. Fu così che decisi di infilarmi sotto un fresco “autedo”, a metà strada tra la “Posa” e la “Mosca”. Calcolai il tempo del percorso, poi andai a rifornirmi del letame in un bel mucchio che avevo visto poco distante. Mi infilai sotto l’ “autedo” e riempii la cesta. “Ladrù, ladr de ledamu”, sentii urlare. Non mi ero accorto che il bene non era incustodito. Scappai via e solo dopo mi accorsi che ad urlare era stato il nonno Begheo che sicuramente, controluce, non mi aveva riconosciuto. Fu dura tornare da papà Enrico con quell’accusa infamante!”.

Certo, caro Don, simpaticamente ci immaginiamo la scenetta, anche perché sappiamo che eri un ragazzino molto vivace e molto vistoso, dati i tuoi capelli rossi. Adesso ho sotto gli occhi le belle parole che prima di “chiudere la porta” ci hai lasciato:

RICORDO TUTTI, PREGO PER TUTTI, RINGRAZIO TUTTI.

A TUTTI CHIEDO SCUSA DEI MIEI LIMITI.

E SE PER QUALCUNO SONO STATO PIETRA D’INCIAMPO, DOMANDO PERDONO.



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  LA SPIAGGIA DEGLI ANGELI
di Doretto


 

 

 

 E’ autunno. Il vento del nord ha portato via l’estate. Ma i ricordi dei giorni trascorsi sono vivi e ritornano prepotenti alla mente.

Era da tanto tempo che volevo tornare un po’ al mare. E’ così vicino, ma per me così lontano. Chi mi ci porta? Chi mi accudisce sulla spiaggia e nel mare? La mia gioventù l’ho trascorsa, d’estate, sulla spiaggia di Marinella. Quanti ricordi! Le serate allo Zena di Benito, con Enzo Tortora, Mina, Betty Curtis e tanti altri cantanti; addirittura Nunzio Filogamo col suo “Cari amici vicini e lontani…”. Mi accorgo che sto parlando di un secolo fa; addirittura facevamo le capanne sulla spiaggia con i canneti che abbondavano vicino alla riva del mare. E ora sono qui, col desiderio di ritornare laggiù, per rivivere quei momenti e rifare qualche bagno nel “mio” mare.

Ed ecco che leggo sul giornale che esiste, proprio a Marinella, una spiaggia per disabili, e che addirittura ci vengono a prendere a casa! Mi informo; telefono… ed ecco il pulmino dell’ATC con Alessandro, l’autista, che scende, aziona il montacarichi posto sul retro, mi sistema sopra e parte per il mare. Il pulmino è carico: siamo una ventina, tutti provenienti dalla vallata. Ed ecco la spiaggia. Finalmente rivedo il “mio” mare! Sulla sabbia ci sono dei sentieri di mattonelle che conducono al mare e a zone d’ombra coperte da pagode. Appena giunto, con mia moglie, ecco che subito un uomo molto abbronzato mi chiede dove vogliamo sistemarci. “Laggiù, vicino al bagnasciuga”, gli dico. E, subito, ecco l’ombrellone, la sdraio e il lettino. Penso che questo sia un sogno, invece è la realtà. Realtà che il Comune di Sarzana e la Caritas hanno realizzato su un tratto di mare tra i più belli al mondo. Ed è tutto gratis!

Ma tra le cose più belle ci sono loro: i volontari della Caritas! E’ commovente vederli quando, premurosi, si prendono cura di questi “angeli” (io i disabili li chiamo così, visto che anche l’ONU ha stabilito che  la parola ”disabili” non va più usata perché offensiva). Ero seduto, mi stavo guardando attorno: Gesù, quanta umanità che soffre! Attorno a me continuano ad arrivare ragazzi e ragazze su carrozzine, le più strane; ognuna  adatta alla disabilità di ognuno di loro. Ma ciò che più mi colpisce sono i bambini. Vicino a me c’è una mamma assopita su un telo da spiaggia e accanto a lei un bambino tutto disarticolato che la abbraccia e con le manine la accarezza. Lei fa altrettanto. Ha gli occhi chiusi, ma i gesti sono quelli di una mamma che accarezza la cosa più bella del mondo.

E allora, ancora una volta, mi ritorni in mente Tu, o Gesù. Crocifisso e Abbandonato. In ognuno di loro vedo Te. E ancora una volta dico che ti amo; amo questa umanità che soffre, ma la vedo già risorta con Te. Ed ecco che il Tuo amore si manifesta in questi volontari che si prodigano per aiutarli. Infatti ecco che arriva Lorenzo, uno di loro, con una carrozzina speciale dalle ruote larghe, vi pone con amorevole cura una ragazza e la porta nel mare a fare il bagno nell’acqua calda e accogliente. Ora ritornano: si vede che ora lei è contenta, soddisfatta, felice. Si legge nei suoi occhi! Sono bravi questi uomini; mi fanno pensare alle parole di Gesù: “Quello che avete fatto a uno di questi più piccoli, l’avrete fatto a me”. Io non so se la domenica vanno a Messa, ma so di certo che sono amati da Gesù, perché mettono in pratica le sue parole.

Ebbene, io voglio fare i nomi di questi “angeli custodi” di altri “angeli”: Andrea, Riccardo, Lorenzo, Roberto e vi racconto un episodio accadutomi nei primi giorni alla spiaggia. Per andare sotto il gazebo, all’ombra, dovevo fare un lungo giro per arrivarci. Un tratto di questo sentiero, fatto di mattonelle, passa vicino al gazebo. Tra il sentiero e il gazebo vi è un tratto di sabbia di circa quattro metri. Ero stanco. Allora chiamo Andrea, uno dei volontari, e gli dico: “Aiutami che sono stanco; dammi una mano a transitare sulla sabbia”. E così, in un attimo sono all’ombra sotto il gazebo. Mi sistemo sul lettino, rivolto verso il mare; mi metto a leggere e alfine viene l’ora di ritornare a casa.  Mi volto e… in quel tratto di sabbia che avevo fatto per accorciare il tragitto, era stato costruito un sentiero con le mattonelle! Sento una voce che mi dice: “Va bene così, capo?”. Sono rimasto stupito. Avevano lavorato tutta la mattina, senza che me ne accorgessi, per realizzarlo.

La sera ho telefonato al dott. Mione, dirigente della Caritas,  e gli ho raccontato il fatto; lui, soddisfatto ha detto: “Questa è la mia squadra, sono soddisfatto di loro!”. Caro dott. Mione, lo siamo anche noi! Grazie a tutti voi che avete aperto un angolo di paradiso a coloro che dalla vita hanno avuto poco. Ci auguriamo che questa iniziativa meravigliosa continui anche il prossimo anno.


  OGNISSANTI: LA TRADIZIONE TRAPASSATA
di Alma Vittoria Cordiviola


 

 

 

            Spesso mi domando se sia proprio inevitabile lasciarci colonizzare anche nelle tradizioni, oltre che nella lingua, nella mentalità e nel modo di vivere, subendo un’egemonia culturale altrui che finisce con lo svuotare e mortificare la nostra plurimillenaria cultura e le antiche tradizioni legate al territorio. Così oggi il nostro Ben d’i morti  viene sostituito da Halloween, un’occasione di festa per circoli, pub, discoteche e quant’altro. Vetrine piene di zucche di plastica annunciano la sarabanda di streghe, scope, abiti carnevaleschi, facendoci dimenticare che la zucca è già presente nella memoria dei Carraresi, infatti si dice: “Soris d’ zuka”, se riferito ad un sorriso largo e tirato, oppure se riferito ai morti ed in particolare al teschio, “zuka d’ mort”. Le stesse scuole sono in fibrillazione per preparare la festa di Halloween mentre il loro ruolo dovrebbe essere quello di promuovere cultura e non quello di “andare a rimorchio”.

            Ognissanti è diventata una festa che non induce a momenti di riflessione, che allontana dal cordoglio, dalla commemorazione, dai riti consolidatisi nel tempo a Carrara. Di morte, si parla solo se fa spettacolo altrimenti la si ignora. Non troppi anni fa esisteva un filo che la legava alla vita nella quotidianità, mentre oggi si assiste ad un suo progressivo allontanamento dal luogo dei vivi. Si trapassa sempre più negli ospedali e sempre meno nelle case, mai in modo tanto asettico e così drammaticamente solo come oggi. Il rapporto con l’aldilà è una sorta di cambiale in bianco: ai più interessa lo stare qua, il presente. La “signora in nero” è un tabù da nascondere, da scacciare, una zona di confine della vita che spaventa, anche se continuiamo a dirci che rinnegarla significa abdicare ad una delle più importanti domande dell’umanità. L’obiettivo primario è quello di raggiungere la ricchezza, considerandola la chiave che apre le porte della felicità, dell’invincibilità e si pensa che anche la morte abbia un prezzo da poter spendere per allontanarla. Così sempre più spesso, sia per la festa dei Defunti che per la festa di Ognissanti, una folla sempre più demotivata varca i cancelli dei cimiteri. Forse sarà perché il culto del “vitalismo” esasperato, nel tempo, ha usurato il senso della morte rimuovendola dalla sensibilità corrente? I vivi con i vivi, dunque, i morti con i  morti.

            Mi piacerebbe, se potessi, recuperare queste due feste così come erano, oltre il ricordo struggente di chi non è più con noi. Recuperarlo nella sua interezza fatta di cordoglio, sensazioni, percezioni, gesti rituali, odori, sapori, colori. Nella mia infanzia il ponte dei morti aveva un significato metafisico perché in quei giorni si stabiliva un contatto con l’aldilà, percorribile in entrambe le direzioni. Già dalla prima mattina donne e bambini poveri bussavano alle porte chiedendo il Ben d’i morti; ognuno dava, secondo le proprie possibilità: uova, farina di castagne, olio, fave secche, fichi secchi… Un modo nobile per onorare che non c’era più, dando un segno tangibile di solidarietà ai meno fortunati.

            C’era poi la visita al cimitero ma una più arcaica convinzione sussurrava che ci fosse la visita dei defunti ai loro cari viventi. La vigilia di Ognissanti era soprattutto la festa della famiglia che si ritrovava insieme, tutti i presenti uniti agli assenti. Il fuoco acceso, l’aria odorosa del cibo rituale: farro con fave o fagioli, castagne bollite con alloro e finocchio selvatico, l’aspro della vinella e il frizzante della “gr’spia” della quale il primo bicchiere era versato in onore di tutti i defunti, anche di quelli sconosciuti; la fragranza del semplice “pan d’i morti” e la ritualità solenne, nell’indossare la collana di castagne infilata dalla mamma, adorna di mele rotelle: la “kodana d’i badoti” o “filza” che veniva appesa in fondo al letto e indossata di nuovo la mattina seguente. Le candele poste davanti ai ritratti si  consumavano lentamente, come pian piano si recitava il Rosario; poi tutti a letto, mentre sul tavolo o sul focolare si lasciava del cibo per gli attesi visitatori. C’era anche chi, in gran segreto, per impedire che gli spiriti importuni e tormentati salissero le scale, insaponavano i gradini. Tutti i lavoratori del marmo, compresi i non credenti, si recavano al cimitero. Qualcuno affermava: “I santi a ni abian kunusuti, ma i morti sì”. La mattina ci si alzava molto presto per far posto nel letto; si cambiavano le lenzuola mettendo quelle più belle e fresche di bucato, poi si andava alla prima Messa.

            Un attento osservatore può ravvisare nella vigilia di Ognissanti un’ambiguità di fondo: da un verso la bontà del ricordo e della vicinanza, dall’altro la paura – da esorcizzare – di un tormentato rientro sulla terra. Quella sera tutti in casa molto presto, non tanto per timore, quanto per rispetto del previsto traffico d’oltre tomba. Strade, vicoli, piazze, secondo la fantasia popolare, erano affollati da anime del Purgatorio che tornavano a casa, o che visitavano i luoghi abituali e cari. In questa notte anche i contadini guardavano con rispetto reverenziale le inquietudini dei propri animali. In quel giorno, infatti, si riteneva fossero portatori sani di messaggi venuti dall’aldilà: così il miagolio del gatto, il muggito della mucca, il latrato del cane evocavano presenze, segni e lamenti.

            La vita era intrisa di queste ingenue superstizioni: ma non erigiamoci a giudici severi, perché ancora oggi maghe e maghi, cartomanti e quant’altro pervadono quest’era della tecnologia. L’aspetto positivo di quel giorno, al di là della selva di usanze arcaiche, era nella capacità di “addomesticare” la morte, di accettarne la contiguità, di viverla senza rimuoverla.


  UNA FAMIGLIA SOTTO LA BUFERA
di Maria Giovanna Perroni Lorenzini


 

 

 

 

 

L’erma bifronte

Nel silenzio, rimiro, sbigottita,

l’erma bifronte, statua del ricordo:

le facce son diverse, contrastanti,

ma ognuna guarda avanti e ignora l’altra.

 

 

 

            Credo di conoscere con certezza quale fu l’episodio che diede il più forte colpo a quello stato di grazia che possedevo da bambina e che ho chiamato la mia “pace delle bambole” o anche, in omaggio al Foscolo, in altra poesia, Occhi sgranati, il mio “velo delle Grazie”. E con queste metafore intendo alludere a quegli orrori che, numerosi, senza che io fossi capace di ostacolarli in qualche modo, si verificarono intorno a me.

            A Pola, infatti, come accade al bimbo de La vita è bella, il male, sebbene vicinissimo e minaccioso, non riuscì a sfiorarmi, dato che la mia piccola famiglia riuscì a mostrare sempre a me il suo volto più sereno. E anch’io, come quel bimbo, a Pola vissi come in una favola. Eppure in quella città la guerra coinvolse i civili più che nei luoghi non di confine. E numerosi furono gli italiani, anche donne e bambini, che finirono nelle foibe ad opera dei titini.  E, tra gli altri, anche gli uomini che abitavano nella mia palazzina, escluso papà che si salvò per miracolo. Ma io non mi accorsi della paura che talvolta sfigurava il volto dei miei. Come ignoravo che mio padre era in pericolo, ogni giorno, andando al lavoro in arsenale. E, quando suonava l’allarme, e suonava a qualunque ora, mi recavo nei rifugi come fosse una cosa naturale., senza comprendere il pericolo delle bombe.

            Fu solo ad Arcola che incominciai a rendermi conto che a minacciarmi c’era un male dai contorni ancora indefiniti. Ma anche lì, finché il piccolo mondo che mi circondava rimase, o meglio mi sembrò rimanere sufficientemente compatto e concorde, non ebbi che occasionalmente qualche percezione di pericolo. Ma appena quel guscio che mi proteggeva, il quale, adesso che ero già più grande, oltre alla mia famiglia, con nonni, zii e parenti vari, oltre agli sfollati che erano in casa, cominciava a comprendere una parte dei compaesani, mi mostrò improvvisamente le sue lacerazioni, io persi gran parte della mia sicurezza. In una parola, fu la presa di coscienza di una guerra civile in atto; furono le insanabili divisioni già da tempo presenti nella società ma che il dispotismo del fascismo aveva esacerbato anche lì, nel mio piccolo paese; furono le epurazioni e le sommarie esecuzioni avvenute subito dopo la Liberazione; fu, insomma, quando feci la brutale esperienza dell’odio, io che vivevo d’amore, che il mio mondo cominciò a frantumarsi. E incominciai a svegliarmi dal bel sogno che fino ad allora mi aveva almeno in parte difeso. Quella circostanza drammatica fu la duplice uccisione dello zio Alberto e del nonno Giovanni, nel 1945.

            Della morte dello zio Alberto, so, dal racconto dei miei, che fu processato e, sembra, assolto; ma che venne poi ucciso da una fucilata mentre stava tornando a casa e che il suo corpo fu ritrovato nel fiume Magra dopo una settimana. Direttamente rammento solo l’ansia dei miei prima e, poi, le crude descrizioni del ritrovamento. Ma non ho ricordi neanche della persona dello zio. Ho invece un’altra idea, seppure un po’ vaga, della figlia del nonno Giovanni. Ed ho come un lampo di ricordo sulla sua morte.

            Si era alla fine di giugno, credo fosse proprio il giorno di san Giovanni, l’onomastico di mio nonno,; io stavo con mia madre sul poggiolo aggettante sulla via Garibaldi, quando nella strada giù sotto passò rombando una motocicletta montata da due uomini. Poco dopo si udirono delle urla su, allo sbocco della via in piazza Madonna; e sentii alcune donne gridare a mia madre qualcosa che non capii; ma lei impietrì; poi corse dentro, in camera sua, e la ricordo mentre frugava meccanicamente tra i pochi vestiti appesi nell’armadio, per cercarne uno da mettere; ma senza riuscirci, perché non li vedeva. Io l’aiutai a indossarne uno a caso e lei uscì di corsa; ma non prima di aver detto a nonna Iole cosa era successo. E così seppi che avevano ammazzato il nonno Giovanni. Poi, più tardi, conobbi anche come. I due uomini sulla moto si erano fermati in piazza Madonna, dove era l’ufficio delle Poste; erano entrati e, mentre il nonno, che era l’ufficiale postale, domandava loro cosa volevano, uno gli aveva sparato a bruciapelo; la scena si era svolta sotto gli occhi di zia Elena, anche lei impiegata in quell’ufficio. I due non avevano chiesto soldi e non avevano proferito parola. Evidentemente si era trattato di un’esecuzione politica. La cosa strana, però, era che il nonno non era nemmeno fascista. In gioventù era stato un anarchico e aveva perso un dito proprio nello scoppio di una bomba che stava fabbricando. Ma, in seguito, non si era più interessato di politica, anche se aveva visto con favore che i giovani suoi figli si iscrivessero al Fascio, scorgendo senz’altro in ciò una dimostrazione di virilità: quella stessa che lui aveva dimostrato, in ben diverso partito in gioventù. Probabilmente quel delitto si spiega, come forse anche quello dello zio, con l’intreccio tra odi privati e motivi politici, in un momento di confusione in cui tutto si poteva affermare, tutto si poteva credere e tutto ci si poteva permettere. E a causa di questo momentaneo disordine politico e civile, il mistero non fu mai ufficialmente risolto.

 

 

 

  IL FIUME RACCONTA: L’uomo del “penelo”
di Angelo Brizzi


 

 

 

            Quando i miei figli erano bambini, abitualmente nel periodo estivo, si faceva del campeggio giornaliero nel greto del Magra. Si montava la tenda e due ombrelloni ben piantati nella sabbia sulle sponde di un piccolo ristagno: luogo ameno dove ombra e sole giocavano con le acque limpide; la poca profondità era la gioia dei piccoli poiché permetteva loro i immergersi e giocare in sicurezza; la frequenza di altre persone era discreta e di piacevole conversazione. La relazione più interessante si fece con un uomo un po’ schivo, anziano, con una chioma di capelli dai riflessi argentei cadenti sulle spalle; la barba lunga e ispida, vestito in maniera curiosa. Si definiva non vecchio, ma antico pescatore. Era polemico con l’acqua: troppo calda o troppo fredda; torbida o limpida; per la scarsa pesca si adirava con tutto l’universo; se abbondava, si batteva una mano sulla spalla lodandosi: “Bravo Guglielmo, sei proprio bravo!”. Abitudinario, si posizionava sempre sull’ultimo blocco di pietra prospiciente l’acqua alla punta del “penelo”, argine artificiale formato da blocchi di pietra e terra, proteso dalla sponda naturale verso il centro dell’alveo. Seduto sullo sgabello, sparpagliava l’attrezzatura intorno a sé. Il rituale era ripetitivo: buttate due lenze in acqua, calato il cappello sulla fronte, apriva al segno il libro dei salmi e leggeva aspettando la “toca”.

            Un pomeriggio, mentre camminavamo lungo il viottolo sulla sponda presso il “penelo”, l’attenzione dei bambini fu attratta dalla quantità di pesce nel paniere di Guglielmo. Andammo a fargli i complimenti per la fortunata pesca. Egli, quel giorno, ci mostrò allegria e gioia spensierata; ci parve un buon momento per chiedergli di raccontarci qualche fatto curioso o qualche avventura di cui era stato protagonista nella sua vita di pescatore da barca e da canna. Evidenziò subito con un sorriso la gran voglia di parlare del “suo” fiume; lui che era nato lì, a un tiro di schioppo, in quella casa che si vedeva in fondo al filare di pioppi. “Ah, esclamò, quanti ricordi su questo fiume! Voi che non abitate qui non sapete cosa sia il fiume per il pescatore: di giorno è meraviglioso, la notte, nel buio cieco, è sconfinato, silenzioso e perfido; non brontola, le sue acque han l’eterno movimento”. Per alcuni minuti stette in silenzio tenendo lo sguardo fisso alla sponda avversa. Poi proseguì: “Mi chiedete di narrarvi qualcuno dei miei ricordi? Vi narrerò una cosa capitatami un bel po’ di anni fa.

Ho sempre vissuto in quella casa bianca in fondo al pioppeto; era un pomeriggio d’inverno in cui la sera scende presto; le nubi nel cielo erano nere come la pece, stracariche d’acqua; aspettavano il momento in cui il vento avrebbe perso un po’ della sua forza per rovesciare il loro carico; l’acqua del fiume, quasi al limite della piena, sotto le sferzate del vento, sbatteva le sue onde contro le sponde, stampando livelli sempre più alti: faceva paura, ma era pur bello al brillio dei lampi che saettavano all’orizzonte. Quando a lor parve giunto il momento, i tuoni e i lampi persero un po’ del loro vigore, il vento calò di forza, le nubi aprirono le “stive” dando il via al nubifragio. Calata la notte, dalla finestra ormai non vedevo più il fiume. Mi sedetti al caminetto, attizzai il fuoco col pensiero volto alla mia barca attraccata al pontile. Quando il buon Dio volle, la burrasca calò quasi fino a cessare; il cielo si aprì quel tanto per dar modo ad una semispenta luna di apparire per poco. Sembrava che la calma avesse preso il sopravvento: uscii e guardai verso il canneto, ma nulla mi apparve distinto. Laggiù, poco prima del ponte, avevo l’ormeggio. Mi lasciai tentare dalla parvenza di tranquillità; indossata una giacca a vento, presa un torcia elettrica, mi avviai con l’intento di raggiungere il pontile. Camminavo con ansia, quasi con paura, avevo una strana sensazione; vedevo i ciuffi delle canne che mi circondavano; la torcia si stava esaurendo, allungai il passo, volevo arrivare. Maldestramente incespicai in qualcosa  e caddi a terra; mi rialzai senza fatica: la torcia si spense del tutto lasciandomi al buio.

L’ondeggio delle canne ad ogni folata di vento, lo scricchiolio dei rami secchi dei pioppi, mi procuravano emozioni sgradevoli come in situazioni di pericolo; capii che i miei nervi erano un po’ scossi. Arraffai una canna a tastoni, la spezzai ad uso bastone per battere il terreno circostante; trovai un ciocco d’albero e lì mi sedetti stendendo la gamba dolorante. Non avevo mai desiderato tanto come in quel momento di poter fumare la mia pipa, ma nel fornello, al posto del tabacco, c’era solo fango. Non so quanto tempo rimasi in quella posizione, appisolandomi.

Poi fu come un risveglio: la natura si era addolcita, il vento era brezza, la pioggia battente era pioviggina, il fiume aveva affievolito la voce. Quella esigua calma mi convinse a proseguire verso il pontile: mi parve la cosa più sensata da fare. Tastando il terreno con la canna avanzai di qualche metro ma affondai col piede in un solco pieno d’acqua provocandomi l’acutizzarsi del dolore al fianco. Non sapevo più cosa fare: mi imposi di andare avanti a tentoni, con cautela. Feci pochi passi; improvvisamente una luce si accese là davanti, sull’argine, perlomeno dove credevo vi fosse; era una luce potente ma non mi abbagliava, anzi la sua bellezza mi affascinava. Per ben tre volte cercai di avanzare, ma ogni volta aumentava l’intensità di quella luce; al che, spaventato al limite del terrore ed avendo in me la ferma volontà di non soccombere alla paura e non sapendomi spiegare il perché di quell’inesplicabile fenomeno, adagio adagio, senza mai voltarmi, feci ritorno.

Il mattino seguente rimasi sorpreso e meravigliato dallo straordinario spettacolo del sole: mi sembrava di essermi svegliato in un paese fiabesco come nei racconti di viaggiatori provenienti da terre lontane. Lesto come una lepre, trafelato e sudato raggiunsi il fiume: il pontile era intatto, la barca ormeggiata alle bitte, ma la fiumana della notte aveva cambiato la configurazione dell’argine, scavando tra il pontile e il nuovo punto di sponda una insenatura larga circa 7-8 metri ove l’acqua, spinta dalla corrente, creava mulinelli. Mi resi conto dello scampato pericolo; guardai bene attorno cercando una spiegazione a quella strana luce nella notte, ma non trovai alcunché.

Da allora, nelle sere d’inverno, quando l’acqua scroscia dal cielo e i lampi saettano all’orizzonte, vado alla finestra e guardo giù, verso il canneto e ripenso a quella notte: un brivido mi contrae i muscoli della schiena, dandomi una sensazione di freddo”.



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  PELLEGRINAGGIO AI RESTI DELL’ANTICA BASILICA
di Paola G. Vitale


 

 

 

 

         Sabato 6 ottobre la diocesi di La Spezia-Sarzana-Brugnato ha ripreso il tradizionale pellegrinaggio del primo sabato di ogni mese a Maria Santissima - iniziati da  vescovo Moraglia, ora Patriarca di Venezia-, coniugandolo con l’inizio dell’Anno della Fede, promosso da papa Benedetto XVI.

         Grande emozione per l’avamposto di San Pietro in Luni Mare l’avere ospitato la grande, bella, antica statua della Madonna Pellegrina del Seminario diocesano di Sarzana la cui figura parla subito al credente: la mano destra del Bambino Gesù si alza e indica il Cielo e la mano sinistra indica il cuore di sua Madre, Maria Santissima.

         La mattina, nel punto di ritrovo presso la chiesa di Luni Mare, c’è tanto concorso di sacerdoti di ogni età e grado e tanti pellegrini che mai hanno raggiunto questa zona della diocesi. Alle ore otto la processione prende il via: la portantina con la statua della Madonna viene portata a spalla, a turno, dai seminaristi e dal Rettore del seminario; passato il cavalcavia dell’autostrada, una via sterrata oltre il canale ci ha permesso di raggiungere il prato ombroso di ulivi dove erano disposti l’altare, le file di sedie e di panche e a lato, i tavoli per il rinfresco finale.

         L’emerito vescovo, Bassano, come sempre ben disposto, ha richiamato l’attenzione di tutti alle origini molto antiche della fede portata in questa florida terra romana prima delle invasioni normanne e saracene. I resti della grande e bella cattedrale, dedicata probabilmente a San Pietro e a Maria Assunta, sono lì a testimoniare la pienezza della Fede che ha portato a Roma due papi da questa terra: S. Eutichiano e poi, da Sarzana, Nicolò V.

         C’è stato, molto raccoglimento; il coro di Isola ha arricchito con i canti la bella celebrazione. Ringraziamo le autorità intervenute, gli uomini della Protezione Civile e la direzione del Museo di Luni   per l’ottima accoglienza..

         Deo gratias.

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