N° 3 - Marzo 2010
Storie dei lettori
  Far tornare di moda Dio
di Giuliana Rossini


 

 

 

FAR TORNARE DI MODA DIO

 

         Che bello ritrovarsi fra tante persone conosciute e non, essere come in una grande famiglia!  Una famiglia di oltre 1600 persone, ma qui tutto funziona bene, perché tutti si sforzano di vivere la legge dell’amore scambievole.

         Sono ad un congresso che tratta l’importanza della comunicazione, argomento assai attuale oggi, dato il grande rilievo dei mass-media che hanno il compito di far entrare gli uomini in comunione tra loro. Titolo del convegno è “L’amore che unisce”. I mezzi di comunicazione possono aiutarci a comunicare e diffondere il Vangelo, ad essere motori di unità e fraternità universale, a farci diventare, come diceva il grande papa Giovanni Paolo II, “tutti per tutti”.

         Ma essi presentano, oltre agli aspetti positivi, anche quelli negativi, soprattutto perché mal utilizzati. Come fare a rendere positiva la comunicazione, senza esserne usati, evitando l’eccessiva spettacolarizzazione, la strumentalizzazione della sofferenza, la globalizzazione che soffoca le ricchezze individuali, ecc.?

         Prendendo a modello Gesù - Gesù Verbo è il Comunicatore per eccellenza -, Egli, crocifisso, che si dona completamente al Padre, diviene il “Mediatore”, come una pupilla attraverso la quale Dio può vedere l’umanità e l’umanità Dio. Ma come la pupilla rovescia l’immagine, anche in Cristo, da peccatori, usciamo trasformati; similmente possiamo trasformare il negativo in positivo anche nella comunicazione. Gesù nel suo darsi si rivela Padre e ci introduce nel mistero della Trinità, il cui amore deve penetrare anche nel modello educativo per promuovere la fraternità universale.

         Fin dalle prime battute sono affascinata da questo argomento e capisco che occorre gridare la parola di Dio dai tetti, facendo ritornare Dio di moda nella quotidianità, ma anche nella stampa, alla TV, al cinema, su internet… Ma poiché si giunge a Dio attraverso il fratello, bisogna porre al centro dell’attenzione le relazioni, stabilendo rapporti di conoscenza e di ascolto, facendosi uno con l’altro. L’uomo, immagine di Dio, deve essere posto, nella comunicazione, al centro, ricordando che è lui che importa e non il mezzo.

         Mi piace concludere con una frase tratta da una canzone ascoltata al congresso: “Non è vero che il cielo è lontano, perché ho visto cadere il cielo ed entrare in una goccia d’acqua!”.


  Il Serpente ? Guai se gli pesti la coda!
di Padre Carlo Cencio, Missionario carmelitano


 

 

 

 

         In Centrafrica ci sono molte specie di animali: scimmie, elefanti, antilopi, leoni, bufali, pantere, leopardi, giraffe, facoceri, iene… Non si incontrano comunemente, ma si possono ammirare nel loro habitat naturale all’interno delle grandi riserve a sud e all’estremo nord-est del Paese.

         Fra gli animali pericolosi e infidi ci sono indubbiamente i serpenti. Ce ne sono di vari tipi. E’ molto noto il pitone, che spesso qui viene chiamato anche boa per la sua lunghezza e forza. Viene cacciato per la sua carne e per la sua pelle. E’ pericoloso, ma non velenoso: inghiotte viva la sua preda dopo averla soffocata nelle sue spire e la digerisce molto lentamente. Io l’ho mangiato, è molto saporito, ma non vorrei incontrarlo da solo.

         A parte questi colossi, ci sono infinite specie di serpenti, di lunghezza e forma diversissime. Sono quelli che vediamo normalmente intorno alle nostre case o addirittura in chiesa o in camera. Salgono sugli alberi e si arrampicano perfino sui muri con una certa facilità, se trovano qualche sporgenza o un minimo appiglio. Sono molto veloci, ma non attaccano l’uomo; se possono, fuggono, perché lo temono. E’ l’uomo che spesso, per errore, attacca il serpente ed esso non fa che difendersi con il suo morso velenoso. Qui in Centrafrica i serpenti sono tutti velenosi: non ci sono le bisce. La potenza del loro veleno, però, è diversa a seconda del tipo. Dicono che il veleno di alcuni serpenti lasci pochi minuti o addirittura pochi secondi di vita, come quello dei mamba. Ma pare che questi serpentini micidiali qui non ci siano.

         In genere l’africano si difende con pozioni speciali, con il fuoco o correndo da un guaritore. Noi teniamo l’antiofidico nel frigo. Qualcuno porta con sé anche la pietra nera. Capita però che il morso di un serpente sia improvviso. E allora? Ecco cosa mi è successo.

         Stavo esaminando il torrente vicino al nostro seminario. Volevo trovare un punto facile in cui costruire una passerella o praticare un guado. Per trasferirmi da un punto all’altro, dovevo attraversare un campo disboscato da poco con rami e sterpaglie sparsi dappertutto. Proprio per evitare cattivi incontri, Maurice volle camminare davanti a me; io indossavo scarpe da tennis e pantaloni corti, lui era in sandali, peggio ancora. Certo non indossavamo tute di sicurezza. Ma ero abbastanza tranquillo perché gli africani “sentono” il serpente prima ancora di vederlo. Marciavo dietro a lui con attenzione, c’era parecchio sporco ed io ero in dubbio se continuare o tornare indietro. Ad un certo punto lui ebbe un sussulto, come chi ha sentito qualcosa di strano: si arrestò un istante e poi proseguì spostando una frasca. Mi accorsi di quel gesto ed ebbi paura. Mi fermai e alzai la gamba destra per fare un passo indietro, ma proprio mentre stavo per posare il piede a terra, sentii nel polpaccio due colpi decisi. Feci in tempo a girarmi e a vedere il serpente. Terrorizzato, avevo fatto un salto per allontanarmi e mettermi fuori tiro. Pochi secondi. Mi resi conto di essere stato morso da quel serpente, che ora se ne stava fuggendo veloce, fra l’erba secca e la sterpaglia. Era lungo e striato di nero e di bianco. Ebbi un fremito e un solo pensiero: “Signore, è finita, sono qui”. Ero convinto di sentire immediatamente il veleno invadermi il corpo e arrivare al cuore e ai polmoni. In pochi istanti mi avrebbe ucciso le cellule e mi sarei sentito bloccare e soffocato nella morte. Invece non sentivo nulla. Allora dissi a Maurice: “Torniamo a casa, mi ha morso quel serpente…”. Era ancora là che si allontanava verso il torrente. Con calma ripresi il sentiero del ritorno. Pensavo: forse il veleno non è penetrato…Lungo il tragitto incontrai un operaio e gli feci vedere i morsi sul polpaccio. Questi mi disse: “Ha morso proprio forte, il veleno è penetrato”.

         Entrato in seminario, vidi padre Domenico e gli diedi la notizia con una certa calma, ma lui disse: “Presto, prendi l’antidoto in frigo e corriamo all’ospedale. Mi detti una lavatina alle gambe e mi cambiai di corsa. Poi salimmo in auto con l’antiofidico in mano. Non sapevamo come si facesse quel tipo di iniezione, e fu meglio così. Quando arrivammo, la suora infermiera era occupatissima con una partoriente. I minuti passavano e io cominciavo ad avere paura, ma non sentivo fisicamente nessun effetto. Però a un tratto, sentii come un effluvio interiore: qualcosa che saliva dal basso all’alto dentro di me…Feci due urli per spingere qualcuno a prendere una decisione. Padre Domenico corse da un altro dottore. Finalmente uno ci dette udienza e mi chiamarono. Corsi subito là. Un infermiere centrafricano aveva ricevuto l’ordine di farmi l’iniezione. Avevo la siringa pronta in mano, egli la prese e cominciò a bucarmi dal polpaccio su, su…fino alla schiena e ai fianchi. Iniettò l’antidoto qua e là.

         Tutto riuscì perfettamente. Non ebbi dolori, né nausee, né gonfiori. Al pomeriggio ero di nuovo al lavoro nell’orto. Ora sapevo per esperienza che ai serpenti non bisogna pestare la coda e che ce ne sono di quelli che ci lasciano almeno venticinque minuti di tempo per prepararci alla “buona vita” o alla “buona morte”.


  Noi e la neve
di Carlo Lorenzini


 

 

 

 

    

NOI E LA NEVE

 

         …E ancora pensieri. Pensieri lontani. Per esempio, pensieri a proposito della neve… Generalmente la neve fa parte dei ricordi dell’infanzia. Per me non è così. Data la rarità delle nevicate negli inverni del mio paese d’origine, in Liguria. Semmai, in quegli inverni liguri, gelate e piogge e temporali e tempeste di vento. Ma quasi mai la neve.

         Della neve della mia infanzia, dunque, ho ricordi labili ed evanescenti. Non più che un esile e candido tappeto, deserto e silenzioso, a ricoprire, raro e fragile, i tetti delle case nel paese, gli uliveti e i boschi di querce e di castagni, giù per la collina.

         Di un’altra neve invece ho vivo ricordo. La neve, frequente negli inverni, abbondante e di lunga durata, qui a Montepulciano, negli anni Sessanta. Ricopriva, altissima, tetti, vie, strade, viottoli, camminamenti, campagna. Pesava, inerte e ostinata, sugli alberi, piegandoli, abbattendoli, rompendoli, straziandoli.. Noi eravamo giovani insegnanti, allora, appena sposati; Rita, la nostra unica figlia, ancora nella fantasia. Abitavamo in campagna, a mezza collina. E durante queste nevicate, andavamo a scuola a piedi, su per la ripida salita del Cimitero vecchio, fino alla Fortezza, sede del nostro Liceo. Assieme. Tenendoci, a volte, per mano. In mezzo a quel deserto tutto bianco. Accompagnati da quegli alti cipressi, che da due lati costeggiavano la via e che piegavano sgomenti le loro cime sotto il pesante carico. Del cimitero lì, lungo il cammino, quasi più nessuna traccia. Non il rumore delle corriere, delle automobili. Neve, e silenzio.

         E, andando, ogni tanto mi diceva: “Sono stanca, fermiamoci un momento”. E ci fermavamo, a guardare intorno, anelanti, le cose, le piante, ingoiate subito poco lontano dalla lattiginosa nebbiosità dell’aria. E ogni tanto lei guardava me, le guance rosse e il naso rosso. Incappucciata, insciarpata, incappottata, inguantata. Scoperti aveva solo il riso della bocca e il rosso candore di tutto il viso.  Ma sotto quel cappuccio c’erano i suoi capelli lunghi e biondi; nascosto da quella sciarpa il suo collo candido ed esile e il suo seno di donna giovane, che palpitava pieno; protette da quei guanti le sue mani, lunghe e mobili, mani già di moglie e di amante; e sotto quel cappotto, il suo corpo, quasi ancora di ragazza…

         Poi si riprendeva la via verso il Liceo, verso il fervore e l’appassionata avventura delle lezioni. E dopo, il ritorno da scuola: per la stessa via, sulla stessa neve, in discesa, veloci, impazienti di arrivare…Il caldo e l’accoglienza della nostra casa. Il silenzio. La solitudine. La breve e febbrile preparazione del pranzo. Il continuo reciproco parlare sulle esperienze, le cose e le persone della mattinata. Il reciproco e continuo guardarci, con nel cuore e nei sensi pensieri espressi e pensieri nascosti. Il pranzo. I cibi, il vino. I cibi forti e il vino forte di Montepulciano, a cui non eravamo ancora del tutto abituati. Il breve riposo, dopo il pranzo. E poi, il lungo pomeriggio in casa, soli. E, fuori, la neve. La vedevamo cadere attraverso la finestra che dava sulla campagna. Cadeva in silenzio, ostinata, lungo l’immobilità biancastra di un cielo denso e compatto, che andava rapidamente verso il crepuscolo del tramonto e il buio della notte.


  Sacra visita pastorale
di Emilia


 
 

“SACRA VISITA PASTORALE DI SUA ECCELLENZA, MONSIGNOR FRANCESCO MORAGLIA ALLA PARROCCHIA DI NICOLA-ISOLA”

 

La mattina del 28 Gennaio, il Vescovo, sua Eccellenza Francesco Moraglia, proveniente dalla Parrocchia di Luni Mare, è stato accolto nella comunità di Isola dal parroco Don Andrea. Insieme hanno fatto visita alle scuole elementari e medie, al Comando dei Vigili Urbani e alla sede dell’Amministrazione Comunale. Sua Eccellenza, ha voluto rendersi conto di persona di quella che è la nostra realtà.

Il giorno seguente ha incontrato le catechiste di Isola e di Luni Mare. Finito questo incontro, il Vescovo è stato accolto da una piazza gremita di fedeli che aspettavano l’inizio della Santa Messa, presieduta proprio da sua Eccellenza, in memoria di tutti i defunti della nostra comunità. Prima della Santa Messa, Angelo ha letto il discorso di benvenuto raccontando la storia della nostra Chiesa. Terminato il discorso, è iniziata la Santa Messa. Finita la Celebrazione Eucaristica, il Vescovo ha voluto incontrare il Consiglio Pastorale, per rendersi conto in prima persona dello “stato di salute” della comunità. Da questo incontro è emerso che ci sono delle carenze di spazi e di strutture necessari per lo svolgimento delle attività parrocchiali.

Alle ore 19:00, finito l’incontro con il Consiglio Pastorale, sua Eccellenza, ha incontrato i giovani delle scuole superiori ed universitari. Per loro ha avuto parole di elogio e li ha esortati a continuare su questa strada e a portare la loro testimonianza agli altri. Durante questo incontro, i ragazzi si aspettavano che il Vescovo potesse dargli delle risposte ai loro dubbi a proposito della scomparsa dei due giovani Andrea e Nicole, ma l’unica cosa che sua Eccellenza ha potuto dire è che la risposta la possono trovare solo attraverso la fede in Dio. Inoltre, ha spiegato loro l’importanza delle vocazioni sacerdotali, prendendo come esempio San Giovanni Maria Vianney. L’incontro si è concluso con l’augurio del Vescovo, che tra i nostri giovani possano nascere delle vocazioni.

Alle ore 21:00 si è tenuto un incontro con i genitori trattando un argomento molto difficile per la nostra società: “l’educazione dei figli”. con questo incontro è terminato il secondo giorno di visita.

La mattina del giorno 30, sua Eccellenza, è ritornato ed insieme a Don Andrea si sono recati a visitare gli ammalati portando loro l’Eucaristia e parole di amore e conforto.

Dopo ha incontrato anche il Consiglio degli affari economici.

Il pomeriggio ha avuto un incontro con i Dirigenti, allenatori, genitori e i ragazzi della Società Sportiva Nicolisola al Campetto Parrocchiale.

La sera ha amministrato il Sacramento della Cresima ad un gruppo di cresimandi.

Domenica 31 Monsignor Francesco Moraglia ha celebrato la Santa Messa ricordando San Giovanni Bosco, patrono dei giovani.

In seguito c’è stato al ristorante il pranzo al quale  hanno partecipato, insieme al Vescovo e al Parroco, tutti i collaboratori della nostra Parrocchia e di quella di Luni Mare.

La visita si è conclusa a Nicola con la Preghiera del Santo Rosario davanti alla statua della Madonna dell’Immacolata Concezione.

Noi tutti ringraziamo Monsignor Francesco Moraglia per questa visita, ma soprattutto per le parole di conforto e di serenità che ha avuto per tutti noi.

 

 
 

  ANCH’IO, C’ERO
di Marta


 
 
 

 

 

            Nel nostro Comune i giorni 12-13-14 febbraio si è conclusa la Sacra Visita Pastorale del vescovo Francesco. Nel commiato ,nella chiesa del Preziosissimo Sangue , ha parlato dei giorni trascorsi nella nostra parrocchia, così come nelle altre, del cammino che dobbiamo percorrere attraverso la semplicità e, soprattutto, la preghiera.

         C’ero, al Santuario del Mirteto con tanti ragazzi, cresimandi, e tantissimi giovani; c’ero, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, a Isola: ancora tanti cresimandi e tanta gente; non c’ero, invece, nella chiesa del Preziosissimo Sangue, durante l’imposizione della Cresima, perché impegnata nell’oratorio. Non ci stanchiamo mai di ascoltare il nostro Vescovo: le sue parole pronunciate piano piano, quasi sussurrate, entrano attraverso il corpo fino all’anima, e la mia povera fede, ne ha tanto bisogno.

         Nella mia vita (e di anni ne ho diversi) è la prima volta che vedo, nella nostra diocesi, un Vescovo che cammina, solo, nelle strade in mezzo alla gente, parlando con tutti; è la prima volta che vedo un Vescovo che si reca al domicilio dei malati, portare loro l’Eucaristia e la Parola di Cristo; è la prima volta che vedo un Vescovo sorridente, ben disposto ad ascoltare il prossimo, chiunque esso sia. Professando il suo apostolato: quanta bontà d’animo e quanta serena semplicità! E’ segno di grande umanità annullare il proprio io per entrare nell’animo di chi gli sta di fronte. Carisma? E’ una dote innata: un grande che se scrivesse dentro l’acqua, tutti sarebbero capaci di leggerlo.

         Il pranzo nell’oratorio con un’ottantina di persone: un’ agape cristiana. Noi abbiamo nutrito il corpo, ma il vescovo Francesco ci ha nutrito l’anima.

         Come dicevo, nell’ultima Santa Messa a Cafaggiola (una chiesa in fiore, stupendamente addobbata), il buon don Lodovico, mai stanco nel suo gran daffare per la preparazione di tutto, si mostrava ai suoi parrocchiani sempre gaio, contento, e con vent’anni di meno.

         Il nostro vescovo Francesco ci ha promesso un suo prossimo ritorno per la festa del Preziosissimo Sangue, la prima domenica di luglio. Si ricorderà di noi ringraziandoci ed esortandoci a pregare per  nuove vocazioni sacerdotali. In quegli attimi ho chiuso gli occhi ed ecco: una bella visione nel mio immaginario, il vescovo Francesco vestito di bianco.

         Quel giorno io non ci sarò più, ma sarebbe bello poter dire: c’ero anch’io!

 

 
 

  UN ALTRO PIU’ SOAVE PROFUMO
di Carlo Lorenzini


 
 
 

UN ALTRO PIU’ SOAVE PROFUMO

 

Un altro più soave profumo racconto di Carlo Lorenzini, che ha conseguito il primo premio nel concorso letterario indetto dall’associazione culturale Il Portone di Pisa, è una storia ambientata in un tempo e una società ormai lontani da noi; ciononostante la vicenda ha un valore universale. Dolcezza e ironia si mischiano per dipingere il quadro della scoperta dell’altra metà del cielo da parte di un bambino alle soglie dell’adolescenza. La consapevolezza della diversità del mondo femminile suscita nel protagonista inizialmente rifiuto, poi stupore e, infine, fascino e attrazione. L’autore riesce con maestria e capacità di penetrazione psicologica a parlare di adolescenti dal loro punto di vista, ma anche con il sorriso divertito dell’adulto. Lo stile è piano e disteso, l’ambientazione idilliaca appare rivisitata attraverso una bonaria ironia.

(questo giudizio critico si trova in L’uomo al centro, l’antologia in cui il racconto stesso è pubblicato. Alle pagine 6 e 7).

 

ooooooooooo

 

  Quando con le mie cinque pecore passai da casa di Berto, per chiamarlo e andare insieme al pascolo, vidi che ad aprire la stalla quella mattina c’era la Pina, la sorella minore. E prima che avessi modo di domandare, fu la mamma che dalla finestra su di camera (stava rifacendo i letti) mi disse: “Berto è impegnato nella raccolta del grano giù nella pianura di Luni; sono venuti a chiamarlo improvvisamente ieri sera; ce ne avrà per un pezzo; deve dare una mano anche per la trebbiatura. Al suo posto viene la Pina”. Istintivamente mi toccai in tasca, per sentirmi le carte da gioco: “E ora, a che servono? Ho fatto tanto per averle, e quasi nuove! Con chi gioco, ora, mentre le pecore...?”. Mi sarei messo a piagere. Passare il tempo in compagnia di quella... E a fare che? Lei intanto, la Pina, aveva aperto la stalla ed era entrata. Sentivo da dentro la sua voce che radunava le pecore, sei, per indirizzarle verso l’uscita. “Non ti conoscono, te!”, dissi forte, perché mi sentisse. “Come farai?”; e nelle vibrazioni della mia voce, me lo sentivo, c’era una punta di risentimento. Ma poco dopo vidi le pecore uscire in bell’ordine, una dietro l’altra. Per ultima uscì la Pina. Che, chiudendo, mi guardò e mi salutò: “Oh, Sereno, buon giorno!”. E anch’io la salutai e la guardai. Per vedere se potevo scoprirle addosso quella scemenza di cui parlava sempre Berto, quando si riferiva a sua sorella. “Mia sorella è scema”, diceva; “La Pina non capisce niente. E’ una cretina!”. Io sentivo; ma non mi interessava; perché la Pina era lontana da me; come del resto tutte le ragazze: erano esseri di un altro mondo. A scuola, per esempio: sempre linde e pulite, sempre attente, sempre diligenti; ma subito, però, per un nonnulla si mettevano a piangere; e poi quei loro giochi stupidi, a fare le mammine con le bambole, oppure a saltare il pampano, o in girotondo a recitare filastrocche senza senso. Ero troppo fuori del loro mondo. “Sei fortunato tu, che non hai una sorella”, mi diceva a volte Berto, “E poi una sorella più piccola: sono troppo stupide”. Per Berto la stupidità della sorella, e delle altre ragazze, era una verità a priori; era vero, in quanto lui lo pensava e lo diceva. E anche per me: era una verità che non aveva bisogno di essere dimostrata. Poi bastava pensare che noi eravamo maschi; e loro erano femmine; già qui la loro menomazione, nel fatto che non erano maschi. “Poi”, disse un giorno Berto, “poi basta vedere come fanno la pipì, le ragazze!”. “E come fanno la pipì?”, chiesi io. “L’hai mai vista una ragazza fare la pipì?”. “Io no”. “Si vede che non hai una sorella. Sei fortunato, lo ripeto... Ma te lo dico io: fanno la pipì da accucciate”. E il tono dell’annuncio era disgustato; come se quel modo di fare pipì fosse in tutta evidenza un segno di inferiorità, una naturale menomazione. E anche per me da quel momento il fare la pipì da accucciate delle femmine diventò segno di qualche cosa di ignobile e di degradante. Mentre il fare la pipì di noi maschi era quanto mai fiero e dignitoso: di in piedi, a gambe larghe, lo strumento ben fermo nelle nostre mani: era, la nostra, la posizione di un eroe, di un maschio, che affronta a viso aperto il nemico. Il fatto che poi anche noi per fare altre cose ci dovevamo accucciare, quello il fratello Berto non lo aveva preso in considerazione. E neanch’io lo avevo preso in considerazione: anche perché, in ogni caso, il nostro accucciarci era sempre un accucciarci ben diverso: era un accucciarci da maschi.

Comunque, guardai la Pina, mentre usciva dalla stalla, la guardai bene, e di scemenza addosso non riuscii a vedergliene. Vidi invece altre cose, che non avevo mai notato prima nelle femmine, perché non le avevo mai guardate. Vidi che aveva i capelli tirati dietro in due lunghe trecce, fermate in fondo da due vistosi fiocchi rossi. Vidi che aveva gli occhi limpidi; e un viso gentile; e un sorriso luminoso: il sorriso con cui mi aveva salutato. Vidi che aveva sopra la sottoveste un golfino verde oliva e, fermata ai fianchi, una gonnellina marrone che le arrivava sotto le ginocchia; e che era scalza, come del resto anch’io. Vidi che aveva a tracolla una borsa di pezza e in mano una verga con cui guidava le sue pecore. “Le conosco; le conosco tutte le mie pecore”, mi disse mentre usciva, rispondendo all’osservazione cattiva che le avevo gridato poco prima, “E loro conoscono me”.

Poi i due gruppi di pecore si avviarono nella fresca chiarità del mattino estivo; e noi, io e la Pina, dietro. Prima di uscire dalla Porta del borgo, mi chiese: “Dove andate di solito con Berto?”, “Un po’ dappertutto. Questa mattina s’era deciso per l’oliveto della Geltrù, per la via del Cantinón”.

Oltre la Porta (eravamo quasi alla fine di giugno ed era di mattino abbastanza presto) ci apparve il cielo in tutto il suo splendore e l’azzurro del mare pieno di luce, in tutta la sua vastità. Le rondini erano già nel loro gridato affaccendarsi in un incessante andirivieni fra la gronda in alto della scuola e l’aperto spazio sopra la valle. Nel pianello solo una donna, che, uscita dalla ‘volta’ della fontana, procedeva con in capo il suo bacile pieno d’acqua. Incrociandoci all’uscita della piazza, ci disse: “Andate già a guardare!?”. E proseguì, per entrare in paese.

Andando la Pina disse: “Anch’io so già portare in testa. Ogni tanto faccio le prove con il bacile di cucina, quando è pieno a metà. Me lo metto in testa sopra il guarco e faccio più volte il giro attorno al tavolo. La mamma mi dice che già vado bene”. “I maschi non portano in testa!”, dissi io brusco; nel caso che la Pina avesse voluto istituire un confronto fra lei che già sapeva portare in testa e me, che non ne ero capace. Ma lei, approvando, commentò: “Lo dice anche la mamma che non è una cosa da maschi. Un maschio con il bacile in testa farebbe ridere e non starebbe bene; come cucire o fare la calza o rifare i letti, oppure lavare i piatti: sono lavori che un maschio non li deve fare”. Poi aggiunse con la serietà di chi pronuncia la verità di una legge universale: “Ci sono cose adatte per i maschi e cose adatte per le femmine... Come portare i calzoni... Te la immagini una ragazza con i calzoni... Io con i calzoni morirei per la vergogna...”.

Quando fummo giù alla ‘gabina’, si entrò nella via nuova. Ora andavamo lungo il ‘pianón’. Io ripresi il discorso: “Come i giochi che fate voi femmine quassù nel ‘pianón’ o nel sagrato della chiesa... Per un maschio non sono adatti... Il vostro ‘girotondo’, oppure ‘alle belle statuine’, o la ‘parentè’, oppure il gioco del ‘pampano’... Non sono adatti per un maschio... Un maschio è sempre un maschio...”. “E’ vero!”, disse lei. E assentiva. E mi guardava con negli occhi la luce dell’ammirazione, come di fronte ad un essere troppo superiore a lei, che era semplicemente una bambina, una femmina, mentre io ero un maschio; e che, inoltre, era più piccola di me che avevo tredici anni e lei ne aveva undici.

I giochi delle bambine... Quando ne parlavo, una significazione di disprezzo era nel tono della mia voce e nell’espressione del mio viso, come di fronte a cosa troppo indignitosa. I nostri giochi, invece... Quanto erano più nobili e come dimostravano il nostro coraggio! Il maschio, infatti, è nato per avere coraggio; la femmina è nata per essere timida e per avere paura.

Con Berto, per esempio... Berto sì che era coraggioso! Con Berto, quando arrivavamo nella piazza della chiesa o altrove nel paese, dopo essere stati tutto un pomeriggio nei boschi a caccia di nidi e di serpenti; che avevamo scalato olivi e castagni e pini e querce e olmi e ci eravamo introdotti in anfratti di rovi e avevamo distrutto nidi e ne avevamo preso implumi destinati a morire; e avevamo catturato bisce e le avevamo uccise e le portavamo in giro appese ad un bastone e avevamo nel sangue la passione della forza bruta del maschio e della crudeltà e della prepotenza… quando poi arrivavamo nella piazza o dov’erano esse, le femmine, che giocavano alla ‘parentè’ o ad altri giochi di femmine; noi, per ostentare anche con loro la nostra forza e la nostra brutalità,  entravamo nel mezzo alle femminili costruzioni e gettavamo fra loro i serpenti e gli uccelli morti, scompigliando ogni cosa e terrorizzando; e loro, di fronte all’oltraggio di noi maschi, reagivano solo strillando e fuggendo e chiedendo aiuto alle mamme; le quali, in fondo, parteggiavano per noi maschi: “Siete voi sceme ad avere paura: loro, lo sapete, sono maschiacci”; e noi ci sentivamo forti, ci sentivamo degli eroi; e pensavamo che catturare degli implumi, distruggerne i nidi e farli morire per gioco; e pensavamo che catturare serpenti e poi ucciderli e poi andare in giro a terrorizzare le bambine nostre coetanee e a distruggere i loro giochi fossero imprese ammirabili.

Intanto eravamo giunti al ‘Colletto’ e stavamo per imboccare la montata che scende a Isola. Le pecore camminavano avanti divise in due gruppi: le mie e quelle della Pina. La quale procedeva accanto a me in silenzio. Ogni tanto mi guardava, quasi volesse da me la conferma che tutto andava bene. Anch’io ogni tanto la guardavo; guardavo la semplicità e l’accuratezza con cui era vestita; guardavo la sua personcina agile e armoniosa, guardavo la grazia e la sveltezza  dei suoi piedini di ragazza e l’eleganza con cui camminava scalza; e guardando facevo i miei paragoni fra lei e il fratello Berto: quei suoi piedacci di maschio grossi e sgraziati, che quando camminava li posava giù forti e pesanti, che sembravano le zampe di un elefante; e poi come andava vestito: sempre unto stracciato e sbrindellato; e sporco nella persona, che non si lavava mai; con quei capelli folti e arruffati, che non conoscevano né acqua né barbiere. “Si lavano le ragazze, perché sono vanitose e vogliono apparire”, diceva. E poi aggiungeva: “Mio padre dice sempre che le donne che si lavano sono poco serie”.  Ed io non ero meno sordido di lui; perché, più piccolo, guardavo a Berto come ad un mio maestro e seguivo con entusiasmo i suoi consigli e i suoi insegnamenti.

Le chiesi: “Tu ti lavi al mattino?”; “Perché, tu non ti lavi?”. Mi vergognai a dirle di no; che solo raramente mi lavavo; solo quando era la mamma a ordinarmi di farlo; oppure se era lei che, di forza, mi prendeva e mi lavava il viso. Ma la Pina, senza aspettare la mia risposta, aggiunse: “Io mi lavo, usando il sapone palmolive. Non si sente?”. Forse l’afrore delle pecore e mio coprivano il profumo della Pina. Dissi: “Con le pecore non si sente; ma aspetta...”. Le andai di fronte; la tenni ferma con le mani per le spalle; accostai il mio viso al suo viso; e annusai: un profumo di fresco come di fiori in primavera. “Si sente”, dissi in tono indifferente. Ma quel suo viso di femmina così vicino al mio, quei suoi occhi profondi e pieni di luce, quel suo taglio della bocca delicato di ragazza, quel suo respiro caldo e che sapeva di buono... io, mi parve di sentire anche un altro profumo, oltre quello del sapone palmolive, un profumo più intenso e più soave. Certo, andare al pascolo con la Pina non era la stessa cosa che andare al pascolo con Berto.

Sulla curva del Colletto la Pina passò avanti per guidare le pecore giù per la ‘montata’. Poi alla prima svolta della via, dove nell’angolo c’è il sedile in pietra, con al di sopra, in un’edicola, l’immagine sacra in marmo bianco della Madonna con il Bambino, mi aspettò. Disse: “Qui fa sosta la gente, quando vengono su da Isola con in collo il loro carico e sono stanchi”. Poi aggiunse, guardando alla figura della Madonna, “E intanto che si riposano, dicono una preghiera”. E anche lei si fece il Segno della croce e si sedette anche lei. Le pecore, non sentendo la presenza itinerante della loro pastorella, si erano fermate. Dissi: “Ma noi non abbiamo nessun carico da portare e non siamo stanchi”. La Pina allora si alzò e si portò avanti per riavviare il piccolo gregge e procedere. Poi, guardando, in segno di saluto, alla Maestà, che, nella chiarità del mattino, splendeva candida sul bigio pietra dell’edicola, mi chiese: “Tu le dici le preghiere?”, “Qualche volta. Quando mi ricordo... Comunque ne so diverse a memoria, come il ‘Padre nostro’, l’‘Ave Maria’, il ‘Gloria al Padre’…”; “Anch’io le so a memoria. Te ne dico una, quella all’Angelo custode: ‘Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla Pietà Celeste’”. “La sai bene, vedo”. “L’altro giorno don Tito me l’ha fatta dire poi mi ha chiesto chi è la Pietà Celeste. Nessuna di noi ragazze lo sapeva. Tu lo sai?”. “E chi è la Pietà Celeste?”. “Don Tito ha detto che è Dio, il quale, nella sua bontà, ha pietà di noi uomini, che siamo peccatori”. “Tu sai tante cose. Sei brava”. “Ma io alcune preghiere le so anche in latino... E’ don Tito che ci ha detto di imparare le formule e di pregare... Specialmente noi ragazze, per non fare peccati e per non commettere atti impuri”. “Anche a noi ragazzi ha detto degli atti impuri... Ma cosa sono gli atti impuri?”. “Io gliel’ho chiesto; ma lui ci ha detto che non lo dobbiamo ancora sapere, perché sono troppo brutte cose; sono il diavolo in persona, coperto di peli neri, con il muso e le zampe di caprone, con le corna, la coda, il forcone e tutto quanto”. “Ma le preghiere in latino dove le hai imparate?”. “Nel libretto delle ‘Massime eterne’. Era di mia madre quando ha fatto la prima Comunione. Lo porto spesso con me…”.

Intanto andavamo in discesa. Al bivio prendemmo la via verso il Cantinón. Poco oltre, attraverso un arco in muratura con al culmine un’immagine sacra,  si entrò a sinistra nell’oliveto della Geltrù. Sembrava di essere in un paradiso terrestre: piante alte e ombrose, ricche di foglie e di fiori; le piane, ampie e ben modellate, erano fresche ed erbose; le pecore subito furono intente a brucare. La Pina si mise a sedere sull’erba e si tolse la borsa da tracolla: la posò per terra accanto a sé. Io mi tolsi dalle tasche dei calzoni il pane della merenda e le carte; posai tutto vicino alla borsa della Pina. Lei vide che il pane era avvolto in alcuni fogli del giornale ‘L’Unità’. Disse: “Leggono l’Unità in casa tua!? Non lo sai che si fa peccato?”. “Non lo leggiamo noi: la mamma si è fatta dare alcuni fogli dalla vicina: loro sono comunisti”. Poi mi chiese: “Il pane con che lo mangi?”, “Con un formaggino di cioccolata. E tu?”, “Con la mondiola”. E tirò fuori il suo pane, avvolto in carta ruvida da macellaio. Assieme al pane , tirò fuori anche un libretto dalla copertina nera, della forma di un libretto di preghiere. Disse: “Sono le ‘Massime Eterne’, che ti ho detto: io me ne servo per le devozioni; ma mi serve anche come libro in cui imparo a leggere. Molte cose sono in italiano; io leggo quelle; anche se certe parole non le capisco; come quando qui dice dell’invocazione per gli ‘agonizzanti’”. E aperse il libro alle prime pagine e lesse con la sua limpida voce di ragazza, compitando e incespicando: “‘O san Giuseppe, padre putativo di Nostro Signor Gesù Cristo , e vero sposo di Maria Vergine, prega per noi e per gli agonizzanti di questo giorno’. Chi sono gli agonizzanti? Lo sai tu?”. Io feci di no con la testa. Poi lei, posando il libretto, disse: “Io non so neanche che è un ‘padre putativo’; a mio padre dicono il babbo della Pina oppure il babbo di Berto; al tuo, il babbo di Sereno; ma padre putativo della Pina o padre putativo di Sereno, non l’ho mai sentito… Poi, lasciato  cadere l’argomento, disse, guardando in giro con respiro di benessere: “Qui si sta bene: c’è molta ombra e c’è fresco”; “E poi qui si può anche bere, se uno ha sete”, dissi io, “Poco oltre, lungo il viottolo nel bosco, c’è un filo di sorgente che fa una piccola pozza in mezzo all’erba: l’acqua è limpida che si vede il fondo; basta chinarsi, dire una formula di preghiera, farsi il segno della croce, metter giù la bocca e bere”.

Infine anch’io mi misi a sedere, accanto alla Pina. Guardavamo le pecore che brucavano tranquille. “Mangiano bene. L’erba è fresca e abbondante”, disse la Pina.  Io presi le mie carte e chiesi: “Sai giocare a carte, tu? Berto è un demonio, mi vince sempre”; “Le ragazze non giocano a carte. Quando qualche volta Berto, la sera, vuole che giochi con lui, poi la mamma mi sgrida, dice che non è un gioco per bambine.. Comunque so giocare un po’ a briscola”; “Io le ho portate credendo che venisse Berto…”. “Quando facciamo la briscola, Berto non fa che arrabbiarsi, perché dice che non ho l’intelligenza del gioco… Ma io sono troppo contenta quando mi viene l’asso, che me lo tengo fino all’ultimo per fare la sorpresa e pigliare tutto; ma poi capita il più delle volte che non prendo niente, perché Berto mi ha lasciato carte che non fanno punti; e perdo lo stesso”.

 Intanto che parlavamo, io e la Pina, io non smettevo di guardare in aria, in cerca di nidi. Era la mia fissazione. Eravamo nella stagione buona. Ma fu lei che ad un certo punto esclamò: “Forse lassù!”, e mi indicò in mezzo all’infrasco di un olivo una macchia scura. “Sì”, dissi io, “dev’essere un nido. Ci guardo”; “Ma fa’ piano. Non li spaventare, se ci sono gli uccellini”. Io subito, trasportato dalla mia passione di cacciatore vandalo, salii. Dissi da sull’albero: “Sono tre. Tre uccellini”; “Lasciali stare. Non li disturbare”. Non ce la feci a dar retta del tutto alla Pina; fu più forte di me; ne presi uno, me lo misi in tasca. “Te ne porto uno, a fartelo vedere”. “Ma fa’ piano, con delicatezza”. Lo portai giù, a farlo vedere alla Pina. La quale, seduta com’era, lo prese, riunendo le due mani a coppa. Poi se lo mise in grembo. Era ancora implume; aveva gli occhi chiusi; solo, ogni tanto, apriva l’enorme bocca, mostrando di essere, per il momento, tutto gola e tutto stomaco. “Ha fame!”, disse la Pina. E tenendolo maternamente nel grembo, lo accarezzava e lo proteggeva con le due mani; e gli parlava e gli sorrideva. Io che nella mia amicizia con la selvatichezza e la rudezza di Berto, il cui viso sembrava l’avesse per essere sempre aggrottato e adirato e le mani per abbrancare rompere e distruggere, io non avevo mai ancora notato la dolcezza del viso, né la grazia delle mani di una ragazza. E nella mia rusticità, mi trovai incantato ad ammirare quella soavità nei gesti, nell’espressione del volto e nelle parole. Poi, quando me lo riconsegnò, risalii sull’albero, a rimetterlo nel nido. E, mentre risalivo con in tasca l’uccellino, ero tutto rosso per la vergogna, perché pensavo alle risate di Berto, che si sarebbe fatte, nel vedere questo mio comportamento da femminuccia, io che ero un maschio; e che dovevo essere cinico e indifferente.

Il giorno dopo, quando passai a chiamare la Pina e lei uscì fuori della stalla e mi salutò, poi, unendosi a me, disse: “Che profumo questa mattina, Sereno!”. Io diventai rosso fino alla punta delle orecchie e non dissi niente. Ma per aggiustarmi la testa e per presentarmi alla Pina nell’aspetto più gradevole possibile mi ero lavata la faccia e con la tricofilina che avevo sottratta al babbo, mi ero ben untati i capelli, che avevo ispidi e incolti di selvaggio.

 

 

Fine

 

 

 

NOTA: * Dal libro ‘Pane per la memoria’ 2008, poesie in dialetto nicolese del poeta Mario Orlandi, a pag 143 (io non me lo ricordavo), apprendo che si tratta della Maestà detta dai paesani la ‘Madona Granda’.

 

 

 
 

  Da Luni mare
di Mimma


 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

<< E’ arrivato il Pastore, ma qui ci sono anche gli agnellini!>>

 

È con queste parole che il Vescovo si è rivolto ai bambini della scuola materna che erano ad aspettarlo sul piazzale della chiesa insieme alla loro maestra e alla gente che lo accoglieva. Erano le 9 del Giovedì 28 Gennaio, una giornata molto fredda ma che si è subito scaldata alle parole del nostro Vescovo.

       Come tutte le altre comunità ci eravamo preparati alla visita pastorale e ci siamo sentiti pronti ad accogliere qualsiasi suggerimento, ammonimento ed esortazione. Dopo il saluto e una bella fotografia di gruppo, il Vescovo è entrato in Chiesa per una preghiera personale e poi ci ha invitato ad accompagnarlo sulla strada che porta alle scuole materna ed elementare. L’abbiamo lasciato là con Don Andrea e Don Gianluca ma siamo poi venuti a conoscenza della bella accoglienza preparata soprattutto dai bambini della materna che per l’occasione gli hanno cantato in coro “Aggiungi un posto a tavola”.

       La sua visita poi è continuata alle scuole di Isola e al comando dei Vigili Urbani.

       Ci siamo visti il giorno dopo quando nella sala del nostro oratorio ha incontrato le catechiste di Luni Mare ed Isola. Che momento! Le problematiche sono quelle purtroppo comuni a tutte le parrocchie: abbandono, scarso interesse, disinteresse delle famiglie, maleducazione imperante, la scarsa partecipazione alla Santa Messa…

       Ha saputo tirarci su il morale, invitandoci e ammonendoci a non farci prendere dallo scoraggiamento. Ci ha riportato diversi esempi di persone che pur avendo vissuto una vita lontana della Chiesa, non hanno però mai dimenticato il sorriso della catechista. Ci ha esortato ad avere momenti di preghiera fra di noi, perché è proprio la preghiera lo strumento più efficace per poter svolgere al meglio la nostra missione. È trascorsa più di un’ora e sinceramente tutte noi al termine avremmo voluto che quel momento di incontro non finisse.

       Eravamo cariche di ottimismo e buoni propositi.

       È seguito l’incontro con i membri del Consiglio Pastorale che si è svolto in un clima sereno e cordiale e il Vescovo ha conosciuto meglio la realtà della nostra comunità. Anche in questa occasione ha saputo esortarci ricordandoci che non importa essere tanti, ma che i pochi sappiano essere capaci di portare Cristo, con la loro testimonianza, a quelli che non Lo conoscono. La sera ha poi incontrato i genitori dei bambini che frequentano il catechismo. La giornata di Sabato 30 Gennaio è iniziata con la visita del Vescovo agli ammalati della Parrocchia che aspettavano riconoscenti ed emozionati la sua venuta.

       All’una poi, nell’oratorio, avevamo preparato il pranzo al quale hanno partecipato diverse persone che frequentano assiduamente la parrocchia. È stato un momento informale molto piacevole e che il Vescovo ha apprezzato e, scherzando con Don Andrea, si è candidato a diventare il nostro nuovo parroco. Nel pomeriggio c’è stato l’incontro con il Consiglio degli Affari Economici e qui si è affrontato il discorso della costruzione della nostra nuova Chiesa che non parte mai. Siamo sicuri, dalle sue parole, che troveremo una soluzione che sbloccherà tutto. La Domenica alle 10:15 il Vescovo durante la Santa Messa ha amministrato la Cresima ai bambini.

       È stata una celebrazione sentita e partecipata da tutta la comunità, semplice e solenne insieme.

       Per l’ora di pranzo i collaboratori delle parrocchie di Isola, Nicola e Luni Mare si sono ritrovati a pranzo in un ristorante della zona per poi riunirsi alle 16 al Pianello di Nicola per recitare il S. Rosario davanti alla statua della Madonna.

       Alle 18, a Luni Mare, il vescovo ha terminato la visita pastorale incontrando le giovani coppie di sposi. Sono stati giorni intensi duranti i quali il nostro Pastore è entrato ancora di più nei nostri cuori: ci ha sostenuto, esortato, spronato. È venuto Cristo in mezzo a noi e le sue parole porteranno frutto cento volte tanto.

 

 

 
 

  Diario di un parrocchiano di Casano-San Giuseppe
di Giuseppe Franciosi


 
 
 

Lunedì, 25.1.2010.

 

         Ieri, con la Cresima al Santuario, si è conclusa la Visita Pastorale nelle parrocchie di San Lorenzo, SS.ma Annunziata, San Martino-San Giuseppe. Già a dicembre c’eravamo incontrati per prepararci a questa “Visita”. Piano piano, tutto è andato a posto; io non ricordo che altre “Visite Pastorali” abbiano inciso, come questa vota, nelle vicende delle nostre parrocchie; tutto ciò non è frutto del caso ma della disponibilità di personale giovane ed entusiasta. Di tutte le altre “Visite Pastorali” vissute da me nella nostra parrocchia io conservo un solo particolare, che non è certo di grandissimo interesse. Davanti a casa mia viveva una signora anziana; era a letto ammalata. Una mattina ho visto il parroco, don Parma, accompagnare il Vescovo a farle visita; dopo un po’ di tempo entrambi sono tornati in parrocchia: questo è tutto quello che ricordo delle precedenti “Visite Pastorali.

 

Sabato, 13.2.2010.

 

                   Giovedì, 11.2.2010, ho partecipato all’ora di Adorazione a Cafaggiola. E’ stato un incontro strano: era stato fissato per questa data ma mentre stavamo, i soliti più la moglie di Nuccio, per far uscire “Il Sentiero”, Walter si è appartato in un angolo del nostro locale a fare una correzione: don Andrea aveva telefonato che l’Adorazione doveva essere posticipata al 18 perché l’11 non erano disponibili i tre sacerdoti del Santuario (assenti perché impegnati agli esercizi spirituali) e anche don Andrea  quella sera aveva un impegno: sembrava quindi doveroso questo spostamento. Domenica 7, però, padre Onildo, al termine della Santa Messa, comunicava che l’Adorazione a Cafaggiola ci sarebbe stata l’11 anziché il 18 e allora mi sono chiesto: ma che senso hanno avuto le correzioni fatte sul “Sentiero” da Walter? Un pasticcio; comunque, giovedì 11, mio figlio ha portato me e mia sorella Maria a Cafaggiola e gente ce n’era: la serata non è stata, come temevo, un fiasco. All’altare, vicino al parroco don Capellini, c’era anche un diacono del seminario: così ho avuto conferma di quanto mi era stato riferito: in seminario quest’anno c’è un bel gruppo di giovani e il nostro Vescovo ha deciso che quelli già consacrati (diaconi) diano un aiuto ai parroci impegnati in parrocchie grandi come appunto quella del Preziosissimo Sangue. Mi pare che il nostro Vescovo abbia azzeccato  un’altra bella iniziativa, dopo i pellegrinaggi nei Santuari della nostra diocesi (a Ortonovo ce ne sono stati già due) e la preghiera a fine Messa al Santo Curato d’Ars.

 

Mercoledì delle Ceneri, 17.2.2010.

 

         Questa sera, inizio della Quaresima, ho partecipato alla Santa Messa. Il parroco, padre Onildo, domenica scorsa ci aveva informati che l’orario veniva ritardato di un’ora (ore 18 anziché ore 17) per consentire di partecipare anche a chi avrebbe trovato difficoltà ad essere presente alle 17. Il tempo, come succede spesso quest’anno, è inclemente; ciononostante la chiesa è piena di gente. Evidentemente i fedeli sentono la Quaresima, sentono l’avvicinarsi della Pasqua. Padre Onildo all’ingresso ha già esposto l’orario per la Benedizione delle famiglie. Finita la Santa Messa, ci mettiamo in fila nel corridoio al centro della chiesa e, uno alla volta, ci presentiamo per l’imposizione delle Ceneri che riceviamo ascoltando le parole “convertitevi e credete al Vangelo”. Vedo anche persone che di solito non partecipano alla Santa Messa, almeno nella nostra parrocchia.

 

Venerdì, 19.2.2010.

 

       Questa sera, alle ore 16, ci siamo riuniti in chiesa per la prima “Via Crucis”. E’ piovuto tutto il giorno e quindi è facile prevedere che stasera saremo pochi. Infatti siamo appena una dozzina. Credo però che il prossimo venerdì i partecipanti aumenteranno. I libretti che padre Onildo distribuisce mi pare che siano nuovi e ciò determina un po’ di confusione su chi deve leggere. La Maria regge la croce e guida la piccola processione.

 

artedì, 23.2.2010.

 

         Alle ore 21 riunione in parrocchia per l’approvazione del “Bilancio 2009”. Padre Onildo ha proposto e abbiamo letto un bel documento - preghiera. Prima in chiesa, per recitare la bella preghiera e poi nel Salone. Col parroco siamo in dieci. Padre Onildo illustra tutte le voci del Bilancio e constatiamo che i conti, come anche l’anno scorso, sono in attivo ma non bisogna largheggiare: c’è un attivo di euro 13.725 più 3.160 (attivo anno 2008). Totale disponibile: euro 16.885. Una situazione finanziaria che ci consente di guardare avanti con tranquillità: non ci sono preoccupazioni per l’ordinaria amministrazione.

         Alle ore 16, nella nostra chiesa, la partecipazione alla “Via Crucis” non è misera come la settimana scorsa ma più che soddisfacente. Ho aspettato tutta la settimana e stasera finalmente ho potuto constatare che lo scarso numero di persone era dipeso soltanto dalle pessime condizioni atmosferiche; questa sera le condizioni atmosferiche erano buone e buona è stata anche la partecipazione: non 12, ma 25 persone e confido che nelle prossime settimane questo numero venga confermato.

 

 

 

 

 

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