N° 6 - Giugno-Luglio 2009
Storie dei lettori
  Ciao , zio, Ivaldo
di Pierluigi


 

Caro zio Ivaldo,

 

con la mamma, lo zio Attilio, Graziella, la prima dei tuoi tanti nipoti e pronipoti, a nome di tutti voglio darti l’ultimo saluto terreno e  ringraziare le tante persone qui presenti, provenienti da varie parti.

Grazie ai sacerdoti tuoi confratelli, ai giovani frati, agli studenti seminaristi del Santuario, ai due sacerdoti e diacono di Ortonovo che hanno voluto partecipare al tuo commiato.

Grazie a padre Graziano, della comunità toscana del Carmelo, per le belle espressioni con cui ha tracciato il preciso profilo della tua persona e della tua missione.

Grazie ai tuoi superiori, Padre Saverio e Padre Giustino, per il commovente saluto inviato per lettera, perchè impegnati a Fatima.

Grazie ai tanti amici della comunità ortonovese con i quali hai fatto, o meglio, che hai condotto ed accompagnato lungo itinerari di fede nazionali ed internazionali: Loreto, Cascia, San Giovanni Rotondo, Roma  (a molte udienze del Santo Padre), Fatima, Lourdes, Praga (per la devozione che ti ha sempre legato al Santo Bambino), Terra Santa.

Proprio nei giorni scorsi, i giorni della tua sofferenza, ti ha scritto il tuo amico preside Franciosi ricordando che lui e la sua Giulia, per la paura dell’aereo, mai avrebbero pensato di salirvi sopra per un viaggio. Però la Terra Santa non si poteva raggiungere in bicicletta. Hai saputo vincere la loro paura e condurli laggiù.

La Terra Santa dell’Ebraismo, del Cristianesimo, dell’Islam.

La Terra Santa di Abramo nel cui SOLO nome, diceva Giorgio La Pira, amico dello zio Beppe – Padre Placido – può realizzarsi la pace.

La Terra Santa in cui vive un altro dei tuoi nipoti, Paolo.

La Terra Santa in cui c’è il Monte Carmelo, pro-genitore della tua seconda famiglia.

Tu e lo zio Beppe – Padre Placido – ci avete fatto conoscere, apprezzare ed amare le famiglie carmelitane di Toscana e Liguria.

Ci avete fatto conoscere S. Giovanni della Croce, Santa Teresa D’Avila, Santa Teresina di Gesù Bambino le cui opere hanno condotto molti alla fede ed altri ancora in cammino verso di essa.

Zio, avremmo voluto le tue spoglie terrene vicino a noi, come quelle dello zio Beppe, per l’affetto che ti portiamo e che anche molti dei tuoi – nostri paesani ti portano e perché, se i segni hanno un senso, il bastone, semplice, del legno della nostra terra, che ha sostenuto lo zio Beppe nell’ultimo tratto della sua vita, quello stesso bastone hai voluto che sorreggesse i passi della caduca tua persona colpita dalla malattia.

Però.

Però sono sicuro che i meriti impalpabili del tuo insegnamento, dei ricordi intensi che hai lasciato, della testimonianza sacerdotale ed umana che  hai trasmesso a quanti ti sono, anche solo passati, accanto, vivranno e travalicheranno la dimensione temporale contingente.

 

 

E dunque, anche se con dolore, lasciamo le tue spoglie mortali qui, agli amati padri della famiglia carmelitana ligure, perché sapranno accudirle come avremmo fatto noi.

Ti lasciamo, caro zio, si, ti lasciamo, alla cara famiglia carmelitana ligure che ti ha accolto maestro dei suoi novizi, fra cui il Superiore Provinciale Padre Giustino, perché ti hanno tanto amato e sostenuto ed è dunque giusto, anche se per noi doloroso, che tu resti qui.

Infine: a tutti noi è noto, come ha ricordato Padre Graziano, il tuo amore verso la madre Celeste. Mi piace chiudere questo saluto con pochissimi  versi che il poeta le rivolge:

 

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che 'l suo fattore

 si sdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’etterna pace

così è germinato questo fiore.

Qui se' a noi meridiana face

di caritate, e giuso, intra ‘ mortali

se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disianza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fiate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate.

 

Ciao zio Ivaldo,  la terra che fra poco ti ricoprirà, ti sia lieve.

 

 

 

 

 

Arenzano 04 Maggio 2009

 

 

 

  Dal diario di un parrocchiano di Casano-San Giuseppe
di Giuseppe Franciosi


 

 

Mercoledì, 29.04.2009.

Oggi, alle ore 9, dovevo trovarmi in parrocchia con Walter per stampare “Il Sentiero” del mese di maggio, ma alle 8,15 una brutta, bruttissima telefonata dello stesso Walter mi fa capire (fatica a parlare, a spiegarmi cosa sta succedendo) che oggi non si può stampare, lui deve partire subito per Arenzano perché lo zio padre Oriano, da tempo in ospedale, si è aggravato (o ci ha già lasciati). E’ un po’ che lui e gli altri nipoti si alternavano ad Arenzano intorno al letto di padre Oriano ed oggi la situazione è particolarmente grave, forse irreparabile e, non potendo far altro, provo, con un groppo in gola, a raccontare qualcosa dei tanti bei momenti passati assieme.

Io ho poca memoria e quindi non ricordo quando ho incominciato a girare il mondo con padre Oriano, ma questo è avvenuto davvero molti anni fa. Conosciuto padre Oriano, nessun altro organizzatore di gite, o meglio pellegrinaggi, per me e per la Giulia è stato preso in considerazione.

Ho parlato di “mondo”, ma non c’è nessuna esagerazione, perché, dopo aver visitato tutta l’Europa, con lui avevamo incominciato ad affrontare altri continenti. Visitata la Terra Santa, la Giordania, l’Egitto (eravamo così tanti che padre Oriano organizzò ben tre turni) il diavolo ci mise la coda e padre Oriano dovette rinunciare a quella forma di apostolato; stava organizzando una visita ai luoghi di San Paolo: era già a buon punto, ma la ferale notizia (l’ictus che lo aveva colpito) bloccò tutto e per sempre.

I suoi confratelli telefonarono anche a me perché prendessi in mano e non lasciassi morire ciò che padre Oriano aveva creato, ma evidentemente non si erano resi conto di che cosa padre Oriano aveva creato e che nessuno avrebbe potuto raccoglierne l’eredità.

Impossibilitato a muoversi non si è rassegnato a non fare, ma ha continuato ad operare; non poteva muoversi e allora ecco il lavoro che un sacerdote può fare: nel confessionale non c’è bisogno di camminare puoi fare tanto anche stando fermo e lui si dedicò al confessionale.

E chi ha trovato il suo confessionale non se n’è più allontanato.

Padre Oriano lascia anche degli scritti e noi abbiamo pubblicato sul “Sentiero” tanti suoi articoli.

Di tanto in tanto faceva qualche visita a Ortonovo e, assistito da qualche congiunto, celebrava anche la Santa Messa.

Io e la Giulia avevamo detto e ridetto che non avremmo mai viaggiato in aereo, ma dall’Europa non si può uscire in bicicletta: o prendi l’aereo o te ne stai a casa. E noi, pur di non rinunciare ai pellegrinaggi che lui organizzava, abbiamo preso anche l’aereo: ma finiti i suoi pellegrinaggi sono finiti anche i nostri viaggi in aereo.

Del pellegrinaggio a Gerusalemme è rimasto in casa mia un bellissimo ricordo: uno stupendo presepe d’olivo della Terra Santa: è bellissimo e tutti gli anni chi viene a trovarmi durante le feste natalizie, può ammirarlo all’ingresso di casa mia.

Quando il pellegrinaggio giungeva al termine, prima che arrivassimo a Ortonovo, solitamente mi chiedeva di esprimere il mio giudizio su tutto ed io, pur disdegnando abitualmente l’esibizione, non riuscivo a dire di no.

Caro padre Oriano, quanto dolore mi dà prendere atto che, su questa terra, i pellegrinaggi insieme sono finiti per sempre.

Così ha voluto il Signore: sia fatta la Sua Volontà.

 

                                                                                                                        

  O Blair o Bush !
di Padre Maurilio Montefiori


 

 

E’ finita la vostra guerra

Noi siamo i bimbi

Pietrificati

Ossa

Scarnificate

Ripugnanti

Anche ai rapaci.

Per lunghi anni

Giocaste alla morte

Sulla nostra miseria

Ma un giorno

Alla superba noia

Chiedeste più fuochi e più roghi.

Tu potevi, o Bush

E tu volevi, o blair.

 

I nostri cari

Ora son polvere

E li incontriamo nelle sabbie

Che modulan le dune

Migranti;

Alme smarrite

In cerca dei mille volti negati

Alla pietra di un sepolcro.

Ma quando freme

La tempesta dei monsoni

Sentite gorgogliare

Dalle immense fore

I pozzi

Ricchezze di rapina

O Bush o Blair

O vittoriosi.

Un coro strano

Che vi chiama

O forti

Voci profonde e sibili nel vento

Democrazia?

No!

Squilli d’impero.

                                            

                                                

  Il ricordo del Maestro della Corale
di Renato Bruschi , direttore del coro di Ortonovo


  

 

   Caro Padre Oriano,

non è una follia scrivere una lettera a chi non è più tra noi. È la fede che spinge a farlo, che ci dice che sei ancora vivo, nella luce di Cristo, e che, per un misterioso intreccio della grazia, possiamo comunicare con te che dall’eternità ci sorridi. La medesima fede ci attesta che tu ora sei dove “in sempiterno si loda” e dove un giorno, a Dio piacendo, ci ritroveremo tutti a cantare in eterno le misericordie del Signore.  Come Coro di Ortonovo, vorremmo farti sentire ancora le nostre voci, che da oltre vent’anni elevano a Dio il canto della fede, non già come grido d’angoscia, bensì canto di speranza per chi crede nella Resurrezione. Le nostre vite si sono incontrate molti anni fa e abbiamo percorso un pezzo di strada insieme. Un cammino dentro e fuori di noi: con i tuoi pellegrinaggi ci hai condotto nei luoghi della fede più spettacolari di Europa, alla scoperta delle radici cristiane della nostra storia, e di una dimensione interiore, che, troppo spesso, nella vita frenetica di oggi, ci dimentichiamo di coltivare. Ti ricordi quando a Lourdes abbiamo cantato nella grande Basilica di San Pio X ? La sera, alla processione aux flambeaux, le nostre voci hanno guidato il canto di migliaia di fedeli, sotto un cielo settembrino, denso di stelle, e all’alba, ai piedi della Madonna, nella grotta dell’apparizione, con il cuore trepidante e le voci non ancora rotte dalle parole, abbiamo intonato il canto di ringraziamento per i doni ricevuti, per l’esperienza di rinascita spirituale che avevamo appena vissuto. Come non ricordare tutto ciò? E la sosta a Nevers, a contemplare la bellezza di Santa Bernadetta, addormentata nella teca di vetro che, come ci raccontavi tu,  «da oltre un secolo si mostra agli occhi curiosi e sbalorditi dei pellegrini». O quando, a Parigi, hai celebrato l’eucarestia nella bianca Basilica del Sacro Cuore, mentre le nostre umili voci accompagnavano la liturgia con gli intrecci polifonici che si spandevano per le arcate del tempio. Ancora ad Ars, nella chiesa del Santo Curato, grazie a te, abbiamo cantato, sotto l’ampia cupola, le melodie che sono il vanto del nostro patrimonio musicale. Ci siamo così sentiti più uniti, più fratelli, figli di uno stesso Dio che tutti ama, senza alcuna distinzione. Di quei momenti restano ricordi incancellabili che, nel corso degli anni, sono diventati parte del vissuto di ciascuno; ad essi, spesso, riandiamo con la memoria per assaporare la freschezza della fede che ci hai fatto conoscere, e che abbiamo «toccato con mano» nella vita e nell’opera dei santi, da Bernadetta al Curato d’Ars. Tu adesso riposi, dopo la stagione della sofferenza, nella pace di Cristo e tutto questo ti sembrerà lontano, o, forse, tutto rivedi nella sua totalità, come immagini di un unico grande affresco di vita. Per noi che siamo qui, quei ricordi rappresentano il modo più bello per averti con noi, per sentire che ancora ci guidi,  con come allora, nei sentieri della fede, verso l’incontro con il Risorto.

 

 

 

  E' vera onestà
di Patrizia Giacchè


 

E’  VERA  ONESTA’

 

Vive sulla terra, chi potrebbe svelar di te, un’azione indegna?

Non provi alcun timore, se uno sguardo tu devi sostenere;

cammini a testa alta; è a te estranea la vergogna.

Hai sempre dato, non promesso;

per nulla al mondo finiresti a un compromesso

e mai corromperti potranno;

è un peccato l’illecito guadagno.

Il tuo forte è la lealtà, e guardi al tradimento come

ad una spregevole meschinità

e sostieni: “Del più debole non approfittare!”

E’ immorale, ottenere un qualcosa che a te non deve appartenere;

è’ per te sempre un piacere, se necessita un parere

ma ti sdegni al sol pensare, che un amico lo si possa raggirare.

Poi, se apprendi un fatto ingiusto, nel tuo cuore v’è un sussulto

ne è cagione la nostra società, dove dilaga odio e non bontà.

Ai tuoi occhi la famiglia è una reliquia

la difendi e la sostieni con la forza dell’Amore,

quel grandioso sentimento che mai pone alcuna condizione

e sempre induce all’essere fedele.

I tuoi figli da te hanno imparato, che ciò che vuoi va conquistato

ne risulti decoroso, realizzato ed appagato.

Il tuo animo è lodevole e tu sei meritevole di ogni onore.

Grazie di viver tra noi.

Con infinita ammirazione, ed altrettanta stima

 

 

  Riflessioni (di un assiduo lettore)
di Doretto


 

 

 

            Stamattina - ore 7.30 - a Cafaggiola, nella chiesa del Preziosissimo Sangue, c’è la trasmissione, in diretta su Radio Maria, del Mattutino e della Santa Messa. Dobbiamo alzarci presto perché la Marta  deve essere presente nel coro diretto da Giuseppe Cecchinelli. E io? Credetemi, vorrei andarci, anche a piedi! Ma purtroppo non ce la faccio. E allora eccomi sintonizzato, alle 7, con Radio Maria per non perdere neanche un minuto della diretta.

            Ed ecco che finalmente inizia. Le mie orecchie creo non siano mai state così aperte: che bello! Non ho mai ascoltato la Messa a Gafaggiola come dai microfoni di questa radio. Diretta, pungente; addirittura sentivo i respiri e, soprattutto, le emozioni. Toccante, quando a don Capellini (che io chiamo semplicemente Don), al ricordo di coloro che ci hanno preceduto e che sono nella gioia di Cristo Risorto, gli si è incrinata la voce e quasi gli scoppiava il pianto.

            Questo lo ho avvertito nel silenzio della mia stanza…io, la radio… la voce grave e piena e armoniosa del mio Don, voce che gli veniva non da carne, nemmeno dal cuore, ma dall’anima! Che grande che sei, Don, nel tuo piccolo.

            Poi bello tutto il resto: il coro, le letture, l’omelia. A proposito, il Don sembrava il Papa. Ma…già, è lo steso Spirito Santo che li guida!

            Più tardi (verso le 11) mi alzo da letto, esco e…”Ciao”… Chi è che mi è venuto a trovare? Lui, don Capellini! Credetemi, ho pensato: “Chi accoglierà voi, accoglierà me! Chi accoglierà me, accoglierà il Padre mio che è nei Cieli”. Questo ha detto Gesù agli Apostoli.

            Ecco, io questa mattina nella mia casa di Isola ho accolto Gesù.

 

 

  E' come pregare due volte
di Marta


 

 

            Ubaldo, anzi, per meglio dire, Arcibaldo (lì, nell’entroterra toscano, è diventato Ubaldo) è un ragazzo schivo, timido, timoroso; resta volentieri a fantasticare in un mondo tutto suo. Il  nonno, come lui lo chiama, lo ha portato a vivere in mezzo ai monti, lontano dall’abitato e da ogni contatto umano. Il paese più vicino dista una trentina di chilometri, però c’è, a poca distanza, un convento di frati. Ubaldo e il nonno vivono di pastorizia; sovente portano le pecore a pascolare nei prati vicino al convento. Ubaldo è attratto dal suono di quella campanella. Si sofferma ad ascoltare e ad ammirarne il movimento lassù sulla cima del campanile che svetta davanti a uno sfondo di  montagne, ora innevate, ora brulle e grigie, ora verde foresta.

            Un giorno si avvicinò al convento: non c’era nessuno, entrò. Non era abituato alla preghiera, ma ricordò quando, ancora molto piccolo, la mamma gli parlava di Gesù. Com’era bella la sua mamma! Mentre pensava a lei sorrideva, ricordando le carezze e gli abbracci ricevuti.

            Poi, un triste giorno, lei morì; il suo papà, dal dolore, partì per le lontane Indie (era capitano di vascello) e non fece più ritorno. Ubaldo restò solo, senza alcun parente. I suoi genitori erano inglesi approdati in Italia perché il papà si era trasferito all’Accademia Navale di Livorno.

            Fosco e Giuditta si presero cura di Ubaldo ma, poco dopo, anche Giuditta se ne andò al Creatore,lasciando soli i due uomini che si misero a fare i pastori. Ubaldo portava con sé quel grande dolore, era diventato un bellissimo ragazzo: biondo, occhi azzurri, molto magro, un po’ curvo sulle spalle e con un certo non so che di “inglesino”.

            Lì, nella penombra di quella chiesetta montana, si inginocchiò. Pensava a quando , una sera d’estate incontrò dei cacciatori che dopo una battuta di caccia, ormai sera, stavano bivaccando intorno al fuoco ridendo e scherzando. Poi, uno di loro, tirò fuori un mandolino e cominciò a suonare e cantare. Ubaldo ne fu estasiato; imparò subito quella canzone ed in seguito, spesso la cantava. Così, quel giorno, la volle cantare a Gesù e incominciò: “Sul mare luccica l’astro d’argento, placida è l’onda, prospera il vento. Venite all’agile barchetta mia: Santa Lucia, Santa Lucia!”. La voce era bella anche se assai emozionata; le lacrime che scendevano erano lacrime di felicità. Gli piaceva tanto cantare, ma non conosceva altre canzoni.

            Intanto alcuni frati, udendo quella bella voce, fecero capolino e rimasero sorpresi di vedere quel ragazzo di cui conoscevano tutta la storia. Lo lodarono e gli dissero: “Ragazzo caro, cantare per il Signore è come pregare due volte”.

            Da quel giorno Ubaldo, grazie ai buoni frati, frequentò una “Schola Cantorum” e divenne primo cantore.

 
                                                                                                                                

  Il catechista rifiuta lo stregone
di Padre Carlo Cencio


 

 

IL CATECHISTA RIFIUTA LO STREGONE

 

            In Centrafrica la morte non è quasi mai vista come un fenomeno naturale, e quasi sempre viene considerata un effetto del cattivo volere di qualcuno. Solo l’anziano venerando è destinato ad un normale ricongiungimento con gli antenati e quindi la sua morte è giudicata naturale.; il suo funerale si svolge in un clima di pace, rievocando le sue gesta, i suoi buoni esempi e le sue sagge parole di sapienza.

            Per tutti gli altri, invece, la morte e i giorni di lutto sono non solo un momento di dolore e di pianto, ma motivo di gesti disperati e tristi propositi di vendetta.

            Le controversie e le risse, le discussioni e le accuse speso si concludono con una visita allo stregone per domandargli chi è il colpevole di quella morte, cioè chi ha liberato il proprio likundu o spirito di morte per inviarlo a uccidere.

            In genere il rito della scoperta e rivelazione del colpevole è lungo e comporta varie sedute. Lo stregone vuole essere ben pagato sia in denaro che in natura. Prima di pronunciarsi, domanda il nome di tutti i possibili nemici del defunto e la loro storia. Molto spesso li conosce personalmente e a un certo punto, dopo aver recitato le formule rituali, con l’ausilio di ossicini e altri feticci, si ferma su di un nome corrispondente a uno degli oggetti disposti in cerchio davanti a sé per terra e dice: “E’ questo”. I gesti sono pacati, ma i risultati sono fatali.

            Una volta che lo stregone si è pronunciato, nessuno discute, ma si corre a cercare il colpevole che normalmente viene informato rapidamente dalla potente “radio brousse” e quindi si rende introvabile.

            Se non può fuggire o non vuole arrendersi, affronta i parenti del morto dicendosi innocente. Si butta per terra, piange, urla e cerca di dimostrare in tutti i modi che lui non c’entra e non ha mai scagliato il suo likundu  contro nessuno. La scena si fa tragica e disperata. Se la famiglia dell’accusato è forte, possono anche scatenarsi risse e scontri violenti. Spesso, però, si arriva all’ordalia o prova del veleno. Una fattucchiera prepara con radici e foglie speciali una pozione velenosa che poi l’accusato deve bere. Se la rigetta dopo qualche minuto o il veleno non ha alcun effetto, allora significa che è innocente, se invece non riesce a rigettarlo e muore, questa è la prova che è colpevole. Vendetta è fatta. La giustizia è soddisfatta. Però, invece di un morto ce ne sono due.

            Noi missionari abbiamo sempre lottato contro questi usi contrari al buonsenso, ai diritti dell’uomo e alla fede cristiana. Purtroppo molti cristiani sono ancora succubi di questi usi e schiavi del gruppo. Nelle famiglie e nei clan non tutti sono cristiani, o lo sono solo perché hanno il certificato di battesimo, ma le antiche credenze non sono ancora morte in loro.

            Un cristiano che voglia sottrarsi a questi usi può cadere in disgrazia ed essere odiato dagli altri membri del clan. Solo un capo o un grande personaggio può sperare di farla franca imponendosi sugli altri. E’ quello che ha fatto Pierre, un mio catechista.

            Un suo bambino si era ammalato, forse di malaria o di tifo, Era stato fatto tutto il possibile per salvarlo, ma la febbre lo aveva consumato.

            Naturalmente la mamma e altre donne si erano messe a piangere e a fare i soliti lamenti. Pierre lasciava fare. Ma ad un tratto aveva preso tra le braccia il cadaverino e si era messo a pregare a voce alta dicendo: “Signore, tu me lo hai dato e ora tu lo hai preso. Sia fatta la tua volontà. IO credo, io so che siamo nelle tue mani. Non so perché ce lo hai tolto così presto. Tu solo o sai. Io non voglio chiederlo agli uomini. Essi non sanno. Anche gli stregoni non possono saperlo. Non andremo a cercare il colpevole. Io ti offro questo mio bambino, è tuo per sempre. Prendilo con te nella tua gioia. Era battezzato, è tuo figlio. Lo rivedremo bello come un angelo, ti prego perché sia nostro protettore dal cielo. Guarda le nostre lacrime e il nostro dolore e abbi pietà di noi. Non rifiutare di benedire la nostra famiglia e di darci altri figli, che vogliamo consacrarti per la tua gloria e per il tuo Regno”.

            Questa preghiera recitata davanti a tutti fu così efficace che i familiari non vollero più cercare un colpevole.

            Certo in quel caso tutto era stato più facile, perché si era trattato di un bambino. Era quasi come la scomparsa di un vecchio. Tuttavia fu per tutti un esempio, e nella parrocchia si cominciò a pensare che anche la morte fosse nelle mani di Dio, che è Provvidenza, e non nelle mani del likundu.

            I pianti e i funerali si svolsero in pace, e Pierre non ebbe problemi da parte di nessuno.

 

                                                                            

  La commemorazione dei primi italiani morti in Serbia
di Romano Parodi


 

 

Dal “Ceccardo” di Lorenzo Viani. CAP. XVII°

 

La commemorazione dei primi italiani morti in Serbia

(sett. 1915)

 

            Politeama di Viareggio. Una enorme folla di operai si assiepava nella galleria, guidati dal segretario della Camera del lavoro, Ovidio Canova, amico del poeta; morto poi sul Carso, benché fervente anarchico e contrario alla guerra. Sul palcoscenico, Ceccardo, alto e solenne. Torquato Pocai, Italo Sottini, Giuseppe Ungaretti, circondavano il poeta. Ceccardo parlò con l’usata irruenza, sfrenò il cavallo di tutte le leggende eroiche e con un largo volo di falco si posò sul piano di Kossovo. Cominciò a lanciare nel cielo della leggenda i morti primi della prima guerra del liberato mondo, ricollegandoli in un ideale abbraccio a quelli sepolti nei fossati di Mantova.

            Fino a qui niente di male, eravamo ai morti primi, e l’assassinio di un paese faceva fremere il nostro popolo non ancora erudito da cinque anni di sapienza neutralista. Poi cominciarono le dolenti note. …Francesco Crispi….Francesco Crispi…

            A quelle parole si scatenò un uragano di urli. Il teatro scricchiolava come una barca nella tempesta. L’avvocato Luigi Salvatore tentava invano di riportare un po’ di calma. Allora il poeta si rivolse direttamente a Ovidio Canova, e il pubblico si acquietò: “Se la mercé di Ovidio Canova mi consentirà di continuare il mio discorso io ne sarò ben lieto, ma se il tumulto continuerà, il poeta viandante, tornerà alla strada con i suoi grandi sogni immortali”. Un subisso di applausi che partivano dal cuore salutò il commosso grido del poeta, e il discorso poté continuare sino alla fine.

            La battaglia passò al caffè “Margherita”, dove avvenne un massacro. Una tavolata di amici facevano corona al poeta. Quasi tutti gli apuani insigniti di ordini equestri erano là. Un’atmosfera repubblicana, suscitata dalle roventi parole del poeta, aveva pervaso tutti. Il locale era strapieno. L’orchestra intonò la marcia reale. Tutti si alzarono in piedi, esclusi quelli del tavolo apuano (provocatoriamente). Ma al tavolo vicino sedevano degli ufficiali e ad uno di essi venne la malaugurata idea di alzarsi e tirare un pugno a Ungaretti*. Gli apuani scattarono: sedie, tavoli, bastoni, sifoni di acqua di seltz; Ceccardo gridava - Apuani a me!-  Furono rotte parecchie teste. Quando irruppe la polizia tutti i tavoli erano rovesciati e le stoviglie frantumate. Gli apuani furono portati tutti in questura, ma anche là continuò la battaglia. Fuori una moltitudine di popolo gridava - Liberate gli apuani! - Dentro le cose non andavano meglio: Giuseppe Ungaretti si mise a recitare una poesia di colui che si voleva imprigionare e gli apuani scattarono sull’attenti e applaudivano. Il commissario pensò allora di rivolgersi direttamente a Ceccardo. - Senta, poeta, lei che è un uomo equilibrato…-. Non poté finire. Ceccardo lo investì: “Ella sappia che il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi non fu mai un uomo equilibrato, egli è solo un’anima eroica….!”. Il commissario credé prudente, anche perché fuori le cose non stavano mettendosi troppo bene, rilasciarci. Quando uscimmo dalla questura un urlo di vittoria squarciò la notte di Viareggio. Tutti alla fiaschetteria “Neri”, lo Sbrana. Cavalieri dell’Ordine Equestre e “oscure milizie”. Tutti davanti ad un bicchiere di buona pasta, nell’interno e nell’esterno.

            Il Generale si alzò e tutti si tacquero: - Ho l’onore di annunziare ai grandi marescialli di Apua e a tutti i consoli presenti e assenti, che su proposta mia, il Grande Stato Maggiore apuano ha creato, stasera, “l’ordine dei Cavalieri della Gloria”, per il grande valore dimostrato nell’attacco al caffè Margherita, ne è per primo fregiato l’apuano Torquato Pocai, che primo tirò un tavolo in testa a un ufficiale regio. E seguì un piccolo colpo di “cravache” sulla spalla dell’iniziato. - Ed ora, il Grande Console d’Oriente, Giuseppe Ungaretti, commemorerà il poeta Charles Peguy, caduto sui campi di Francia. Apuani! Scopritevi….”  Dopo la vibrante orazione di Ungaretti, il poeta (già malato) si fé triste, e chiese chi avrebbe dovuto sostituirlo nel caso… - Nessuno! Nessuno potrà mai eguagliarti, - risposero tutti.

            L’indomani, in ordine sparso, tutti gli apuani, e senza accordo alcuno, si ritrovarono al caffè Margherita. Addio, ci risiamo. Arrivarono subito anche carabinieri e guardie ed anche la vittima: il Commissario. Appena il maestro di musica alzò la bacchetta, Ceccardo si alzò e chiese l’inno di Mameli. - Non è nel programma, signor poeta!-.  - All’ora glielo ordino io -, gridò Ceccardo. Il Commissario pensò di obiettare ma il poeta lo interruppe: - Ella sappia che i costruttori dell’unità d’Italia sono morti al sospiro di Mameli non al suono del piccoletto inno intonato ieri sera. Ella sappia che il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi non ha mai pulito i mobili, come fa un signore qui vicino (San Rossore), che  si diverte a pulire i mobili… Le Roi s’amuse …- e giù scrosci di risa.

            Il Commissario irritato invitò Ceccardo a seguirlo in questura, ma il manipoletto apuano si erse davanti a lui, pronto a cadere in difesa del suo Generale. Il Commissario allora attuò una buona strategia: voltò le spalle e se ne andò. 

           

 P.S.

Giuseppe Ungaretti, solo più tardi, diventò fascista, cattolico, e uno dei più grandi poeti italiani. Nell’età giovanile, assieme a Pea, sempre presente nelle apuanate ceccardiane, aveva fondato un circolo anarchico anche ad Alessandria d’Egitto; laggiù c’era anche Marinetti.

Al prof. Romolo Souza, Belo Horizonte, che mi chiedeva il nome dei cinque più grandi della poesia italiana, così risposi: Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Ungaretti.          

                                                                                                     

                                                                                                            

 

 

  Lettera dal Brasile
di Jacy Pietra


 

 

Lettera dal Brasile

           

Caro Romano, io ho scritto uno piccolo articolo, sempre da mio nono, in italiano. Meno male, no? Fatima mi ha fatto la traduzione.

 

FIORAVANTI  PIETRA

 

            Noi eravamo così: figli e figli dei figli di Fioravanti e Margherita Giannetti, venuti dall’Italia, dalla piccola Ortonovo, sono  arrivati qui insieme all’inizio del nuovo capoluogo. La città è cresciuta con il tempo e con il lavoro di quelli che abitavano qui. Gli otto figli hanno avuto anche loro figli: la famiglia è cresciuta uguale o ancora più della città.

            Dunque, i Pietra sono diventati molti: zii, cugini, mescolandosi agli amici e vicini…. Insomma, molta gente. E dopo, quei fratelli, nuore, generi e figli si sono dispersi nella grande città. Gli incontri accadevano soltanto negli avvenimenti importanti. Purtroppo nella maggioranza dei casi ai funerali.

            Tuttavia, tutti sentivano la gioia di rivedere i parenti. Facevano promesse di visite, appuntamenti, telefonate… Però erano soltanto promesse; la vita li coinvolgeva… poi c’erano i lavori e tutti i compromessi. E nessuno sapeva molto della vita dei nonni.

            Poi Fioravanti nulla diceva del passato vissuto in Italia. Lui non diceva e nessuno gli domandava. Strano, giacché è normale che le persone parlano di sé. Fioravanti no. Con una vita così ricca di speranze, un passato di lotta politica, un’effervescenza di ideali, tutto è rimasto nei suoi ricordi, soltanto per lui.

            Un giorno una pronipote ha deciso di riunire i parenti; ha proposto che noi ci riunissimo affinché i figli dei figli si conoscessero. E così abbiamo deciso di riunirci una volta all’anno, con tentativo di stringere i legami di parentela aggiunti ai legami di amicizia. Dopo, ricercando nella magia di internet, Simone ha scoperto tutto  ciò che oggi sappiamo su Fioravanti, il nostro bravo nonno. Il suo ricordo è diventato vivace in nostro cuore e ci portiamo l’orgoglio della sua traiettoria in questa vita.

            Oggi siamo qui in questa grande città che gli italiani, che qui eranno arrivati insieme a Fioravanti, avevano cominciato a costruire.

            Ricordare, scrivere, parlare, sentire nostalgia… ecco tutto quello che mi accade in questa occasione, felice di potere sentire l’orgoglio e ammirazione per il nostro predecessore.

Un forte e “saudoso” abbraccio a tutti gli ortonovesi, e ai miei parenti.                  

 

                                                                                              Jacy Pietra

           

 

Grazie Jacy di queste belle parole. Approfitto per comunicarti che il bellissimo e grosso libro biografico di Belo Horizonte, che mi ha inviato la Simone, contiene un errore: fra i fondatori della città c’è Pedro Fioravanti di Ortonovo -Genova. Hanno scambiato il nome con il cognome. Inviaci la storia della piccola Leonice (aveva tre anni), nata a Ortonovo.  r.p.

 

 

  Spartan
di Mario Orlandi


 

 

V’stì d’ nero,

semp’r giachetae capello,

la gamba larga

e l’ndar crolon,

pront p’r ‘n bich’ero

anc a ‘ndar ‘ pian:

ec Narciso o mei Spartan.

Baraba, Buzon, Bachì

i’l control’n

e, apena da la Rosolina,

‘na bela stracionata,

p’r giogo, p’r far do risata.

Gh’è ‘n divertimento

cativo ma inocento

p’rché Spartan

i sa d’es’r noioso

e i ragazi i sfog’n coscì la giov’ntù.

Però

quand Spartan gh’è morto

e i n’è v’nù a Nicola

‘n t’l su camp’santo,

sol lore, i ragazi d’la stracionata,

gh’an dì seri, aviliti:

“Pov’r Spartan… ‘i s’ volev’ben!

Gh’è sbagh’a non averl’ portà a Nicola”

La stracionata, in fondo, gh’ere ...amoro!

                                                   

                                                                                      

 

      

SPARTAN - (Narciso Del Punta) - Vestito di nero, sempre giacca e cappello, le gambe larghe e il procedere barcollante, pronto per un bicchiere anche a scendere al piano: ecco Narciso o meglio Spartan.

Barabba (Ivano Verdina), Buzon (Adriano Gianfranchi), e Bach’ì (Nello Macchioni) lo controllano e appena dalla Rosolina (lo stretto corridoio tra la chiesa e la casa posta ad est, abitata un tempo da Rosa Cervia) una bella straccionata (lancio di uno straccio inzuppato d’acqua), per gioco, per fare due risate. E’ un divertimento cattivo ma innocente perché Spartan sa di essere noioso e i ragazzi  sfogano così la loro gioventù.

Però quando Spartan è morto e non è venuto a Nicola nel suo camposanto, soltanto loro, i ragazzi della straccionata, hanno detto seri e avviliti: “Povero Spartan...ci voleva bene! E’ sbagliato non averlo portato a Nicola”.

La straccionata, in fondo, era amore!

 

  Da Luni Mare
di Paola G. Vitale


 

            Cari amici, tutto questo doveva essere scritto ieri mattina, quando la Santa Messa di Radio Maria ci era donata dalla cittadina di Oristano.

Di colpo mi è venuta in cuore e in visione l’espressione felice, veramente felice, di padre Oriano, mentre andava ad incontrare i fedeli provenienti dalla Sardegna.

Non posso dimenticare la gioia di lui, per l’incontro con tante anime fedeli e filiali che corrispondono bene a quanto di meglio si può chiedere ad un “cristiano”.

 Caro padre Oriano, anch’io li vorrei tutti così, pastori e pecore tutte di Dio, ma ricorda anche l’intercessione che Maria ci promette attraverso la preghiera, per tante anime che altrimenti si perderebbero. Padre Oriano, prega ancora e intercedi per noi, con Maria!

                                                                                               

                                                                                            

                                                                                                                  Paola G. Vitale

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