N° 2 - Febbraio 2021
A PROPOSITO DEL “GLORIA”
di Antonio Ratti


La Messa, che dà sostanza alla fede cristiana, è un rito costituito da una sequenza logica di momenti con precisi significati.  Inizia con l’Atto penitenziale. Il fedele riflettendo in silenzio e confessando insieme ai confratelli le proprie mancanze, chiede al Signore di poter partecipare in modo spiritualmente adeguato alla Liturgia della parola ( Letture e brano del Vangelo ) e alla Liturgia eucaristica.  Subito dopo viene recitato o cantato il Gloria, nel quale vengono riconosciuti ed elencati tutti gli attributi che la mente umana è in grado di individuare nel Creatore e Signore di ogni cosa. Inno di lode a Dio che si apre con le parole pronunciate dagli Angeli per annunciare la nascita di Gesù ai pastori e prosegue esaltando lo stretto rapporto tra il Padre ed il Figlio Unigenito, donato agli uomini per la loro salvezza. Il vocabolo “gloria” è un termine biblico che traduce la parola greca dòxa  ( opinione, visione, gloria ) che a sua volta traduce l’ebraico kavod ( etimologicamente, qualcosa di pesante e di importante che impone rispetto e riconoscimento ). Riferito a Dio kavod ( gloria ) indica la dignità e la regalità divina che si manifestano con tutta lo loro potenza e splendore. Il termine “gloria”, non equivale semplicemente al dare lode, ma equivale in modo particolare alla manifestazione gloriosa e visibile di Dio, di fronte alla quale l’uomo non può che lodare e ammirare. Pertanto, gloria, vista dalla parte di Dio, è manifestazione  ( epifania ) di se stesso; vista dalla parte dell’uomo è riconoscimento e lode. La “gloria di Dio” nel Nuovo Testamento ce la indica espressamente Paolo nella seconda lettera ai Corinzi ( 4, 3-6 ) quando dice “risplende sul volto di Cristo”.
In tutto il Vangelo di Giovanni la gloria e la glorificazione di Cristo ne rappresentano il fulcro centrale: “Il Verbo si fece carne …… e noi vedemmo la sua gloria” ( 1, 14 ).  Nell’inno di lode la gloria dovuta al Padre si unisce intimamente a quella dovuta al Figlio  e il momento della piena manifestazione è l’ora della Croce che Giovanni chiama proprio “glorificazione”, perché il mistero di Dio, che è amore, appare in tutta la sua forza vittoriosa e magnificenza. Il Gloria è un inno alla Trinità dove le tre Persone, nella loro misteriosa unità, hanno un ruolo ben definito nel piano di salvezza. Mentre il Gloria rappresenta la più alta espressione di lode al Signore, il Credo è la professione di fede, dove vengono elencati tutti i principi cardine su cui poggia la dottrina cristiana, così come definita dai teologi padri conciliari dei Concili di Nicea    ( 325 ) e di Costantinopli I ( 381 ). E’ palese come concettualmente le due invocazioni si pongano obiettivi diversi ( lodare Dio e professione di fede ), eppure lo stile e la stesura le accomuna decisamente. Come al solito, le preghiere più emozionanti e, soprattutto, più ricche di contenuti, sono sintetiche, chiare ed esplicite ( vedi anche il Padre Nostro ). Il Gloria e il Credo, pur essendo nati nel Medioriente dove il cristianesimo si è diffuso più rapidamente e prima, non hanno nulla a che vedere con l’ampollosità del linguaggio greco e bizantino poi. E questo non deve sorprendere, poiché Gesù ha sempre usato uno stile sobrio,  diretto, così come impone la lingua aramaica povera di vocaboli  e senza giri di parole che creano difficoltà di comprensione. Tornando al Gloria, osserviamo come la frase iniziale sembra avere nel testo un carattere natalizio, al contrario è di carattere pasquale; infatti, è una lode dove Cristo è acclamato Signore, Agnello di Dio, Figlio del Padre, che toglie i peccati del mondo attraverso la croce.
La preghiera che conosciamo ha avuto una lunga gestazione con versioni diverse nella forma e nella lunghezza e trova la sua origine nelle comunità cristiane orientali nel III secolo ed i primi abbozzi sarebbero addirittura del I secolo.  Il Codex Alexandrinus ( IV sec. ) sostiene che era parte  delle preghiere del mattino  ( Orthos  = mattutino ) e veniva cantato come i salmi al ritmo del salterio.

Venendo alla Chiesa occidentale, la tradizione vuole che il testo greco sia stato tradotto in latino da sant’Ilario di Poitiers  intorno al 360 al ritorno dall’esilio in Frigia ( Turchia centrale ) dove era entrato a diretto contatto con i grandi teologi e padri della Chiesa orientale.
Comunque il Liber pontificalis  sostiene che papa Telosforo ( 128 – 139 ) ordinasse  che nel giorno della nascita del Signore  si celebrassero messe di notte e che si recitassero le parole degli Angeli ai pastori, e che papa Simmaco ( 498 – 514 ) ordinasse di recitare ogni domenica, prima del sacrificio, l’Inno angelico, ma solo da parte dei vescovi. Intorno all’anno mille il Micrologus  ( 1048 ) ci dice che “ in tutte le feste che hanno un ufficio completo, eccetto in Avvento e in Settuagesima**, sia il prete che il vescovo devono recitare il Gloria in excelsis.” Successivamente, come adesso, il Gloria diviene parte fissa della Messa, eccetto nei tempi penitenziali .

Il Gloria, come il Te Deum, si presenta come una poesia lirica con una struttura metrica e musicale ben compatibile con il Salterio biblico ( strumento musicale e tipo di canto ebraico per i salmi ) e con il Canto gregoriano ( es. il Gloria della Messa degli Angeli ).          

NOTA. ** Tempo di settuagesima.  ( dal Messale di S. Giovanni XXIII )  Informalmente detto “ tempo di carnevale”, è un tempo liturgico a carattere penitenziale in preparazione della Quaresima e la Domenica di settuagesima è la terza domenica che precede la quaresima e cade 70 giorni prima della Pasqua.


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