N° 4 - Aprile 2015
IL CONCILIO DI NICEA (325 d.C.)
di Ratti Antonio


 

Nei primi quattro secoli di cammino della Chiesa il problema dei problemi dottrinali è il mistero trinitario. L’imperante cultura greco-ellenistica, per sua natura portata alla speculazione filosofica, stimola a darsi sempre una soluzione razionale che soddisfi l’esigenza di capire l’essenza delle cose. Così la natura o le nature di Gesù diventano l’oggetto primario di defatiganti ricerche e riflessioni. Per capire il filo logico che porta al Concilio di Nicea occorre partire dalle Scritture.
Nell’Esodo è scritto: “Dio pronunciò tutte queste parole: Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti darai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sottoterra… Non ti prostrerai dinnanzi a loro e non li servirai, perché io, il Signore, sono il tuo Dio”, e aggiunge che è geloso e tiene in modo assoluto alla sua unicità. Accanto a questa definitiva affermazione di unicità nel Nuovo Testamento sono presenti alcune teofanie
(manifestazioni di Dio) nelle quali Dio dichiara Gesù essere il Figlio amato nel quale si è compiaciuto (es.: la trasfigurazione sul monte Tabor alla presenza di alcuni Apostoli e il battesimo di Gesù nel Giordano). Molte volte Gesù parla della missione salvifica verso l’umanità affidatagli dal Padre e dichiara la sua figliolanza con Dio-Padre, in modo particolare durante la preghiera nell’orto del Getsemani e sulla croce. L’arcangelo Gabriele tranquillizza Maria rimarcando che il figlio che partorirà non è opera di uomo, ma dello Spirito di Dio. Gesù offre agli Apostoli la garanzia di far  superare le loro fragilità, quali pescatori di uomini, attraverso lo Spirito (le lingue di fuoco della Pentecoste) che sarà la guida sicura nel cammino di salvezza per ogni credente.
Su questi punti, che per brevità ho solo citato, anche perché noti a ogni cristiano, non possono sorgere dubbi. Ma, se abbiamo un Padre, un Figlio e uno Spirito, come possiamo sostenere l’unicità di Dio? Ci troviamo di fronte ad una mini forma di politeismo? Per dare forza all’unicità, indivisibilità e infinità divina prende il via una delle più accese e ricche discussioni tra i teologi più influenti e i patriarcati di Antiochia e Alessandria, perché appare chiaro che è in gioco il valore e la credibilità dell’opera di salvezza messa in essere da Dio-Padre attraverso il Figlio, Gesù. L’ipotesi più semplicistica è proposta dal Sabellianismo (dal presbitero libico Sabellio) e dal Modalismo, i quali sostengono che le persone trinitarie altro non sono che tre modi di proporsi dell’unica sostanza che è Dio (*).
Il presbitero alessandrino di origine berbera, Ario, che si era formato alla scuola di Luciano di Antiochia di Siria, bolla senza mezzi termini le tesi di Sabellio e affronta la questione con delle argomentazioni che è più difficile contestare e contrastare. Partendo dalle Scritture afferma che Dio è unico, eterno e indivisibile, quindi il Figlio, in quanto generato non può essere considerato uguale al Padre, perché la natura divina è unica e indivisibile. Inoltre, essendo generato, vi è stato un momento in cui non era, quindi non può essere co-eterno col Padre, perché la natura divina è di per sé eterna, unica e indivisibile. In caso contrario si cadrebbe, come detto, in una condizione analoga al politeismo pagano.  Ario non nega la Trinità, ma subordina il Figlio al Padre che lo ha generato, pertanto rifiuta la consustanzialità (homousia) tra le persone trinitarie; dunque, Gesù è una sorta di figura intermedia, sicuramente non identificabile con Dio, al quale, però, è stato affidato dal Padre il compito di realizzare il progetto di salvezza dell’umanità (il Messia delle Scritture).
Il seguente è il primo dubbio che sorge immediatamente sulla tesi di Ario: può il sacrificio di un “non Dio” garantire la salvezza all’intera umanità? Ridurre Gesù ad un Ercole e alle sue dodici fatiche, mi sembra veramente una scorciatoia poco attendibile teologicamente e anche razionalmente. Oggi la biologia ci dice che il figlio porta con sé il DNA del padre, cioè la stessa sostanza del padre, quindi la Trinità, a maggior ragione, può essere costituita da tre persone aventi la stessa sostanza e natura. Il povero Ario non poteva conoscere il DNA e non ha potuto farsi aiutare dalla biologia.  Se questa descritta è la sintesi delle dispute dottrinali, non vanno assolutamente dimenticate le ripercussioni negative all’interno delle comunità cristiane: la discussione sulle varie posizioni sfocia spesso in ostilità personali e disordine nella guida e gestione delle diocesi. Per esempio, ad Alessandria si arriva ad alternare un patriarca ariano a uno non ariano. Le conseguenze sono ovvie e immaginabili. Com’era accaduto per la Chiesa latina con il Concilio di Arles, Costantino, divenuto nel frattempo unico imperatore di Oriente e Occidente (324), si mantiene coerente con la sua volontà e necessità politica di pretendere una Chiesa forte e coesa. Così, anche su sollecitazione dei patriarcati di Antiochia e di Alessandria, protagonisti della disputa, prende la decisione di convocare un Concilio ecumenico nella sua reggia di Nicea (la residenza abituale era nella vicina Nicomedia) e delega al vescovo spagnolo Osio, suo fidato consigliere per gli affari del culto, l’organizzazione dell’assemblea che vuole veramente universale; difatti, quello di Nicea è riconosciuto come il primo Concilio ecumenico nella storia della Chiesa cristiana. (fine prima parte)

 

Nota. (*)Per Sabellio la Trinità è una successione di modi di essere dell’unica essenza: Padre nell’Antico Testamento, Figlio nella redenzione, Spirito nell’azione carismatica.
Il sabellianismo è detto patripassionismo, perché è il Padre che soffre come Figlio.




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