N° 3 - Marzo 2017
La settimana santa
di Dalla Gazzetta del Popolo di Domenica 2 Aprile 1993


La Settimana Santa

di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

 Sotto la pace cinerea del cielo nuvoloso, nel piccolo borgo annidato a mezza costa, fra gli olivi e i boschi di castagni ancora brulli, svolgesi mestamente la settimana santa. E’ una cosa che ho notato quasi sempre, la mestizia del cielo, in quella settimana; quell’assonanza strana della natura che sta per ridestarsi coi miti che la chiesa cristiana celebra. Il lunedì e il martedì i contadini calano al piano sul mattino bianco e ritornano sul far della sera carichi. Nel borgo c’è il consueto battere dei telai, il consueto stridio delle seghe dei falegnami e il garrulo grido dei monelli che giuocano sulla piazza della chiesa. Ma nella sera del mercoledì, mentre qualche raggio vermiglio guizza, ridendo, tra nube e nube, vanno i fanciulli, a frotte a frotte, con grossi bastoni, alla chiesa dalle vetrate rilucenti. Li seguono una parte degli uomini e delle donne, i più devoti. Pregano i preti e le donne, ma i ragazzi in fondo alle navate scherzano, ridono, si rincorrono, si battono… Sono la disperazione del vecchio chierico Garibaldi. Però l’onor più grande della funzione è riposta nella loro forza. Quando sono finiti gli uffizi sacri e la gente esce, essi battono con gran violenza i loro bastoni sulle panche. Il rumore assordante echeggia cupamente per le volte buie, mentre di fuori l’Ave piange melanconicamente sul borgo che fuma, sulla gente che per le viuzze e le piazzette s’affretta a casa, sui boschi grigiastri, sfumanti, nella penombra sempre più cupa…
Ed eccoci giunti finalmente a giovedì. Qui le funzioni sacre incominciano ad assumere un carattere rappresentativo che i borghi del piano e le città non conoscono. Fin dalla mattina è un insolito correre di curiosi alla parrocchia, dove si tiran fuori da certi vecchi canterani gli arredi per la rappresentazione della sera: le cappe bianche, le rosse con le buffe, la croce enorme di legno bianco, il gallo, le lance, le scale. Nello stesso tempo per le case le donne riempiono d’olio i gusci vuoti delle lumachelle, preparano lanterne e lucerne per la illuminazione della sera, e qualche zelante fa sui muri dei sentieri, per le viuzze, dei piccoli mucchi di pelo d’oliva donato dai vicini frantoi – pelo che alla sera bruciando punteggerà di mille note fantastiche i boschi negri, il cielo velato, la processione dei bianche e dei rossi. Pochi in quel giorno vanno a lavorare e sulle ventidue son già tutti in paese. Si cena in fretta. Regna nei cuori una pia aspettazione. E infatti verso l’ora di notte, nella vecchia chiesa che sorge sul luogo dove un giorno torreggiava il castello della repubblica ligure, dopo che il predicatore domenicano ha, con voce più o meno piagnucolante, ricordato l’anniversario che corre, il martirio, i dolori, ecc., Garibaldi (Gianoli), il chierico dalla tonaca color caffè o giù di lì, distribuisce in giro le fiaccole, s’apre la porta grande, e la processione rappresentante la salita di Gesù al Calvario esce. Svolgesi lentamente per la piazza, per le viuzze che solcano in vari modo il borgo. Prima una folla di donne, giovani, vecchie, maritate e zitelle, sorelle e priori, tutte alla rinfusa. Poi ordinatamente, a gruppi intorno ai vari simboli, la confraternita della Madonna, incappucciata di bianco; poi quella del Sacramento, dal tabarro rosso, in mezzo alla quale, consolato dai canti assordanti di Beppe da Canella (Repiccioli)  e Lazarino del Fosso (Maberini), va il povero Gesù Cristo, cioè un uomo mascherato d’azzurro e rosso, più o meno come è credenza popolare che il Nazareno vestisse. Per lo più è il signor Michele: la barba lunga che usa portare gli serve benissimo per l’occasione. Dietro a lui, preti,chierici ed altre donne in folla. La processione cammina lentamente, allungandosi pei colli della borgata, tra le case grigie, i terrazzi antichi, allumati dalle lucerne (niente elettricità), dalle lumachelle che i buoni villici hanno posto sui davanzali di macigni. Le pozze d’acqua qua e là e le vetrate riflettono bizzarramente quelle luci. Poi finalmente esce dal paese, e per la strada, dalle vecchie mura diroccate (la Pedamura), fra ulivi tinti in rosso dai roghi di pelo, s’incammina fantasticamente al Santuario del Mirteto, distante poche centinaia di metri. Davvero che allora fa un effetto stupendo la processione, vista dal borgo: la processione coi suoi mille punti ardenti che appaiono e scompaiono fra le siepi, i tronchi e i rialzi del terreno, coi suoi mesti salmi perdentesi nella notte buia, nella valle cupa, dove la Parmignola non vista urla!… Anche non volendo si ha un’impressione dolorosa, si ricordano tempi molto antichi, lugubri scene. Poi lentamente i preganti perdonsi fra gli olivi, fra i brulli castagni. Il povero Gesù, come l’antico, va a piedi nudi e sotto la grande croce. E sotto d’essa all’urgere delle mani dei superstiziosi suoi compaesani deve cader varie volte. Poveretto, sta fresco, qualche volta! Fino a una diecina d’anni fa, spargevano dei pezzetti di vetro. Finalmente confraternite, preti e Gesù arrivano a destinazione. Un tempo, circa cinquanta anni fa, e forse anche più, si usava legare il povero Gesù, a una croce di legno che si innalzava poi nel grande piazzale in faccia alla chiesa. Nella notte immensa, del tutto calata, doveva parere ben triste quei fantasmi vestiti di bianco e di vermiglio, allumati da giallastre faci, tutti intenti a rinnovare il mito della crocefissione! Intanto a poco a poco i roghi di pelo sui muriccioli, per le stradette, sui ciglioni muoiono, muoiono le lumachelle e le lanterne sui balconi.

All’indomani sera, cioè venerdì, succedono le stesse cose: la borgata è di nuovo coronata di fuochi, e di roghi son punteggiate le pendici a torno; ma Gesù Cristo vivo non c’è più, non ci son più scale, il gallo, le lance. Sor Michele (Beggi S’condin) si contenta soltanto di far da priore. Ma invece si porta in giro un grande Cristo di legno pitturato, deposto sopra una bara.

Questo spettacolo è più religioso di quello della sera innanzi. Un accompagnamento funebre ha sempre qualche cosa di solenne, specialmente poi fatto così, nella notte bruna, fra mille fuochi, fra cento boschi fantasiosi, reso melanconico, cadenzato di molte voci che levano d’intorno il salmo di Davide: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam…

Così si arriva al mattino del sabato santo. Anche quest’anno, dopo tanto tempo che non credo più, aspetto con desiderio di letizia lo scampanio della messa grande. Quella festa di campane, che si spande nel borgo, sugli alberi delle pendici e sul piano; quella festa, arreca un po’ di bene alla ribelle anima mia. Suona allegramente il campanile di Ortonovo, mentre qualche sparo di fucile o di mortaretto rintrona. Dal piano rispondono le campane di San Martino del Ghinolo, la chiesa più antica di questi d’intorni: dalla collina di contro quelle di Nicola. Le onde sonore espandosi nell’azzurra vastità dei firmamenti. E’ una festa semplice e allegra: somiglia a quella della mezzanotte di Natale; e fra tanta tristezza e desolazione paiono piuttosto voci peregrine incoraggianti alla speranza, nella triste via, che è un vero e grande inno di pace e d’amore….

Ortonovo 1893



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