N° 11 - Dicembre 2015
Morte di un cerro (quercus cerris)
di Romano Parodi


 

            Sempre m’accompagno al corteo funebre per la via di “Saroco” e spesso, nel rispettoso silenzio cadenzato dallo scalpiccìo mesto dei passi, torno al tempo dell’infanzia, quando la strada era un viottolo impervio ed i morti venivano portati a spalla, sempre in precario equilibrio (una volta una bara fu trascinata sulla neve con delle funi; mi dicono i più anziani che si trattava della Mansuè).
In quel tempo, a cinquanta metri dal piazzale d’ingresso al cimitero, si passava sotto le fronde di un grosso cerro, “ ‘l cero d’i Bianchi”. Era così imponente che neppure tre persone riuscivano ad abbracciarlo. Così come “l’ormolo d’la Lama” avrà avuto mille anni, e oggi sarebbe un’attrazione turistica.
Il giorno che abbatterono il cerro, assieme a tanti altri spettatori, mi trovavo sulla strada carrozzabile appena fuori del paese. Come alla balconata di un teatro stavamo lì, a goderci lo spettacolo, ma, ricordo bene, che noi ragazzi eravamo preoccupati: sentivamo in cuor nostro quanto tutto ciò fosse sbagliato (da Elio Gentili abbiamo saputo che, nel secolo scorso, quando il Sindaco di Ortonovo vendette l’olmo a un falegname, gli ortonovesi si opposero con determinazione e non fu abbattuto. Di lui è rimasto il detto: “T’sen pu’ groso che d’ormolo d’la Lama!”, per dire di persona gretta e dura. Cadde poi da solo per il forte vento di tramontana nei primi anni del secolo scorso e, dicono, arrivava fino alla via del “bozo” (il lavatoio), costringendo le donne che andavano a lavare i panni a una lunga deviazione).
Ma torniamo al nostro cerro. Un consorzio di boscaioli l’aveva comprato dalla signorina Bianchi come legna da vendere e, onde sfruttarne anche la grossa ciocca, l’avevano ben scalzato con pale e picconi; poi, tagliate le grosse radici (non tutte però), ne provocarono la caduta. Ricordo ancora il grande spavento di quel momento: la terra tremò sotto i nostri piedi. Il cerro viveva in un luogo dove il vento di tramontana spira con inaudita violenza e, per resistere tutti quei secoli a quella furia, aveva allungato e rafforzato le sue radici per centinaia di metri. Vicino al tronco sporgevano dal terreno come i muscoli dei culturisti: muscoli possenti. Le radici non tagliate, che probabilmente si estendevano fin sotto il paese, alla sua caduta causarono una scossa che avvertirono anche dentro le case; alcuni dissero, forse esagerando un po’, che tremò anche il campanile! “Povero gigante, tagliandoti anche le radici ti hanno ucciso per sempre! Tu, così superbo, hai assistito impotente ai preparativi di quei piccoli esseri per la tua esecuzione!”.
Fu uno schianto. Nel baratro dell’agonia travolse con sé tutto ciò che trovò sulla sua strada; ma ciò che mi è rimasto impresso fu la metamorfosi dell’ambiente: cambiò completamente aspetto; sembrava orfano di qualcosa; non riuscivo più a raccapezzarmi.
A terra sembrava anche più gigantesco e impiegarono giorni e giorni per disintegrarlo.
Nei suoi pressi, prima della strada carrozzabile, correva il sentiero che conduceva a Fontia e a Carrara, nonché ai terreni coltivati della Jar d’ Felcia o ai boschi della Zura; per secoli gli erano passati accanto viandanti, boscaioli, contadini, animali; s’erano riposati alla sua ombra e ne avevano raccolto le grosse ghiande per maiali e galline. Ai miei tempi non era possibile salirci sopra: era troppo grosso e non aveva rami bassi ai quali appigliarsi, cosicché i nidi erano al sicuro e gli uccelli (che rabbia!) lo sapevano. Trovandosi inoltre più in basso del paese, s’era alzato verso il cielo così tanto che ne vedeva una porzione e, sentinella silenziosa, ha spiato per notti e giorni, per anni e secoli, il quotidiano scorrere della vita dei nostri antenati: le loro feste, i loro drammi; ha visto passare tutti i nostri morti e, illuso, credeva di vederne passare ancora molti di ortonovesi. Avesse potuto parlare, lui sì, avrebbe potuto squarciare le nebbie del nostro passato, rispondere ad ogni nostra insoddisfatta domanda!
Alcune volte, la sera, noi ragazzi andavamo a vedere gli uccelli che a migliaia vi pernottavano e si contendevano i rami migliori, come fossero camere di un grande albergo, ospitale e sicuro. Fra le sue fronde era tutto un brulicare, cinguettare e un continuo sbatter d’ali. A pochi centimetri dalla meta, pur continuando a frullare nell’aria, si fermavano indecisi: volevano divertirsi ancora un po’ prima di coricarsi. Nei giorni d’estate, inoltre, dal suo interno si spandeva nell’aria assolata l’incessante frinire delle cicale.
Per difendersi dai ricorrenti incendi, aveva fatto,  attorno al suo tronco, terra bruciata d’ogni forma di vegetazione arborea; le sue radici non permettevano indebite intrusioni, solo l’erba che poi l’avrebbe concimato. Un giorno un grande incendio partì dalla selva, l’aria si oscurò di pulviscolo e le piante stridevano di dolore. Frammiste al crepitìo delle fiamme, urla d’animali e grida concitate di persone… Sospinto dal vento il fuoco aveva deviato verso il paese e gli uomini in forza battevano le vampe con frasche e bastoni, sollevando cenere e faville che in gran quantità si posavano sul cerro: un’incipiente canizie l’aveva imbiancato. Sembrava gravemente malato e pencolava mesto. Sentiva la terra bollire e gli insetti correre al riparo delle sue radici, e scoiattoli e topi arrampicarsi spaventati, e nell’aria un forte odore di bruciato che sapeva di morte. Aveva passato un brutto quarto d’ora!
Tornata infine la quiete, tutto era nero, gli alberi scheletriti e morti; tutto il bosco era morto.
Solo il grande cerro continuava a svettare arrogante e superbo.

                                                                                                         


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