N° 4 - Aprile 2015
Commento ai Vangeli del mese – Aprile 2015
di Claudia Pugnana


5  APRILE 2015:  Santa Pasqua   (Gv  20, 1-9)

L’evangelista Giovanni ci presenta un racconto pasquale molto schematico perché, come scrive il Ricciotti, presuppone la conoscenza dei resoconti dei Sinottici e vuole precisare solo alcuni punti avendo l’autorità del testimone oculare. Maria Maddalena, la discepola fedele di Gesù, è la protagonista principale di questo racconto e anche i Sinottici la mettono sempre per prima nell’elenco delle donne che vanno al sepolcro.
Per San Giovanni , Maria Maddalena è la prima donna a trovare la tomba vuota e, successivamente, ad avere la prima apparizione del Risorto.
La spiegazione della sua solitudine, secondo alcuni esegeti, è nel fatto che Maria, avendo fretta di andare al sepolcro, ha lasciato il gruppo delle pie donne che si erano fermate ad acquistare gli unguenti ed è arrivata alla tomba “quand’era ancora buio”. Non è una stranezza che i negozi fossero aperti a quell’ora: la giornata lavorativa iniziava al canto del gallo e i commercianti, che spesso dormivano nelle loro botteghe o in un locale attiguo, erano sempre disponibili per i loro clienti.
 Maria corre da Pietro e gli comunica l’apparente tragedia della scomparsa del corpo di  Gesù. L’intervento di Pietro e Giovanni  per la storia del Cristianesimo è un momento fondamentale e ha il suo culmine nella frase ”Vide e credette “. I due verbi hanno come soggetto Giovanni che entra nel sepolcro dopo Pietro, riconoscendogli l’autorità di Capo della comunità. Giovanni  vede  il sudario e le fasce che ricoprivano il corpo di Gesù e dopo questa visione gli si chiariscono tutti gli avvenimenti che avevano preceduto quel momento e crede.
Cos’è che gli ha dato tale certezza?  Don Antonio Persili ha scritto un interessante saggio su questo fatto che approfondisce la traduzione di  alcuni termini greci del Vangelo di Giovanni.  La Vulgata e l’attuale traduzione cattolica italiana traducono sempre con il verbo “vedere” i tre verbi  greci che San Giovanni usa nel testo: versetto 5, blépei (constatare con perplessità), versetto 6, theorei (contemplare), versetto 8,  eiden (vedere pienamente). Il participio passato  keimena , riferito alle fasce che stringevano il lenzuolo che avvolgeva il corpo, viene tradotto con ”per terra”, mentre don Antonio ritiene che più corretto sarebbe tradurlo con “distese”. Quindi dopo una lunga e accurata ricostruzione della sepoltura di Gesù, con la precisazione delle varie funzioni dei pezzi di tela che ricoprivano il cadavere, arriva alla conclusione che ciò che vide Giovanni e lo fece credere era  la Sindone, il lenzuolo che riporta impressa misteriosamente l’immagine di un corpo.

12 APRILE 2015  II Dom di Pasqua  
(Gv 20,19-31)

Il brano evangelico di oggi inizia con  le parole“la sera” a significare lo stato d’animo dei discepoli che stavano vivendo il loro momento di buio incipiente e,nella penombra, erano incapaci di essere lungimiranti, di riuscire a guardare oltre un palmo dal nostro naso. Tutte le prospettive future, le infinite potenzialità che il Maestro aveva dato loro stavano dissolvendosi nel buio del dolore. E’ la sera del  primo giorno dopo il Sabato. La parola ebraica Shabbat  proviene dal verbo ebraico shabat, che significa letteralmente ”smettere” (di compiere alcune azioni).  Sabato, inteso nel suo significato etimologico può indicare anche la conclusione di una fase, la cessazione di un tempo, di una periodo che si è compiuto. Quindi i discepoli si trovano a dover affrontare la fine di una fase estremamente importante per la loro vita, dopo l’illusione di aver trovato il Messia d’Israele e la delusione della sua tragica fine.
Una prima reazione è quella di “chiudere le porte per timore dei Giudei”. A fronte di qualcosa che non va come avevamo previsto o come desideravamo che andasse, la tendenza è quella di chiudersi, di proteggersi, di irrigidirsi, di temere.
All’improvviso “venne Gesù e si fermò in mezzo a loro”e  disse: “Pace a voi!”. Il termine “pace” deriva dalla radice sanscrita “pac” che vuol dire “legare, unire, saldare”. Con questo augurio Gesù volle  infondere coraggio ai  suoi discepoli per non separarsi, per resistere e tenere in piedi  quella comunità che si era formata! Il primo incoraggiamento che Gesù dà per non mandare tutto all’aria è mostrare le mani e il costato per far fare ai discepoli memoria storica di tutto il percorso fatto. Tutto quello che hanno visto e vissuto c’è stato veramente e quei segni rappresentano una prova, una tappa che ha chiuso una fase del cammino che ora devono proseguire in un modo nuovo. Ancora una volta Gesù cerca di incoraggiare i discepoli dicendo loro di rimanere saldi, di non sgretolarsi. La frase “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” invita i discepoli a continuare l’opera di Gesù, ad insegnare agli altri uomini l’ABC della Vita vera, ad imparare a  leggerlo e a metterlo in pratica . Quindi alita su di loro lo Spirito della Vita, la più grande eredità che Gesù lascia ai suoi discepoli!  Gesù trasmette loro quella fiamma che ardeva in lui  e che  serve per poter compiere la Missione.
Il compito dei Ministri della comunità ecclesiale è  quello di rimettere sulla buona strada  chi ha difficoltà a procedere incontro a Dio (etimologicamente la parola “peccatore”viene dal termine latino Peccus=difettoso nel piede e che, pertanto, fa fatica a camminare).
Il discepolo Tommaso rappresenta  quella parte del’umanità che  non si accontenta  delle parole, del razionale, del simbolico ma ha bisogno dei fatti, ha bisogno del fenomeno vivo, ha bisogno del contatto diretto, del contatto corpo a corpo. Per questo Tommaso, detto Didimo (fratello gemello), non si accontenta di quello che gli altri discepoli gli dicono ma per credere ha bisogno che Gesù entri in contatto diretto con lui.

19 APRILE 2015  III Dom di Pasqua
   (Lc 24,35-48)

Secondo l’evangelista Luca Gesù compie la terza apparizione a Gerusalemme e ha i discepoli come destinatari. Dopo il saluto  ebraico “Shalom” (Pace), Egli intende allontanare dai suoi amici qualsiasi dubbio riguardante la Sua presenza. Nel versetto 36 troviamo le parole “Gesù in persona”.  Nel Cristianesimo la persona  è considerata un composto inestricabile di materia e  di spirito, di corpo e di anima per cui non poteva trattarsi di uno spirito, di un fantasma.
Non è un fantasma, come le circostanze portavano a credere. Gesù sottolinea la sua presenza corporale in “carne e ossa” e, per provare la piena funzionalità del Suo corpo, chiede qualcosa da mangiare. Gesù, in tutti i suoi incontri  (non ci conviene più chiamarli “apparizioni”) dopo la Resurrezione, condivide il cibo con i Suoi, al punto che lo stesso Pietro nel kérygma afferma: ” … a noi che abbiamo mangiato e bevuto con Lui dopo la Sua resurrezione dai morti” (At, 10,41), dando al fatto di essere stati a mensa con Lui la garanzia di attendibilità come testimoni.
Questo incontro si conclude con il discorso di Gesù  che, dopo aver interpretato la Pasqua alla luce delle Sacre Scritture,  parla della missione della Chiesa che, sostenuta dallo Spirito Santo che sta per venire, deve salvare tutti gli uomini, invitandoli alla conversione per il perdono dei peccati. 

26 APRILE 2015  IV Dom di Pasqua  
(Gv 10,11-18)

 Il testo di oggi ci presenta un altro momento della rivelazione  che Gesù fa di sé.
Egli continua ad usare  l’espressione “Io sono”, la stessa con cui Dio si presentò a Mosè e che frequentemente ritorna nel  quarto Vangelo. Il compito di bel pastore che sta svolgendo il Signore Gesù è la realizzazione della promessa che Dio fece al suo popolo che aveva delle guide corrotte al tempo del profeta Ezechiele (cap. 34), quella che in futuro Lui sarebbe divenuto il vero pastore.
Nella civiltà ebraica del I sec. d.C. era molto evocativo parlare di pastori e di greggi poiché tutti conoscevano il particolare rapporto di fiducia e di rispetto che hanno le pecore verso il pastore e di affetto e protezione che ha il pastore verso ogni pecora. Il Buon Pastore conosce ogni singola pecora, con l’intensità con cui Egli conosce il Padre e  il Padre conosce Lui. Il verbo conoscere in ebraico esprime una profonda relazione d’amore, che rende unico e irripetibile l’uno per l’ altro. Gesù aggiunge : “Io do la mia vita per le mie pecore”.Possiamo interpretare questa frase in due modi. Il primo è in riferimento al sacrificio della Sua vita sulla croce in nostro favore, come il pastore  che espone se stesso per salvare le pecore dai predatori. Il secondo interpreta il “dare la vita” con “il vivere occupandosi costantemente di qualcuno”.

Chi si affida a Gesù sa che non sarà mai lasciato solo, che non perderà la propria vita e che c’è un ovile sicuro dove avrà tutto ciò di cui ha bisogno.

                                                                                


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