N° 7 - Agosto-Settembre 2019
Storie dei lettori
  Carissimi
di Paola G.Vitale


Carissimi, oggi vorrei ringraziare tutti, tutti voi che ho conosciuto, frequentato, incontrato, da cui ho ricevuto gesti di amicizia e solidale conforto.
Vorrei anche dire grazie a nostro Signore, che mi ha posto in cuore la gioia di godere del creato.
Nell'elenco delle mie piccole gioie, c'è una gamma molto estesa di meraviglia e di incontro versa l'intera natura.
Vorrei ringraziare anche per i miei solitari pianti e le situazioni difficoltose, da affrontare a viso aperto e fiducioso cuore. A questo punto mi accorgo che non ho mai perduto la fiducia in Dio Padre, sempre affidandomi alla preghiera cara a Maria Madre di Dio.
Sta venendo fuori una specie di testamento, ma va bene così!
Ringrazio anche per l'epoca che il Signore mi ha dato di vivere: un'epoca a misura d'uomo, non ancora giunta all'informatica totale, sempre più completa, per coloro che riescono ad inserirsi in quella dimensione troppo digitale e geniale e sempre meno libera e umana. Troppe le occasioni che in essa portano a disguidi ed immoralità di ogni genere, fino a produrre totale morte. Possa vivere, a questo punto, la pace dell'anima, quella che ci viene da Cristo Morto e Risorto il quale, senza satelliti e razzi, è andato a prepararci un posto in cui restare felici assieme a Lui!
Facendo i dovuti complimenti ai vari "geni"  che ci forniscono scoperte su scoperte, strumenti su strumenti, possa emergere felice la cittadinanza dei figli di Dio, che i grandi Santi anche della nostra epoca hanno contribuito a formare e confortare. E possa essere serena gioia, quella di due anziani infermi, seduti nella terrazza di casa a respirare un po' d'aria al tramontar del sole!

Vi abbraccio tutte e ciascuno, con vivo affetto e riconoscenza.

 Paola G.Vitale

( a Luni Mare dal 24.2.1974)

  Dal Diario di un PELLEGRINO
di Gualtiero Sollazzi


 

  CHE CI FACCIO NEL MONDO?

E’ una domanda questa colma di tristezza, con dentro la certificazione di inutilità. Molti se lo chiedono, aspettando, forse, smentite compassionevoli. Pensare però che la propria vita non serve a nessuno, è il massimo dello sperdimento. Siamo storditi dall’idea condizionante che vali se fai; il non poter operare crea il panico morale e ci sentiamo perduti. Inutili, appunto. Il credente sa che il Maestro la pensa ben diversamente: “Gli ultimi saranno i primi” e al banchetto di Dio entreranno “gli storpi, i ciechi, e gli zoppi…” Come dire, quelli che non contano nulla agli occhi degli stolti. Federico Fellini nel suo film “La Strada”, si fa catechista. Un matto mostra un sassetto alla disperata Gelsomina, “testa di carciofo”. Vuol convincerla che lei pure ha un posto nel mondo. “A cosa serve il sassetto? Se lo sapessi sarei il Padre Eterno. Ma a qualcosa deve pur servire questo sasso, se no, tutto è inutile, anche le stelle!”  La tessera di un mosaico, da sola, appare inutile; eppure serve per creare splendenti opere d’arte.


  IL PRINCIPE TESSITORE
di Millene Lazzoni Puglia.



Questa favola, di autore ignoto come spesso accade, è antica, ma ancora attuale ed è nei miei ricordi da sempre, tanto da decidere di scriverla per i piccoli, e non, lettori de “Il sentiero”.
C’era una volta  ….. un principe che si era innamorato profondamente di una fanciulla di umili origini,  bellissima e molto dolce. Innamoratissimo le chiese di sposarlo. Con grande sorpresa lei non accettò il suo amore, poiché, essendo ricco, non lavorava e non conosceva alcun mestiere.
Allora il principe decise di mettersi a lavorare imparando a tessere tappeti: lavoro molto impegnativo dove necessità una buona dose di creatività e manualità.  In breve tempo seppe diventare bravissimo.
I tappeti che creava erano meravigliosi, sia per i disegni che per gli accostamenti dei colori. Ovviamente la fanciulla, conquistata dalla determinazione nell’imparare un mestiere così difficile per amor suo, fu felicissima di sposarlo.
Un giorno il principe fu rapito dai banditi, i quali, credendolo un incapace, gli dissero che l’avrebbero liberato solo se fosse stato in grado di costruire con le sue mani qualcosa d’importante da lasciare a loro come riscatto.  Il principe non si scoraggiò, anzi chiese che gli fosse dato un telaio con dei fili a più colori, che lui in breve tempo trasformò in uno splendido tappeto. I banditi mantennero la promessa: ottenne la libertà, salva la vita e il ritorno a casa dal suo grande amore.
Questa favola insegna che saper fare e costruire qualcosa che metta in evidenza il proprio talento è una grande ricchezza quando si è poveri ……. Ma può esserlo anche quando si è già ricchi, perché è la dimostrazione che il benessere non è una fortuna capitata per caso, ma che deve essere supportato dalle proprie capacità.


  IL RICCIO E LA LEPRE
di Lorenzo Rossi Centori


L  RICIO  E  LA  LEORA

N dì nt la Vaghja la leora la ncontr l ricio e la gh dish: “ O ndrest meio, ricio, so n’es i pé storti.”
L ricio i s’arsent d cola parola: “ Gh’è pogo da ridr, i me pé storti dhj’en pù svelti dì vostri chi dhj’en driti. Fian la corsa e miran chi arìo primo. Fem ndar a kà a metr la scarpa e a son fito da vò.”  La leora la ris a cola sbruffonata, ma l ricio serio e mptito i va a kà e i dish ala moghja: “ Moghja, prparev k’andhjan al campo, a dhj’ò scumiso con la leora k’arìo primo ala corsa.” A cola noèda la moghja la s’arabiest ka n’v digh.  La dis chi dhj’er mato a voler far la corsa con la leora, che tut’i san che la leora d’à la gamba bona e nveci lor dhj’an i pé storti, dhj’en lofi a mors e quand’ì deon ndar da carchev parta i deon partir k d’enk nota pr’ ariar l dì k ven, e sì ns’avrgogneo d quedo k d’arest dito la genta.
Ma l ricio, chi dhi’ao scì i pé storti, ma dhj’er d c’rvedo fin, i n sntìo rashon: “ Me a digh ko v sbaghié.D’è vera che la leora d’è pù svelta d gamba, ma me a son pù svelto d testa. Fe com’à digh e mushinev nveci d thjathjrar, k’andhjan.” La moghja la s’amanish e dhj’ arìon al campo che la leora d’ao ngià vangato.

L ricio i dish ala moghja: “ Apiatev ntl sorco senza farv scorshr che me e la leora a ndhjan là n fondo a prparars ala corsa. Dopo ka san pertiti a m’argir ndreto, e quand la leora d’ariorà aond’ò sen mo, vò nsciré dal sorco e o gh diré : “ D’è da col dì ka v spet. Quela la nv’ arconoshrà e la pnrà ka son me. Eh ben capito?”
“Va ben, a dhj’o capito”  la dish la moghja e la s’apiat ntl sorco nt col mentr ch’i do i van n cò al campo e far la corsa.  Ma lì la gh’er la moghja dl ricio: “Ekv ariata, finalmente. D’è da col dì ka v spet.”

La leora, k la nd’ao arconoshuta e gh pareo chi fùs l ricio, la pens: “ Com’ì dhj’arà fato a pasarm avanti senza ka mn’acorges?”   “ Dai  -  la fa  - fian n’altra corsa.”  “ Fianl – la dish la moghja dl ricio. –
La leora la s’argir e via, pareo che la voles, e nt’n lampo d’arìo d’aond dhj’ern partiti. E lì i gh’er l ricio a sptarla: “ Ah!! O sen ariata dop tanto. D’è da col dì ka v spet.”

“ Kì la gh’è carcò k n và  -  la pens la leora  - lukì dhj’è n furbon e d’è thjara ch’imbroghj. Però a n’acapish aond’ì stio d’mroghjo.”
“ Fian n’altra corsa, so né voghja” la dish.    “ Fianla”  - i dish d’acordhjo l ricio.

La leora nt’n balzo d’er ariata, ma la moghja dl ricio d’er là a sptarla.  E cuscì i continuestn, nsina a che la leora la n’n podest pù, e stranata ntl campo straca da non dir, coi pé kì n’s voleon pù mòr, la dish: “ Basta!! O dhj’è vinto vò. Però carcò m dish k la n’è tuta farina dl vostro saco.”
I dish’n che da cod’olta la leora la ns’avshin’n pù ai rici pr paura d perdr n’altra scumisa.

 

Un giorno nella Vaglia la lepre incontra il riccio e gli dice: “Camminereste meglio, riccio, se non aveste i piedi storti.”  Il riccio si risente di quelle parole: “C’è poco da ridere, i miei piedi storti sono più veloci dei vostri che sono dritti. Facciamo la corsa e vediamo chi arriva primo. Vado a casa a mettere le scarpe e sono subito da voi.”  La lepre rise a quella sbruffonata, ma il riccio serio e impettito va a casa e dice alla moglie: “Moglie, preparatevi che andiamo al campo, ho scommesso con la lepre che arrivo primo alla corsa.
A quella novità la moglie si arrabbiò molto. Disse che era matto a voler far la corsa con la lepre, che tutti sanno che la lepre ha gambe buone e invece loro hanno i piedi storti, sono lenti a muoversi e quando devono andare da qualche parte devono partire all’alba per arrivare il giorno dopo, e se non si vergognava di quello che avrebbe detto la gente. Ma il riccio, che aveva sì i piedi storti, era di cervello fino, non sentiva ragioni: “Io dico che vi sbagliate. E’ vero che la lepre è più svelta di gambe ma io sono più svelto di testa. Fate come vi dico e spicciatevi che andiamo.”  La moglie si prepara e arrivano al campo che la lepre aveva già vangato.  Il riccio dice alla moglie: “Nascondetevi nel solco senza farvi vedere che io e la lepre andiamo là in fondo a prepararci alla corsa. Dopo che siamo partiti mi rigiro indietro, e, quando arriverà dove siete ora, uscirete e direte: è da quel dì che vi aspetto. Quella non vi riconoscerà e penserà che sono io: Avete capito bene?”    “Va bene, ho capito”, dice la moglie e si nasconde veloce nel solco, mentre i due vanno in fondo al campo per la corsa. Come la lepre balza avanti il riccio si rigira e si nasconde veloce nel solco, mentre la lepre in un soffio arriva alla fine della corsa. Ma lì c’era la moglie del riccio ad aspettarla.  Dice la moglie del riccio: “Eccovi arrivata, finalmente. E’ da quel dì che vi aspettavo.”  La lepre, che non l’aveva riconosciuta e le sembrava che fosse il riccio, pensa: “Come avrà fatto quello lì a passarmi avanti senza che me ne accorgessi?”   “ Dai  -  dice  - facciamo un’altra corsa.”   “Facciamola”, dice la moglie del riccio.
La lepre si rigira e via, pareva che volasse, ed in un lampo arriva da dove erano partiti. E lì c’era il riccio ad aspettarla: “Ah!! Siete arrivata dopo tanto. E’ da quel dì che vi aspettavo.”

“Qui c’è qualcosa che non va -  pensa la lepre -  costui è un furbone ed è chiaro che imbroglia. Però non capisco dove sia l’imbroglio.”  “Facciamo un’altra corsa se ne avete voglia”, dice. “Facciamola” dice d’accordo il riccio.  La lepre in un balzo arriva a destinazione, ma lì c’era già la moglie del riccio ad aspettarla.  E così continuarono la gara fino a che la lepre non ne poté più e sdraiata nel campo stanca morta e con i piedi che non volevano più muoversi, dice: “Basta!! Avete vinto voi. Però qualcosa mi dice che non è tutta farina del vostro sacco.”
Dicono che da quella volta la lepre non s’avvicina più ai ricci per paura di perdere un’altra scommessa.

 

  RIFLESSIONI E… NON SOLO
di Antonio Ratti


   

Avevo preparato questo scritto nel mese di marzo per la quaresima, poi ho ritenuto “Alfa ed Omega” più pertinente al periodo pasquale; del resto ciò che segue è attuale e attinente “366” giorni l’anno. 
E’ un po’ di tempo che mi ronzano in testa alcune considerazioni, forse troppo semplici per essere scritte e proposte alla lettura, ma in una società globale, che, a causa delle abbaglianti suggestioni suggerite dalla tecnologia, è in pieno regresso e imbarbarimento culturale, morale, sociale ed economico, anche elementari osservazioni possono trovare il loro dignitoso spazio. Lungi da me l’idea dell’uso di un linguaggio da ritiri spirituali quaresimali per carmelitane scalze di clausura, vorrei affrontare l’assoluta importanza della famiglia e del clan familiare (nonni, zii, consanguinei e parenti stretti) come istituti educativi e sociali che dall’antichità, addirittura preistorica, hanno avuto sempre somma considerazione, sebbene accompagnati da forti limiti e gravi incongruenze. Basta ricordare come per l’Antico Testamento e per i Vangeli Giuseppe appartenga alla casa e stirpe di Davide, vissuto 900 anni prima (Betlemme 1040 a.C. – Gerusalemme 970 a.C.), mentre oggi si fa fatica ad andare a ritroso, quando va bene, oltre il bisnonno. Perché tanta attenzione all’istituto familiare? Perché quei nostri lontanissimi antenati avevano compreso come il suo buon funzionamento fosse essenziale per un armonico equilibrio interno e per la nascita di una struttura sociale più ampia. A questo punto mi diventa opportuna la domanda: Perché esiste la procreazione? Il creato, fino a che Dio vorrà, per conservarsi nel tempo deve essere un sistema in equilibrio dinamico, non statico, quindi anche la flora vegetale e la fauna animale, cui apparteniamo, per esserne partecipi devono riprodursi: ecco spiegato il concetto di maschio e di femmina, sia per le piante che per gli esseri viventi. Forse è impossibile immaginare appieno lo stupore shoccante di quando l’homo erectus e la femina hanno avuto la certezza che un rapporto fisico non è fine a se stesso e all’immediato piacere, ma è finalizzato alla nascita di una nuova vita che, fragilissima e non autosufficiente, ha la necessità di essere accudita con premura in tutto per un periodo discretamente lungo. E’ molto probabile che sia nata così la prima rudimentale famiglia. Già l’antichissima letteratura epica sumerica e poi omerica, ci mostrano quanto sia radicato il concetto di famiglia e di clan familiare: è sufficiente ricordare la numerosa famiglia, formata da figli (n.50), figlie (n.50), nuore, generi e nipoti il cui capo carismatico è Priamo, re di Troia. Analoga situazione è testimoniata dall’Antico Testamento, quando Abramo è sollecitato da Dio a prendere il suo ristretto nucleo familiare e lasciare il clan di appartenenza in quel di Ur (Mesopotamia) per seguire il proposto progetto divino della terra promessa e del popolo eletto. E’ evidente quanto la famiglia fosse ritenuta un’istituzione determinante quale base della società civile, ma ha palesi imperfezioni, per esempio, è maschilista, perché l’uomo è capo assoluto con ogni licenza, potere e diritto, anche di vita e di morte (Le famiglie allargate con concubine e il femminicidio hanno origini remote. Il Vangelo ci ricorda l’adultera condannata alla lapidazione e Gesù che la salva dicendo: “Chi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei” ). Solo l’insegnamento di Gesù ha indicato il significato preciso e chiaro dell’unione tra l’uomo e la donna fino ad elevare tale unione a sacramento indissolubile: siamo passati dall’attrazione e dal piacere fisico dell’homo erectus all’unione che coinvolge la mente e il cuore nella totale condivisione di un progetto di vita comune e di amore. La regressione etica di cui parlo all’inizio si concretizza anche nell’amarcord, cioè nel vizietto di voler tornare alla violenza dell’uomo primordiale, ma con tutte le comodità di uomo moderno. La famiglia nei secoli non ha mai avuto vita facile, sebbene, come detto, fosse ritenuta il focus centrale di ogni civiltà, tanto che, per esempio, Cesare Ottaviano Augusto, tra i tanti nei secoli, per dare una base sociale e politica più stabile al suo Impero che, giunto all’apice della potenza, mostrava palesi segni di involuzione soprattutto morale, presta molta attenzione all’istituto familiare emanando leggi e riforme atte a ripristinarne legittimità e sostanza. Bene…Oggi cos’è la famiglia? Troppo spesso un appartamento in cui hanno residenza un gruppetto di soggetti anagraficamente legati tra loro a vario titolo, che convivono subendosi o prevaricandosi nei diritti, molto meno nei doveri, e quasi sempre in totale libertà; difatti si convive finché fa comodo; si cambiano i partners quando l’amore finisce ( pardòn, l’attrazione ); sono presenti  minori magari provenienti da genitori diversi, sottovalutando, peggio, non volendo vedere i loro disagi. Quanto sopra è tutto definito con precisione: famiglia allargata dove i ruoli educativi sono fumosi, se non inesistenti. Chi ha doveri, responsabilità educative e di guida alla crescita? Bella domanda retorica. Tutto si esaurisce nel garantire il sostentamento materiale. Se è vero che l’uomo non vive di solo pane, è sufficiente? A volte il minore è utilizzato come arma di ricatto, altre volte fa comodo ignorarlo: in entrambi i casi il legame genitore-figlio è stravolto e si fa disvalore. Il contadino sa bene che una pianta cresce in salute e dà frutti adeguati se potata e curata, altrimenti inselvatichisce, riducendosi ad una sterile sopravvivenza (l’evangelico fico che non fa frutti ). In Italia abbiamo quattro milioni di giovani tra i 16 e i 25 anni che non studiano, né lavorano, né hanno un mestiere, cioè sono giovani senza sogni e obiettivi, morti dentro. Perché? Andiamo ad analizzare l’habitat da cui provengono. Chi ha negato e nega loro il diritto di apprendere i giusti stimoli esistenziali che danno senso a concrete aspirazioni? Chi nega loro la possibilità di volare verso méte sostenibili e diventare onesti protagonisti della società presente e futura e non i nuovi paria, cioè un peso fastidioso e pericoloso da ghettizzare nelle periferie, facili prede e vittime, al tempo stesso, di ogni bruttura e illegalità? Se e quando si vuole condividere con un altro qualcosa che si ritiene di fondamentale importanza è necessario cancellare la prima persona singolare, quella dell’Io egoistico ( io ho le mie esigenze e voglio vivere la mia vita ) ed usare solo la prima persona plurale, il Noi della condivisione. Concetto semplice, se non banale, eppure il solo in grado di dare fondamenta solide a ciò che si vuol costruire per dare una giustificazione vera all’esistenza. Troppo spesso, però, questo concetto finisce nella totale dimenticanza, come cosa demodé e superata, ma ne paghiamo sempre più le conseguenze, specie i giovani disorientati e animalescamente violenti, abulici e frustrati, tristi e depressi che cercano nel gruppo e nella chimica una fugace e distruttiva energia. 
“Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere” sentenzia un vecchio proverbio.
Conclusione.  
Se ha un valore importante la vocazione al servizio sacerdotale, pari importanza ha la  vocazione al matrimonio e alla genitorialità - entrambe sono confermate da un sacramento e non esistono sacramenti di serie A e di serie B -  perché ambedue le vocazioni hanno il medesimo obiettivo e traguardo: dare il proprio appassionato contributo al progetto di salvezza di Dio Padre: progetto che ha un percorso terreno di preparazione consapevole scandito dalla fede.
Post Scriptum. Oggi si pensa furbescamente di aggirare le responsabilità civili, religiose e morali del matrimonio attraverso la convivenza che rappresenta il tanto praticato “lavoro in nero” di evasore dell’amore e della genitorialità veri.

  VIAGGIO NEI TEATRI ROMANI D’ITALIA
di Giorgio Bottiglioni



I PICENI A TEATRO

   (PrimaParte) 

 Secondo la tradizione riportata da alcuni storici romani i Piceni sarebbero una civiltà preromana originaria dell’Alta Sabina giunta nel territorio del medio Adriatico in seguito ad un ver sacrum (primavera sacra), una specie di migrazione rituale che sarebbe stata condotta da un picchio (picus in latino), da cui deriverebbe l’etnonimo. Secondo alcuni studiosi moderni tale migrazione sarebbe partita da un santuario dedicato ad Ares nei pressi di Amiternum (San Vittorino, l’Aquila) dove un picchio prediceva il futuro e, passando per Amatrice sarebbe giunta fino ad Ascoli. Di certo si sa che genti tosco-umbre penetrarono in Italia intorno al XII secolo a.C., ma non è noto il momento in cui tali genti si stabilirono nel Piceno dando origine alla civiltà omonima. Nel I millennio a.C. i piceni erano stanziati nel territorio compreso tra i fiumi Foglia e Aterno, delimitato ad ovest dall’Appennino e a est dalle coste adriatiche. Gli insediamenti marittimi distavano dal mare mediamente 7-8 Km, per essere protetti dalle incursioni piratesche. Agglomerati urbani non sono attestati né a fondovalle, per il pericolo della malaria, né in prossimità degli estuari dei fiumi, generalmente paludosi. Prima dell’arrivo dei Romani i Piceni erano circondati da altre popolazioni dai caratteri fortemente diversi: a nord si erano stanziati dal IV secolo a.C. i Galli Senoni di origine celtica che avevano il loro centro principale a Sena Gallica ( Senigallia ); a ovest, oltre l’Appennino, si trovavano gli Umbri e i Sabini; a sud vivevano i Pretuzi, un popolo italico di modeste dimensioni che aveva come capitale Intermana Pretuitiana (Teramo); sulla costa i Greci di Siracusa avevano fondato la colonia di Ancona; a est, oltre il Mar Adriatico, vivevano gli illiri balcanici che, secondo molti studiosi moderni, ebbero notevole influenza sulla cultura picena. Quando, intorno al 280 a.C., i Romani ebbero assoggettato tutti i popoli confinanti coi Piceni, questi, seppure dapprima fossero stati sempre alleati di Roma, si sentirono circondati e organizzarono una rivolta sedata nel sangue in due campagne combattutissime nel 269 e nel 268 a.C.; molti Piceni furono deportati nella Marsica o in Campania, mentre nel 264 a.C. veniva dedotta la colonia latina di Fermo, col compito specifico di tenere sotto controllo Ascoli. Durante le Guerre Puniche i Piceni rimasero fedeli a Roma, ma nel 91 a.C. furono tra i principali promotori della Guerra Sociale, con cui i popoli italici chiedevano che fosse loro estesa la cittadinanza romana, poiché, pur avendo contribuito all’espansione di Roma, continuavano ad essere discriminati legislativamente rispetto ai Romani. Tale guerra si protrasse sino all’89 a.C. quando la città di Ascoli cedette all’assedio dell’esercito romano, fu rasa al suolo e i suoi cittadini privati di ogni proprietà. Al termine del conflitto, i Piceni furono ascritti nella tribù Fabia, ottenendo la cittadinanza romana e completando il processo di romanizzazione della popolazione Picena, iniziato bel III secolo a.C.  In età romana il Piceno era attraversati da nord a sud da due strade, la Salaria Gallica e la Salaria Picena, entrambe collegamento fra la via Flaminia e la via Salaria: la prima collegava Forum Sempronii (Fossombrone-Pesaro-Urbino) ad Ascoli passando nell’interno, la seconda partiva da Forum Fortunae (Fano-Pesaro-Urbino) e, passando lungo la strada adriatica, arrivava a Castrum Truentinum nei pressi di Porto d’Ascoli.  Percorrendo la via Salaria Gallica da Ausolum verso nord si incontravano numerosi centri che ancora oggi possono vantare i fasti di un tempo.  Le origini della città di Ascoli sono avvolte nel mistero, ma è certo che vi fosse una presenza umana fin dall’età della pietra. Della tradizione che verrebbe un gruppo di Sabini giunti qui seguendo un picchio già s’è detto; sicuro è che Ascoli fu sempre il centro principale della cultura e della politica picena sia prima che dopo l’arrivo dei Romani.  Sorgendo sulla via consolare Salaria che da Roma giungeva all’Adriatico, Ascoli fu sempre considerato un centro strategico, tanto che in epoca imperiale divenne una città molto fiorente adornata di ville, templi, terme. Teatri, strade, ponti e fortificazioni.  Avendo goduto di un’urbanizzazione pressochè continua non è facile oggi identificare l’antica struttura romana: si riconoscono due ponti romani, uno sul torrente Castellano ricostruito dopo il bombardamento del 1944 e l’altro sul fiume Tronto, due templi pagani, poi trasformati nelle chiese di S. Gregorio Magno e S. Venanzio, la Porta Gemina, con resti di mura in opus reticulatum, l’anfiteatro, sotto l’attuale piazza S, Tommaso, e il teatro, riportato alla luce tra il 1932 ed il 1959, ancora oggi oggetto di scavo.

  IL PIFFERAIO MATTO
di Mila



 

Domenica scorsa è stata una bella domenica, c'erano due bambini, fratello e sorella a, fare i chierichetti, erano già due o tre domeniche che don Alessandro si trovava ad officiare da solo. E' bello vedere i chierichetti che aiutano il parroco nell'officiare la Santa Messa, quando il parroco è lì tutto solo a me fa tanta tristezza e penso sempre: “Ma dove sono i bambini, i ragazzi, i giovani di Luni Mare? E' forse passato questa notte il pifferaio matto e li ha tutti portati via? Lo hanno tutti seguito ammaliati dal suono del suo piffero magico?” Veramente c'è un ragazzo che viene tutte le domeniche ma non so il perché non se la sente di fare il chierichetto, fino a qualche settimana fa veniva suo fratello e, dico la verità, ci tenevo proprio a vederlo crescere all'ombra dalla nostra piccola chiesa ma poi si è fatto ammaliare dal coro della chiesa di Isola e così, la domenica, va a Isola. Mi dispiace un po' ma l'importante è che vada a Messa la domenica. Ma gli altri dove vanno? Tutti gli anni è la stessa storia, come arriva l'estate in chiesa non ci viene più nessuno a parte il solito piccolo gruppetto di fedelissimi; per fortuna ci sono i villeggianti a riempire la chiesa, ma anche fra di loro giovani pochi. Succede anche per i sacramenti, i bambini vengono in chiesa fino alla Cresima, la domenica dopo la Cresima non li vedi più, il pifferaio ha incominciato a suonare e allora...la domenica si devono riposare perché durante la settimana ci sono troppi compiti e loro sono stanchi, poi ci sono le partite di calcio, le gare di ballo, gli allenamenti di judo, i genitori che vogliono stare un po' con i figli perché durante la settimana devono lavorare e così la domenica vogliono divertirsi tutti assieme e poi c'è il parroco che è così, il vescovo che è cosà, e figuriamoci le beghine...e il pifferaio suona e suona. Mi dicono che nelle altre parrocchie è più o meno la stessa storia, ci sono parroci sfiduciati che vorrebbero addirittura abolire i sacramenti e altri che dicono Messa, almeno nei mesi estivi, anche alle nove di sera.
Questa mamma della nostra parrocchia che manda i suoi due ragazzi alla messa tutte le domeniche mi diceva che lo fa per fede ma anche perché, nonostante tutto, considera la Chiesa ancora Mater et Magistra, e spera tanto che mettendo i suoi figli sotto la protezione di Dio riusciranno a superare tutte le malvagie occasioni che la vita ci presenta in continuazione. Ma in quanti oggi pensano ancora che noi abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio per andare avanti? L'antico peccato che ci fece perdere il paradiso terrestre tanto tempo fa mi sembra sia tornato più forte che mai: orgoglio, indifferenza, ignoranza e così via.
Quando ero ragazza c'era una donna al mio paese che diceva sempre: “Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo perché senza di Lui non si va avanti.” Ma non c'è bisogno di inventarLo, Dio ce l'abbiamo, è venuto suo figlio Gesù a parlarci di Lui, è stato messo in croce per i suoi insegnamenti. C'è la Chiesa che avrà anche tante pecche ma ha anche tante virtù e tanti martiri e tanti sacerdoti che lavorano senza risparmiarsi nella vigna di Nostro Signore e se noi invece di guardare sempre le cose che non vanno ci ricordassimo un po' di più di quel comandamento che dice:” ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente, ama il Prossimo tuo come te stesso.” Forse le cose al mondo andrebbero meglio, forse andrebbe bene anche il clima, forse ci sarebbe un freno alla droga ma...noi preferiamo seguire il pifferaio matto, è certamente più facile e divertente.

  ESTATE STAGIONE AMATISSIMA
di MARTA



Per me, l’estate ha sempre rappresentato la stagione della gaiezza, delle vacanze,  dei ricordi e dei colori, soprattutto il colore del rosso, come quando da fanciulle mettevamo le ciliegie  alle orecchie, il fiore del melograno in testa oppure il ghiacciolo alla fragola, che lasciava il rosso sulle labbra e l’anguria. Con il cocomero in quelle estati vi era un rito: dopo cena i ragazzi di sedici anni (con l’obbligo di rientro delle ore 22) che con la promozione scolastica, quei genitori che potevano permetterselo, regalavano loro il motorino, il famoso “ciao” della Piaggio, o la "vespetta primavera” o il “garelli”, si recavano senza casco e in due sul litorale di Marinella dove vi erano punti di vendita del cocomero (qualche tavolo, un ombrellone, qualche sedia di plastica). Qui il cocomero veniva servite a fette belle fresche ed era la gioia di tutti, era la libertà dei ragazzi che cominciavano così a sconfinare oltre il limite del paese. Era anche il tempo dei primi batticuori! Le granite con tutto quel ghiaccio tritato, la spuma e la gassosa, avevano un sapore di buono. Nelle balere suonavano i dischi più in voga del momento; io ero una patita del rock and roll, il mio mito è stato Elvis Presley, Little Richard, Billy Haley, Chubby Checher! Le serate erano piene di profumi di tiglio, di gelsomino e di ligustro; le lucciole illuminavano il buio con le loro luci intermittenti. Tenevamo le finestre sempre aperte, aspettando la frescura della notte, la casa si impregnava di profumi, e ci si addormentava respirandone a pieni polmoni accompagnando così i nostri sogni. Il mare, i bagni, le scorribande, le fotografie dopo averle scattate si trepidava per due o tre giorni, aspettando che il fotografo sviluppasse il rullino, ma ahimè c’erano pure i compiti delle vacanze da terminare prima del rientro…. e poi le cartoline da spedire ai nonni, zii ed amici! Si guardava all’America come al nuovo, al moderno; nei cinema andavamo a vedere i nostri attori preferiti come Vacanze Romane con Audrey Hepburn e Gregory Peck, Il Sorpasso con Vittorio Gassman, La Dolce Vita di Fellini e tanti altri…. Tutto questo ci portava a migliorare la nostra vita! Oggi l’estate ha un sapore più maturo, più rassicurante, ma la gioia e la spensieratezza di quei giorni sono tutti lì e so che mi accompagneranno per tutte le estati che avrò la fortuna di vivere!

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