N° 9 - Ottobre 2018
I nostri poeti
  Non chiederti e vai
di Antonio Thellung



 

Non chiederti

da quanto tempo

stai camminando.

 

Non chiederti

quanta strada.

hai fatto.

 

Dovunque ti trovi

comincia da lì

a camminare e andare


  Novità
di Antonio Thellung



 

Si fa presto a dire novità

quando vecchiaia incombe!

 

Eppure nuovo è ciascun giorno

che rinasce ogni ore

in ogni istante

sempre vivo al presente.

 

Vecchio e nuovo insieme

per sempre.


  “Carmina non dant panem” (1)
di Francesca Bello



Fare poesia significa dare voce alla propria interiorità  e collegarsi con le voci del passato, quel tempo che ha costruito il nostro presente, quelle persone che sono state pietre miliari nel viaggio della nostra vita. Fare poesia significa anche cantare e fare proprio il patrimonio culturale di cui ci siamo nutriti. E allora i temi sono tutti: l’amore, il dolore, l’illusione, il disincanto, le speranze, le delusioni. Fare poesia significa avere una sensibilità diversa, uno sguardo analitico sul mondo, che permette al poeta di uscire dai binari dell’ovvietà, significa cogliere l’essenza delle cose, come diceva Baudelaire. Fare poesia significa anche rinunciare alla fama in vita senza smettere mai.
Paolo Bertolani ha “sofferto e patito” soprattutto il fatto di essere Vigile Urbano e di essere stato confinato dai critici nella limitatezza della sua terra d’origine, come in una sorta di “riserva indiana” (F.Bruno). Ne ha sofferto la sua “fama” in vita, che non ha varcato i confini locali, pur essendo stato apprezzato dai “poeti famosi”. Qualcuno lo ha definito naif, riferendosi alla sua poesia che parla dei suoi luoghi, dell’infanzia passata in questi luoghi, insomma una poesia semplice, ingenua. Tutto questo non ha di certo agevolato l’attenzione verso la sua produzione poetica e in prosa, che è stata costante tutta la vita. Ce lo ricorda proprio lui nei componimenti de “Le trombe di carta”, Consegna e Ferragosto del V.U. Ma oggi si guarda a lui con occhi diversi. Per fortuna e finalmente Paolo Bertolani ha varcato i confini angusti della regionalità, perché se è vero, come afferma Carlo Dionisotti, che la produzione letteraria è strettamente legata alla regione d’origine degli scrittori e dei poeti, è vero anche che l’elaborazione personale e artistica eleva la materia a sfere più alte. La produzione di Bertolani spazia dalla poesia alla prosa, dall’italiano al dialetto, quello della Serra di Lerici. Un dialetto messo per iscritto proprio da lui, perché di esso non c’era nulla se non l’oralità. Ma Bertolani lo ha immortalato nelle sue poesie, lo ha reso una lingua speciale per rendere meglio “la musica” delle parole di quando era un fanciullo. Parole dure, ma anche morbide, che si inceppano e che si sciolgono sulle bocche dei paesani, dei contadini, delle casalinghe. Persone “animate” però, che hanno un’anima e una percezione netta della vita. Le voci che Paolo coglie sono queste e poi c’è la sua che accarezza e ringhia, che sussurra malinconica, che piange. Ma la sua voce si fa anche denuncia, indignazione morale, impegno civile nella raccolta successiva intitolata Incertezza dei bersagli.
Qual è il compito della poesia? Qual è il messaggio che un poeta ci lascia?  Credo che i poeti ci insegnino a guardare il mondo con i loro occhi, a vedere nelle cose l’oltre che va al di là dell’apparenza.

Leggiamone due:

 

Consegna

Mi hanno messo a guardia del povero

tronco stradale – tutto polvere

erba patita.

Non mi hanno messo a guardia del mio

cuore

che fugge alle colline

dove fa curva il vento

dietro la mia capanna tutta d’oro

e si può stare in pace in due

con appena quattro parole.

Qualcuno si fermasse nei divieti:

i compagni fanno altre strade

hanno il buio ostinato delle cose.

 

Qui il poeta patisce il “dovere” del suo lavoro che lo costringe “a guardia del povero tronco stradale”, mentre lui si rifugerebbe nei boschi dietro casa (la mia capanna tutta d’oro), nel silenzio dove bastano poche parole per stare in pace. La dissonanza con il modo di pensare degli altri è rappresentata dalla metafora dei compagni “che fanno altre strade”, non hanno le percezioni del poeta e non sanno vedere ciò che lui vede “hanno il buio ostinato delle cose”.

 

Ferragosto del V.U.

 

Averti nell’ombra delle pinete selvagge

ora che il sole infuria sopra l’acqua

e forte odora il muro dei gerani…

Oscilla il bel pensiero come un ramo nell’aria

poi crolla al ridestarsi dell’ora di punta:

sul lungomare passa la motoretta isterica

dall’alto dei balconi si sgolano i megafoni

per la festa del palio.

Al frastuono

di scatto

s’accoda il juke box dalla veranda in fondo

alla tua via dove s’ignora il mare.

 

Anche in questo componimento il poeta ricerca la tranquillità e la pace delle “pinete selvagge”, lontano dal frastuono e dal chiasso del mondo attorno che sente quasi il dovere del divertimento. È ferragosto e tutti si sentono in diritto di divertirsi rumorosamente.
In entrambe le poesie il poeta si rivolge a una figura femminile, un “tu”, più immaginata e sognata che reale.

 

(1)  Carmina non dant panem: La poesia non  arricchisce

 

 


  Luni
di Paola Guerrucci



Dolce paese di Luni,

la falce splendente sul monte

lambito dal mare,

ammicca alla stella vicina.

Frusciano le foglie ondeggianti,

e rondini e passeri ancora,

da sotto la gronda,

inondano il cielo alla sera.

L’antica palude in pianura

è ora podere e villaggio, e strade,

ove l’uomo operoso,

il marmo, artigiano lavora.

Sparsi sui colli e sui monti,

antichi presepi i paesi,

il mio pure ricordano,

lontano e presente nel cuore.


  BUONASERA TRISTEZZA
di Maria Serponi



 

Buonasera tristezza,

ma non sei la benvenuta.

Mai più avrei pensato

che tu avresti bussato alla mia porta.

Io ho aperto e tu sei entrata come un ospite sgradito.

Io non ti volevo a casa mia

dove è ancora regnata la gioia e l’allegria.

Sei arrivata una sera di primavera,

nessuno ti aspettava, nessuno ti voleva.

Tu sei entrata con prepotenza nella nostra vita

cambiandone i colori,

e da quel giorno di marzo la mia vita si è chiusa alla gioia.

E tu vivrai con me

finché io vivrò.

Tristezza

 


  IL POETA
di Marisa Lisia


 

O mio serico poeta

dell’ormai tempo passato

e ancor più presente

con le tue immortali lodi

ti peno come un amico di sempre.

O mia ombra benefica

sei  mio custode

nelle lunghe notti insonni

nel mio solitario talamo

e come un amante discreto

accarezzi soltanto

i miei sogni delusi.

Amo come Te leggere

ed umilmente mi lascio leggere.

Amo l’amore immortale

ed ogni libro letto.

 

  NONNO
di Silvano Puglia



Nonno, a volte mi chiami

con un nome non mio.

Non è perché non

mi vuoi bene, o manchi d’affetto.

E’ perché nella tua vita

di stenti e vicissitudini,

hai avuto vicino a te

molti amici e compagni

di sventurate sorti.

Momenti di fame, di stenti.

Amici di lavoro in miniera,

compagni di emigrazione ,

compagni d’armi in trincea

a volte col volto

imberbe e fanciullesco,

che non hai più rivisto

ed è loro che io nel tuo

subcosciente ti ricordo.

Ed è per questo che a volte

mi chiami diversamente.

Perché io giovine ti ricordo loro.

E tu che hai voluto bene a

tutti quelli che ti sono stati

vicini, ora assommi tutto questo

bene per riversarlo su di me.

Ed è per questo che a volte

mi chiami diversamente .

Io lo so.

E da questo capisco il bene

che mi vuoi.

 


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