N° 9 - Ottobre 2018
Storie dei lettori
  GLI EDIFICI DA SPETTACOLO DELL’ANTICA ROMA
di Giorgio Bottiglioni



I Ludi privati del medio-tardo impero

Il secondo secolo d.C. vide succedersi una serie di imperatori che portarono Roma ad un altissimo livello di prosperità, di cui sono testimonianza numerosi monumenti che ancora oggi costituiscono buona parte del patrimonio artistico della città. Basti pensare al Mausoleo di Adriano –più noto come Castel Sant’Angelo-, al Pantheon nella ricostruzione voluta dallo stesso imperatore, al tempio di Adriano costruito dal suo successore Antonino Pio e oggi ben visibile a Piazza di Pietra, alla colonna di Marco Aurelio davanti a Palazzo Chigi, per citare solo i più noti. Tuttavia per incontrare nuovi edifici da spettacolo, dopo quelli stupefacenti fatti costruire dell’imperatore Domiziano, si deve passare all’inizio del III secolo, quando prende il potere a Roma la dinastia dei Severi.  Settimio Severo era un militare originario della provincia africana ed aveva sposato la siriaca Giulia Domna, figlia di un sacerdote di un culto orientale. Di fatto con Settimio Severo il potere dell’imperatore non ha più bisogno del beneplacito del Senato, né tanto meno del popolo, in quanto si regge sul favore delle truppe militari e viene investito di un’aura divina secondo le usanze dei monarchi ellenistici del vicino Oriente. Così i nuovi edifici da spettacolo, progettati essenzialmente per il piacere dell’imperatore e dei suoi amici, vengono costruiti all’interno di ville private suburbane.  E’ questo il caso della villa denominata Horti Variani ad Spem Veterem più nota col nome di Palazzo Sessoriano.  Si tratta di un grande complesso, situato a pochi passi dalla Chiesa di San Giovanni in Laterano, voluto da Settimio Severo e completato dall’imperatore Elagabalo, successore del ben noto Caracalla, nel 222.  Della villa facevano parte un nucleo abitativo, di cui è stato possibile evidenziare una grande sala centrale poi utilizzata per la costruzione della Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, le Terme Eleniane, così chiamate in onore di Elena, madre dell’imperatore Costantino che qui spostò la sua dimora, l’Anfiteatro Castrense e il Circo Variano. Dei due edifici da spettacolo sono ben evidenti soltanto i resti del primo. Del secondo Anfiteatro di Roma- il primo è naturalmente il Colosseo! -  si può avere un’ottima visione fra Viale Castrense e Via Nola, dove le mura Aureliane sembrano impostare una strana curva: i realtà l’imperatore Aureliano (270-275) sentiva a tal punto l’urgenza di dotare Roma di mura difensive da inglobare nelle mura stesse tutti i monumenti che si trovavano sul loro percorso, così da affrettare i lavori. L’Anfiteatro Castrense non è quindi oggi un monumento a sé, ma deve essere distinto dalle mura che lo inglobano, esattamente come accade per la Piramide di Caio Cestio ad Ostiense. Il nome deriva da Castrum, in latino classico “accampamento militare “, ma più tardi utilizzato anche col significato di “dimora imperiale “. Ben conservato fino al terzo ordine ancora alla metà del XVI secolo, fu allora per necessità difensive ridotto al primo piano. L’Anfiteatro ha una pianta tendente al circolare ( m. 88 x75,80 ) ed è costruito interamente in mattoni, tranne pochi elementi in travertino; della Cavea non resta quasi nulla in quanto divenne ben presto cava per materiali da riutilizzo. Curiosamente il manto stradale odierno è più basso rispetto a quello di epoca romana e dall’esterno affiorano parti delle fondamenta dell’Anfiteatro. L’interno dell’edificio è sede dell’orto botanico dei monaci cistercensi di Santa Croce in Gerusalemme e rispecchia perfettamente la struttura dell’antico monumento. Un grandioso corridoio coperto collegava l’Anfiteatro col Circo Variano. In nome di quest’ultimo deriva direttamente dalla famiglia dei Vari cui apparteneva l’imperatore Elagabalo. Di questo edificio, al cui latro minore rettilineo si appoggiarono in origine le Mura Aureliane, non restano che lievi tracce. Misurava m. 565x125 e, come tutti i circhi dell’antichità ospitava corse di carri. Sulla spina Elagabalo volle erigere l’obelisco di Antinoo, fatto trasportare dall’Egitto da Adriano, in memoria del suo amato giovinetto morto prematuramente nelle acque del Nilo. Di fatto oggi questo obelisco è l’unico ricordo del Circo Variano e si può ammirare all’interno di Villa Borghese sul Pincio. Tra il 235, anno della morte di Alessandro Severo, ultimo discendente della dinastia dei Severi, e il 284, l’impero passò di mano in mano, risultando impossibile fondare una nuova dinastia rendere stabile il potere: esautorato ormai da tempo il potere del Senato, i vari reparti dell’esercito proclamavano imperatori i loro comandanti. In breve, nel giro di un cinquantennio, si avvicendarono ben 21 imperatori. Conseguenza di questo clima politico instabile fu una grave crisi sia dell’economia sia dei valori culturali. Con Diocleziano, dal 284, inizia un periodo di ricostruzione dell’assetto amministrativo dell’impero rendendo migliore e più solida la gestione del potere. Tra la fine del III e l’inizio del IV secolo vengono innalzati gli ultimi grandi monumenti della Roma antica. Tra tutti spiccano le Terme di Diocleziano, nella cui aula centrale è stata ricavata la Basilica di Santa Maria degli Angeli, e la Basilica di Massenzio, entrambe ritoccate da Costantino. Massenzio si fece costruire fra il 306 e il 312 una grandiosa Villa sull’Appia, dove fece accostare tre elementi: palazzo, mausoleo e circo. Nell’ottica restauratrice imposta da Diocleziano e perpetuata dai suoi successori l’accostamento di questi tre edifici assumeva profondi valori. L’unione del mausoleo al palazzo infatti è espressione della sacralità imperiale, mentre nella connessione fra palazzo e circo è esplicitato il rapporto tra imperatore e sudditi che, secondo il cerimoniale aulico, avveniva proprio in tale struttura. Il legame fra mausoleo e circo invece si giustifica nell’ottica omerica dei giochi presso la tomba del defunto. Fortunatamente sono visibili oggi ancora molti resti di questa splendida villa; il primo edificio che si incontra è il mausoleo detto di Romolo, dal nome del figlioletto dell’imperatore, annegato nel Tevere e in seguito divinizzato, ma in realtà destinato a tutta la famiglia. Dietro il mausoleo si ergeva su una collinetta il palazzo vero e proprio dell’imperatore, di cui oggi emergono i resti di alcuni ambienti termali, il criptoportico e al di sopra di questo l’aula absidata, la sala principale destinata alle riunioni e alle cerimonie pubbliche. Il circo di apre nella valle subito a est del palazzo ed è l’edificio meglio conservato di quelli del suo genere; era costruito totalmente in laterizio ed era lungo 520 metri, con una larghezza nel punto più ampio di 92 metri. Essendo riservato alla famiglia imperiale e agli amici, era in grado di ospitare solo 10.000 spettatori – il Circo Massimo, per confronto, ne poteva ospitare 150.000-. Massenzio volle decorare la spina con un obelisco che Domiziano aveva posto nel giardino del tempio di Iside al Campo Marzio; questo obelisco oggi è a Piazza Navona, collocato da Gian Lorenzo Bernini sulla fontana dei 4 Fiumi del XVII secolo. Il buono stato di conservazione in cui si trova ancora oggi questo edificio è dovuto al fatto che poco dopo la sua inaugurazione l’imperatore Massenzio venne sconfitto da Costantino a Ponte Milvio e tutta la villa venne abbandonata a se stessa: praticamente il circo non fu mai utilizzato, come prova l’assenza delle tracce della sabbia che avrebbe dovuto coprire la pista. Con l’editto di Costantino del 313 i fedeli cristiani smettono di esser perseguitati e il messaggio di Gesù si diffonde in tutto l’impero e in ogni classe sociale. In breve tempo mutano radicalmente i costumi dei romani e si iniziano a criticare gli spettacoli pubblici fine a bandirne la realizzazione. Il popolo si sposta dai teatri, dagli anfiteatri dai circhi e dagli stadi dentro le chiese alla ricerca di nuove risposte agli interrogativi della vita!

  Moderni spettacoli in antichi monumenti
di Giorgio Bottiglioni



GLI HORTI SALLUSTIANI

La famosa breccia di Porta Pia portò all’Italia, ma in particolare a Roma, una ventata d’aria fresca, tanto che da lì a breve tempo gran parte dell’assetto urbanistico della” città eterna” sarebbe mutato radicalmente: i nuovi edifici ministeriali avrebbero popolato quartieri fino ad allora inesistenti, dando così un volto moderno alla sospirata capitale d’Italia. Tra i colli Pincio e Quirinale si estendeva una profonda vallata che in epoca antica i Romani avevano abbellito con una serie di templi, ninfei, fontane così da costituire un grande parco dove i giardinieri mettevano a frutto i dettami dell’ars topiaria, potando artisticamente piante e arbusti. Quando , dopo il 1870, si scelse quest’area per costruire la maggior parte delle sedi ministeriali per la nuova capotale, si dovette operare con grandi interri così da colmare il naturale dislivello, chiaramente a discapito delle rilevanze archeologiche che andarono irrimediabilmente perdute; in alcuni casi furono le scariche di dinamite a fare saltare in aria i resti antichi, come accadde per il basamento del presunto tempio di Quirino, immolato dalla modernità per lasciare posto al Ministero delle Finanze su via XX Settembre. Uno dei pochi siti antichi risparmiati fu la cosiddetta “Aula adrianea” rimasta incredibilmente in mano privata dopo i discussi passaggi di proprietà che si ebbero con la fine dello Stato Pontificio.
L’Aula adrianea, seppur anticamente posta sul punto più elevato e quindi scenografico della vallata fra Pincio e Quirinale, venne a trovarsi, dopo gli interri di fine ottocento, a ben 14 metri sotto il livello stradale e ancora oggi lì si trova, al centro esatto di Piazza Sallustio. Si tratta di un complesso architettonico molto interessante dal punto di vista archeologico, ma anche in grado di stuzzicare gli interessi dei non addetti ai lavori proprio per i suoi legami col famoso storico latino Sallustio. L’Aula adrianea è stata infatti interpretata come una “coenatio estiva” inclusa all’interno degli Horti Sallustiani, uno dei parchi urbani più grandi della Roma antica, di fatto paragonabili alle odierne Villa Borghese o Villa Pamphili. Precisamente l’area si sviluppava subito all’esterno della cinta muraria serviana nei pressi di Porta Collina; basandosi sulla topografia moderna si potrebbe affermare che gli horti di estendevano da via Piave a via Veneto e da Corso d’Italia a via XX Settembre. Dapprima patrimonio dello Stato, l’area venne acquistata da Giulio Cesare e non a caso qui si ergeva il Tempio della Fortuna Politica, divinità che tanto fu favorevole al dittatore romano, almeno fino alle coltellate del 44 a.C. Pare che Cesare fece innalzare qui un tempio circolare dedicato a Venere, mitica progenitrice della “gens Iulia”, di cui non resta traccia alcuna se non le testimonianze degli antiquari cinquecenteschi e due grandi statue dette dei Galli, copie di originali ellenistici raffiguranti il Galata morente e il Galata suicida: due sculture, in realtà originariamente unite insieme, tra le più note dell’antichità. Ai tempi di Cesare esisteva un altro tempio di Venere detta “Ericina” con riferimento alla città di Erice: al tesoro di questo tempio appartenevano probabilmente il trono e l’acrolito Ludovisi, straordinarie opere scultoree del genio magnogreco. Alla morte di Cesare gli Horti vennero acquistati dal notissimo storico Sallustio, arricchitosi grazie al governatorato dell’Africa Nova: i numerosi illeciti, all’ordine del girono fra i politici di allora al pari di quelli di oggi, gli avevano permesso di tirar su un patrimonio tanto grande che la multa, che Sallustio fu costretto a pagare al suo rientro a Roma, non riuscì a scalfirlo minimamente. Sallustio, come ben si evince dalle sue opere - le Historiae , il De Catilinae coniuratione e il Bellum lugurthinum – era un uomo colto e raffinato, e il suo giardino era guardato con invidia ed ammirazione da tutto il popolo di Roma. Di sicuro vi aveva fatto costruire una residenza di straordinaria bellezza, sul modello della quale, forse, l’imperatore Adriano fece costruire il complesso che è giunto fino a noi. Nel 36 a.C., alla morte dello scrittore, gli horti andarono in eredità al nipote Quinto e in seguito Tiberio li fece entrare nel demanio imperiale: da allora molti imperatori amarono rinfrescarsi negli horti di Sallustio durante le calde giornate estive, Nerva addirittura vi morì nel 98 d.C. Come detto, fu Adriano, nel 126 d.C., ad offrire un’ampia risistemazione del complesso. Quanto oggi si vede appartiene interamente particolarmente a questo periodo: dall’alto dell’odierna pavimentazione stradale ben si nota la stanza circolare con copertura a cupola, che rappresenta il nucleo centrale dell’edificio, insieme al piccolo vestibolo d’ingresso e alla sala rettangolare con doppia copertura a volta che le si appoggia verso nord. Particolarmente degna di nota è la cupola dell’aula circolare, caratterizzata da spicchi piani e concavi, in origine decorati a stucco. I numerosi fori visibili contro le pareti in laterizio sono testimonianza sicura di una copertura con lastre di marmo, attestata anche per il pavimento. Ai due lati del nucleo centrale si trovano, ad ovest, due stanze rettangolari dominate esternamente da una possente rampa di scale, ad est, sviluppata su più piani, una serie di ambienti, alcuni dei quali riccamente decorati con affreschi e mosaici. Questo complesso, arricchito con ninfei, fontane piante ornamentali, assicurava all’imperatore e alla sua corte la giusta frescura per i banchetti del periodo estivo. L’imperatore Aureliano dotò gli Horti di un grande circo in cui egli amava andare a cavallo: sulla spina di questo circo venne posta una copia dell’obelisco che al tempo si ergeva al Circo Massimo. Entrambi questi obelischi sono ancora oggi ben visibili; l’originale è al centro di Piazza del Popolo, mentre la copia si trova sulla sommità di Trinità dei Monti. Nel 410 l’invasione di Alarico devastò molte parti di  Roma e gli Horti Sallustiani non si sottrassero al loro destino. Solo l’Aula adrianea resistette allora come in tutti i secoli seguenti fino ad oggi, quando, grazie al restauro operato nel 1999 dai privati proprietari in collaborazione con la Sovrintendenza Archeologica, è divenuta un importante centro convegni. La suggestiva cornice accoglie oggi meeting, mostre, concerti di musica da camera, sfilate di moda, e viene menzionata come una delle più riuscite cooperazioni fra pubblico e privato nell’ambito dei beni culturali.

  Beate inquietudini
di Gualtiero Sollazzi


M’è venuta in mente questa folgorante espressione dell’indimenticato mons. Tonino Bello a proposito di certi “temi caldi”, quando il ‘Corso di formazione sulla pastorale nel territorio’ si è chiuso in quel di Fiuggi. Si sono dette tante parole importanti, non inutili; sono stati fatti balenare dei cammini suggestivi, ma assai esigenti; le conseguenze sono state messe nelle coscienze più che nelle mani. Tutto questo ha suscitato un po’ di subbuglio dentro, ha costretto, e costringe, a rivedere molte impostazioni e scelte pastorali e l’inquietudine ha preso corpo, inevitabilmente, in parecchi di noi. Beata, però, perché potrebbe spazzar via sicurezze vuote, arroccamenti al proprio ‘campanile’ ormai datati, un lavoro pastorale isolato che oggi, ma forse anche ieri, non ha più senso.
A insegnarci, preti e laici, con qualche mitria a completamento. I vescovi (2) sono stati esemplarmente fraterni e soprattutto capaci di ‘dirci cose’. I preti erano Franco Brambilla e Antonio Staglianò: chi li conosce sa quanto siano bravi a suscitare domande, anche in forma provocatoria, con l’esigenza di personali risposte. Il prof. Savagnone e la prof.ssa Sarcià sono stati i due laici che non hanno esitato a gettare sale su parecchie ‘piaghe’ per farci pensare e possibilmente decidere: basterà leggere in seguito le loro relazioni. In questi giorni di lavoro duro su mete, strade, mezzi e modelli che sono stati “l’impianto” del Corso, non potendo raccontare, provo a rubare alcune battute dei ‘maestri’. Su la cultura: “Davvero la nostra cultura è senza parole?”  “Il rapporto tra fede e cultura, diventa un problema urgente e irrinunciabile”. Un flash sulla parrocchia: “La parrocchia dovrebbe somigliare all’antica abbazia benedettina: romani e barbari, schiavi e liberi, analfabeti e sapienti, tutti fratelli”. Sulla comunicazione: “La comunicazione non è solo qualcosa di verbale; la vera comunicazione è la reciprocità”. “Parliamo con franchezza anche all’interno della Chiesa e ricominciamo a discutere.”  Sull’uomo: “Ogni uomo che viene al mondo, porta il segno cristologico.” “Cristo è l’uomo vero, e la verità dell’uomo non si trova nell’uomo, ma in Lui.” “Le nostre parrocchie dovrebbero essere il luogo dove l’umano è custodito.” Infine, sulla carità: “La Chiesa, quindi, è il corpo della carità.”  “Getta il tuo cuore in faccia all’altro.” “Il cristianesimo non è una religione, ma una missione.”  “E, la missione, non solo è portare Gesù, ma trovare Gesù nell’altro.”  “Aiutare i bisogni non solo per strappare dai bisogni, ma per ri-creare un uomo libero.” Frammenti sparsi, questi; forse confusi, ma che sono circolati all’interno di relazioni serie, appassionate, col fuoco del Vangelo dentro. Darne un assaggio, potrà servire a immaginarne i ‘sapori’. In ultimo, la gente. Tanta, 300 persone, a prevalenza laicale, venute da tutt’Italia. Ho pensato d’istinto a quanti sacrifici nascosti per una presenza, alla fatica di viaggi anche estenuanti, alla voglia di esserci per portare ventate di freschezza nelle proprie parrocchie. Infine, quante ‘parlate’: l’emiliana con quelle vocali slargate; la meridionale inconfondibile; la toscana (s’era in pochi, purtroppo) simpaticamente brillante.
Quanti volti: il vecchio con la barba bianca, il prete giovane con giubbotto d’ordinanza e il colletto a far capolino sempre a scrivere tutto; giovani genitori con bambini piccoli, mascotte inevitabili del popolo corsista. Tessere di un unico mosaico, verrebbe la voglia di dire, che componevano un desiderio, che costruivano una speranza, che si richiamavano a un unico Volto.

  Sightsavers Italia Onlus
di Michela Ledi Responsabile Raccolta Fondi


Grazie a te, Carla

Cara Carla, questo è un grazie veramente speciale perché tu sei speciale e con la tua straordinaria generosità hai permesso a centinaia di bambini, mamme e papà di salvarsi dal pericolo della cecità.
Sono le persone sensibili e attente come te a fare la vera differenza nella vita delle persone.
Senza le tue importanti donazioni e l’infinità di interventi che è stato possibile realizzare grazie ad esse, in molti ancora oggi vivrebbero nel buio e nella mancanza di speranza.
Grazie a te il 2017 è stato un anno ricco di grandi risultati e di grandi numeri.

Ma dietro ai numeri ci sono le persone e con loro ci sei tu.

Tu con il tuo cuore e la tua passione per la vita in tutti i suoi aspetti.

Sono le donazioni importanti come le tue che cambiano veramente le cose e permettono di attivare progetti di ampio respiro e realizzare interventi mirati e diversificati.

Grazie a te, in questo 2017 è stato possibile effettuare centinaia di operazioni, formare medici, infermieri, insegnanti e volontari, distribuire medicinali, fare opera di prevenzione e informazione, attività che hanno salvato migliaia di persone.

Grazie a te è stato possibile curare, operare e guarire l’intera famiglia Yadav, nove fra bambini, mamma e papà, ciechi a causa della cataratta.

Erano destinati a una vita fatta solo di sofferenza ma sei arrivata tu e oggi tutti quanti ti sorridono felici e pieni di gratitudine.

Grazie a te, Mafoune, che è ipovedente e che viveva la solitudine e la tristezza che nessuna bambina dovrebbe mai vivere, ha recuperato la speranza. Senza il tuo aiuto sarebbe sempre stata una bimba triste che non riusciva a studiare e non aveva amici mentre oggi è bravissima a scuola e piena di ambizioni per il futuro.

Grazie a te Sipo è diventato un bravo chirurgo specializzato nelle operazioni di trichiasi che liberano centinaia di persone dai dolori insopportabili del tracoma e dallo spettro della cecità.

Grazie a te, Najiiba e Julius, due giovani studenti con disabilità, che hanno sempre vissuto nel disagio di un mondo senza speranza, hanno trovato il vero amore e anche la sicurezza di un lavoro e del rispetto per se stessi.

Grazie a te è stato raggiunto un risultato veramente straordinario, la distribuzione della miliardesima dose di medicinale alla piccola Dorcas e alle comunità sofferenti a causa delle malattie tropicali neglette.

Un numero enorme che bene rende l’idea di quanto tu faccia la differenza e di quanto tu sia fondamentale nella lotta alla cecità.

Il tuo esempio è una spinta a fare ancora più e meglio.Grazie a te i possono salvare ancora migliaia di bambini, mamme e papà, che ogni giorno combattono contro la paura della cecità e i tormenti delle malattie.
Il tuo aiuto è la loro luce. Continua a portarla nella vita di ciascuno di loro.
Tu sei la vera dimostrazione che il mondo può diventare un posto migliore, un mondo dove vita, luce e speranza sono ancora possibili.

Grazie
Michela Ledi
Responsabile Raccolta Fondi

                                                                                             

Sightsavers Italia Onlus
  DISGRAZIE CHE ACCADONO
di Marta



Le disgrazie più impensabili e inenarrabili, quando accadono, lasciano nella più completa inspiegabilità del perché e del per come.  Giorno dopo giorno, i genitori crescono il loro bambino con tutto l’amore possibile e con le più rosee speranze per il futuro. Senza contare le notti passate a ninnare il piccoletto, a raccontargli le favole per aiutarlo a prendere sonno, a coccolarlo quando gli duole il pancino, ad accompagnarlo nei suoi primi passi, ad assisterlo nel periodo scolastico e nelle attività sportive. Insomma guardarlo a vista, sempre con premurosa attenzione, perché non gli accada niente di spiacevole.
Normalmente i figli crescono e i genitori, finalmente, pensano di poter allentare un po’ la guardia.  Ora che è adolescente, si presume che possa vedere e valutare i pericoli e che sappia badare a se stesso.
Ma… Ahimè!!! Non è sempre così. Il giovincello vuole sfidare la vita, vuole provare il brivido della morte, giocare alla roulette russa in ogni cosa per mostrare il suo coraggio, lo sprezzo del pericolo e la capacità di sapersi fermare al momento giusto. Ecco allora la decisione di farsi un selfie in un luogo assurdo, che sembra originale, provare il brivido di stringersi una corda attorno al collo, camminare di notte sui tetti, saltando dall’uno all’altro ignaro che i rischi con l’oscurità si fanno ancora più grandi.

Pur non avendo nessuna intenzione di rinunciare alla vita, gli imprevisti non sono presi in considerazione, cioè non si valutano i pro e i contro di una iniziativa al limite, ciò che conta è mostrare a se stesso e postare sul web per gli amici l’impresa audace, così il minimo errore è fatale. Cosa resta di tutto questo falso coraggio?
Lo strazio e i cuori distrutti dei genitori sorpresi dall’assurda disgrazia. Purtroppo i fiumi di lacrime non sono sufficienti a lenire l’immenso dolore che è dentro.
Quanto coraggio occorre quotidianamente per continuare la vita di famiglia con gli altri figli e camminare uniti. Il vuoto di chi non c’è più si fa ancora più angosciante e la serenità si manifesta con un flebile sorriso delle labbra, mentre il cuore è a pezzi.
Ci sentiamo vicino a loro con la nostra umile preghiera.


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