N° 10 - Dicembre 2013
Storie dei lettori
  Don Albino Bellangelo
di Enzo Mazzini




 Sul "Il Sentiero" del mese di novembre, allorché ho ricordato le eroiche gesta dell'abate don Luciano Pesce Maineri, ho esternato il mio intendimento di riferire anche degli esemplari comportamenti degli altri due sacerdoti che hanno retto le nostre parrocchie negli anni terribili della seconda guerra mondiale e cioè don Albino Bellangelo, parroco di S. Martino e don Tito Bassi, parroco di Nicola. In questo numero mi accingo quindi a ricordare le gesta salienti di don Albino Bellangelo, sperando di dare un misero contributo perché la gente non dimentichi questi  eroici sacerdoti, sempre pronti a mettere a rischio la propria vita per salvare i loro parrocchiani e che si sono resi protagonisti di gesta eroiche ed aiutarono tutti indistintamente, prendendosi cura di vecchi, donne e bambini. In questo numero cercherò di ricordare alcuni comportamenti di  questo prete che  era anche molto preciso nell' annotare puntualmente sul suo diario parrocchiale i principali avvenimenti che si verificarono in quegli anni terribili.
Nell' agosto-settembre 1944 era sorto sulle nostre colline il primo movimento partigiano: la Brigata Garibaldi, sotto il comando del farmacista Evraldo Piola. Il 7 ottobre 1944 il caporale Bertacchini della postazione d’artiglieria di Isola decideva di passare nelle fila dei partigiani. Poiché il comando delle Brigate Nere era convinto che il militare fosse stato catturato dai partigiani, inviò un reparto di militari che, coadiuvati da soldati tedeschi, compì un'azione a sorpresa nella zona di Serravalle e Casano, rastrellando molti uomini. Il tenente tedesco Rhan chiedeva il rilascio del militare, minacciando la fucilazione di dieci ostaggi e la distruzione del paese, concedendo tre giorni di tempo per rintracciare il Bertacchini. Immediatamente don Bellangelo ideó un piano per liberare i prigionieri: certamente se non fosse stato per lui sarebbero tutti morti. Ma il nostro parroco era sempre disponibile, pronto a mettere a repentaglio anche la propria vita per il bene dei suoi parrocchiani. Ma il terzo giorno dall'arresto si era ormai persa ogni speranza di salvezza. Il termine fissato dal tenente Rhan scadeva alle ore 13. Una sentinella per far coraggio ai prigionieri riferì che il prete era partito per rintracciare il Bertacchini. Nella ricerca era coadiuvato da alcune madri dei prigionieri. Finalmente don Bellangelo e le mamme trovarono la formazione partigiana a cui si era aggregato Bertacchini. Spiegata la cosa, il comandante invitò il Bertacchini a rientrare. Lui non era d' accordo e non intendeva assolutamente aderire alla richiesta, per paura di venire fucilato. Alla fine venne concordato di riferire che era stato prelevato con la forza dai partigiani. Fu condotto al termo di Ortonovo, gli fu restituita la motocicletta e finse di essersi liberato, sfuggendo ai partigiani. Ed è grazie all'azione di don Bellangelo se i prigionieri vennero tutti liberati ed il paese di Casano venne risparmiato.

Passarono pochi giorni e subito don Bellangelo si rese protagonista di un altro atto eroico. Il 29 ottobre '44 nella zona di Casano Alto, saldamente nelle mani dei partigiani, veniva catturato il caporale tedesco Gallarsh e condotto ai monti in attesa di poterlo scambiare con qualche ostaggio. La mattina del 30 ottobre piombava in Comune il tenente tedesco Rhan  il quale, nonostante le proteste del commissario prefettizio, faceva rastrellare nella zona 150 uomini, dando due giorni di tempo ai partigiani per rilasciare il militare con le sue armi e la moto, trascorsi i quali avrebbe fatto fucilare 17 ostaggi e bruciato il paese. Il buon parroco supplicato anche dai congiunti dei rastrellati, non esitò a mettersi in cammino verso il rifugio della "Parodi" accompagnato da due coraggiosi volontari, sotto una pioggia battente e percorrendo sentieri scoscesi e fangosi per un' intera giornata.

Raggiunta la formazione partigiana, riuscì a convincere il commando a farsi consegnare il prigioniero, superando notevoli riluttanze. Il paese fu nuovamente salvato e la gente poté respirare, consapevole di aver nuovamente corso un così grave pericolo e di averlo scampato.
Il terzo episodio che vi voglio riferire è sicuramente quello più importante. Mi riferisco ai fatti accaduti a Serravalle in data 9 novembre '44. Quanto vi sto per descrivere si è verificato nel rettilineo che collega le scuole elementari di Serravalle al bar di Ermanno, proprio dove si trova la mia abitazione. Tutti sapevano che il comando fascista della Spezia utilizzava la palestra delle scuole elementari di Serravalle come deposito di merci e derrate alimentari. Dalla Spezia venivano quindi i camion a caricare le merci per rifornire le caserme cittadine. Tutto filò liscio finché un giorno uno di quei viaggi finì in tragedia. Il mattino del 9 novembre arrivò al comando partigiano, nella macchia, Ulderico Gianfranchi, fratello di Vittorio, per avvisare che in paese c'era un camion pieno di Brigate Nere e che avevano arrestati e caricati sul camion suo fratello Ruggero, Botturi ed un certo Pié del Massese. Il camion stesso si era fermato alle scuole di Serravalle presso la palestra della GIL (Gioventú Italiana del Littorio) per ritirare parte del materiale che avevano depositato al momento dello sfollamento dalla Spezia. Immediatamente vennero avvertiti altri partigiani di zone limitrofe, che si precipitarono verso Serravalle per affrontare le Brigate Nere, disponendosi per l' attacco. C' era anche un gruppo della "Sigfrido" con mitragliatore che venne piazzato sulla strada per affrontare il camion frontalmente. Il camion, finite le operazioni di carico, si avviò. Giunto all' altezza dell'allora caserma dei Carabinieri (l'attuale casa Storti) partì l'ordine dei partigiani di sparare: il crepitio delle armi e delle bombe a mano si protrasse per alcuni minuti. Le Brigate  Nere, lasciando sul campo diversi morti e feriti, si rifugiarono nella caserma dei Carabinieri, dopo averne sfondato la porta, trascinando i feriti all'interno della stessa ed organizzarono la difesa sparando dalle finestre in attesa di potersi sganciare, confidando sulla scarsità di munizioni dei partigiani. La sparatoria si protrasse fino alle 15, allorché dal fondo della strada comparve la madre di un giovane appartenente alle Brigate Nere  che, sventolando un lenzuolo bianco, consegnò al comandante Corsi un biglietto dei partigiani col quale si informava che la caserma era circondata da 250 uomini e si ordinava la sospensione del fuoco e la resa per avere salva la vita, cosa che avvenne, consentendo così la possibilità di soccorrere i numerosi feriti.
A questo punto fortissimo fu il timore di pesanti rappresaglie tedesche sotto la guida del terribile tenente tedesco Klain, che verrà poi giustiziato ad Albiano il 18 aprile 1945, autore fra l' altro dell' incendio del paese di Follo e che stava organizzando un reparto per rastrellare 40 civili di Serravalle da passare immediatamente  per le armi e bruciare, per rappresaglia, i paesi di Casano  e di Ortonovo.  Il tenente Corsi si precipitò allora al Comando delle Brigate Nere, presso l'albergo Laurina di Sarzana, anche per organizzare uno scambio di prigionieri e dopo un violento  alterco, con scambio anche di pugni fra i due ufficiali, il Corsi riuscì ad impedire, grazie anche all' intervento del podestà di Sarzana Ubaldo Picci, la spedizione punitiva su Casano e ad organizzare le trattative per lo scambio dei prigionieri. Ed è a questo punto che ritorna protagonista il nostro don  Albino Bellangelo. Infatti il giorno 13 novembre, proprio a Serravalle, nel luogo che qualche giorno prima era stato teatro di così cruenti combattimenti, avvenne qualcosa di miracoloso. Si era riusciti infatti a concordare, fra le due fazioni in guerra, di procedere ad un pacifico scambio dei prigionieri. Cosa che avvenne sotto la guida di due garanti: don Albino Bellangelo per conto dei partigiani e, per conto dei fascisti, don Siro Silvestri, giovane prete del Seminario Vescovile di Sarzana, che diventerà poi vescovo di Foligno e di Spezia, oggi in odore di santità. Furono così scambiati 6 prigionieri fascisti con altrettanti partigiani e tutto finì lì.

             Chissà che la Madonna del Mirteto non ci abbia messo anche del suo!

   

 


  Le babbucce rosa
di Marta





    Era già novembre inoltrato, ma ci regalava ancora delle tiepide giornate, mentre la notte la temperatura scendeva. Un mattino molto presto, l’aria era decisamente frizzante, mi sono recata al Distretto Sanitario in via Madonnina e, appena entrata ho notato al mio fianco una signora, più o meno sulla sessantina. Indossava una tuta felpata, mi sembrava non tanto pettinata e, ai piedi, un paio di babbucce (pantofole) rosa; come se fosse uscita di casa in tutta fretta. Sembrava che stesse per piangere e parlava tra sé. Mi sono soffermata un momento a guardarla, e le ho detto: “Ogni giorno ce n’è una, vero signora?”. Lei alzando la testa mi ha guardato e, in lacrime, mi ha detto: “Vorrei morire! Sto pregando Dio che mi faccia morire: sono stanca di stare qui, tanto stanca!”.
Le ho messo una mano sulla spalla; non volevo credere a quello che avevo appena udito, però ero curiosa di saperne di più, e le dissi: “Mi scusi, signora, ma cosa sta dicendo?”. E lei: “Sì, quel che ho detto è la verità. Ho perso mio marito che era l’unico ad aiutarmi con nostra figlia disabile; ora non ho più nessuno!”. “Mi perdoni, signora, se io insisto”, le ho detto, “ma si rivolga a qualcuno che la possa aiutare… un’assistente sociale… vada in Comune e chieda…”. Mi ha risposto che lei ormai non crede più a niente e a nessuno, ha già una causa in corso e dicendo questo si è allontanata a passo svelto. Ho avuto solo il tempo di gridarle dietro di tirare fuori tutto il coraggio che ancora aveva e cercare di superare quel suo sconforto.
Sono rimasta lì come un palo secco e tutto il giorno scioccata da quell’incontro. Non potevo più togliermi dagli occhi la tristezza di quella donna. Come vorrei sapere il nome e l’indirizzo di quella signora! Potrei farle un po’ di compagnia; dirle che anche nelle cose che ci appaiono pessime, a volte, si trova qualcosa di positivo: ogni brutta storia ci insegna che bisogna amare la vita non ostante tutto e viverla finché Dio vorrà.
Cara signora, prego Dio che la mantenga in salute per poter accudire la sua creatura. Mi immagino quanto bene lei le saprà donare: quando la veste, la pettina, l’accarezza con il suo grande cuore di mamma! Certo, qualche triste pensiero ogni tanto ci sconvolge, ma quanto è grande il valore della vita! Il Santo Natale è ormai alle porte; possa essere per lei una ri-nascita con nuova forza e nuovo vigore per lei e per sua figlia.
Cara signora, resterà comunque nel mio cuore e la ricorderò nelle mie preghiere, e non posso scordare quando quel giorno si allontanava da me camminando con le sue babbucce rosa!
                                       



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  LE MIE “FORCHE CAUDINE”
di M.G. PerroniLorenzini





Nella girandola dei ricordi,

in un unico spento vortice

si confondono tutti i colori:

tutto uguale, tutto uguale…

Ma, adesso, il vento rallenta

e scorgo il bianco, il rosso e il verde

e rivedo la piazza e la folla…

 

 

            Ho subito anch’io le mie “forche caudine”: un’umiliazione, cioè, che credo simile a quella dei soldati romani, quando a Claudio dovettero passare sotto il giogo. Ero sicuramente al ginnasio, forse frequentavo la quinta, quando gli italiani cominciarono a mobilitarsi perché Trieste tornasse, da territorio libero, città italiana. Io avevo avuto sentore che qualcosa si preparava, ma, anche per una mia breve assenza per malattia, non ero stata informata degli ultimi sviluppi.
Quella mattina scesi dall’autobus, che era sempre in ritardo, e corsi verso la scuola a perdifiato per recuperare qualche minuto. Entrai trafelata, e trovai…il deserto… o quasi. Non c’erano i professori e vidi solo una testa o due di ragazzi che si sporgevano dalle altre aule del piano, e la mia era vuota. Ne domandai il motivo e mi fu risposto che c’era la manifestazione per “Trieste italiana”. Alloro volli uscire, ma il preside non lo permise. E tramite un bidello ci fu detto, classe per classe, che dovevamo rimanere fino all’ultimo. Avremmo dovuto decidere prima. Il divieto era irrevocabile. Ci disponemmo quindi alle lunghe ore di solitudine come ci era stato ordinato. Ed io già sfogliavo i miei libri quando colpì le mie orecchie un ronzio che si fece sempre più insistente. La grande piazza davanti alla scuola, intitolata a Giuseppe Verdi, si era animata. Tutti i ragazzi partecipanti alla manifestazione si erano lì riuniti. C’erano gli studenti di tutte le scuole medie della città, il Nautico in testa, come sempre. Ci furono dapprima canti patriottici che sentii confusamente. C’era uno sventolare di bandiere tricolori e c’erano striscioni con scritte per Trieste italiana. Poi vennero le urla, sempre più forti. E credetti di capire: “Vergogna! Fuori i crumiri!”. E poi cominciò una pioggia di proiettili contro i vetri delle finestre che guardavano la piazza. Uscii allora nel corridoio, dove trovai anche gli altri del mio piano. Il preside ci fece intimare di andarcene alla svelta: certo teneva più ai suoi vetri che a noi.
Noi “crumiri”, tra tutti non eravamo più di una quindicina, ci ritrovammo nell’atrio della scuola. Il più coraggioso tra noi socchiuse la porta e subito indietreggiò. La marea ondeggiante dei dimostranti faceva davvero paura. Inoltre essi, intanto che urlavano “Fuori! Fuori!”, si erano preparati, lasciandoci libero uno stretto spazio, un corridoio da attraversare in mezzo a loro per arrivare alla salvezza, cioè alla fine della piazza. Pallido, il primo di noi si avviò. Il secondo fece per accodarsi subito. Ma no. C’era un “direttore” dello spettacolo che ci costrinse a procedere uno alla volta e ben distanziati. Quando tra gli ultimi toccò a me, dovetti avanzare in mezzo a quella marea urlante. Vedevo la schiena del ragazzo che mi precedeva e ogni tanto lo scorgevo incespicare tra le gambe che gli studenti patrioti gli stendevano improvvisamente davanti per farlo inciampare. Per le femmine, però,  venne usato un resto di cavalleria. Qualche sgambetto mi fu fatto, ma quasi solo perché procedessi lentamente e potessi ascoltare gli insulti.

Non vi dico con quale stretta al cuore ero riuscita ad arrivare quasi a metà della “via dolorosa”, quando da qualche fila più indietro si fece largo una vera erinni urlante mentre alcuni frapponevano le loro gambe per impedirmi la fuga. Così mi dovetti fermare e la furia gridò queste parole: “E’ una profuga giuliana, una profuga crumira! Vergogna, proprio tu!”. E credo che mi avrebbe graffiato, se fosse arrivata al mio viso, ma c’era la ressa ad impedirlo. Penso, comunque, che in pochi intendessero le sue parole, perché in quel momento dalla folla dei ragazzi si levarono nuovamente canti e slogan patriottici. Ma io la udii benissimo. Tentai invano di spiegarle che ero entrata a scuola senza sapere nulla. Ma non era quello né il luogo né il momento, anche perché lei continuava a gridare e non sentiva le mie timide risposte. Conoscevo quella ragazza (avevamo fatto le medie inferiori nello stesso istituto) e conoscevo le ragioni della sua ira. Io avevo la qualifica di profuga giuliana; e in un certo senso lo ero anche, sebbene non fossi originaria dell’Istria. Ma in Italia avevo trovato rifugio sicuro dalla nonna e così non avevo seguito la sorte degli altri più veri e disgraziati profughi, che, senza casa o lavoro e senza protezioni in Patria, erano stati ammassati in una vecchia caserma militare, detta il “casermone”, in condizioni che oggi forse si ritroveranno nelle carceri più sovraffollate; e in quelle condizioni avevano dovuto restare per anni. E quella ragazza, veramente una profuga, aveva e credeva di avere molte ragioni nei miei confronti e solo la sua giusta ira l’aveva trasformata in quell’erinni. Ho ancora vivi in me il suo gran viso pallido e i suoi occhi un po’ obliqui. Non ricordo il suo nome, ma solo il cognome: De castro. Da quel momento non l’ho più rivista e non ho più potuto spiegarmi con lei.
Ero troppo concentrata sul mio dolore interno per accorgermi delle ingiurie successive. Troppo mi bruciavano quelle di colei che aveva tutto il diritto di rimproverarmi la mia tiepidezza. E’ vero che ero stata sorpresa dagli eventi, ma se li avessi conosciuti, avrei partecipato alla manifestazione? No, certamente. Perché mio padre non lo avrebbe permesso e mi avrebbe scortata a scuola di forza. Per lui gli studenti che dimostravano erano solo fannulloni o guerrafondai. Al massimo avrei ottenuto da mio padre di rimanermene a casa. Per queste ragioni avevo sentito almeno in parte giuste le accuse di quella ragazza. E mi commuove ancora oggi il pensare che quei poveretti, così bistrattati dall’amata Italia, volevano con tutto il cuore e con tutte le loro forze che almeno Trieste, con la Zona A, tornasse italiana. Cosa che effettivamente avvenne, poco dopo, nell’ottobre del 1954.

 

                                                                                   da “La casa sepolta” ed. Albatros



  Carissimi della Redazione
di Carlo e M.Giovanna Lorenzini





 vi ringrazio perché ho visto che avete pubblicato in due puntate il mio articolo sulla Bibbia, in cui mi sforzo di dimostrare la ‘necessità’ del Nuovo Testamento. Senza il NT, senza cioè questa perenne sorgente d'amore, che sgorga abbondante per la nostra redenzione, noi non saremmo le creature di un salvifico disegno divino, ma, per parafrasare un poeta nostro ottocentesco “ grotteschi esseri, creati per caso da un buio Iddio; il quale, una volta stanco di noi, ci annullerà per gioco, schiacciandoci con il suo piede, come brutti insetti”.  Ma vedo che in questo mio sforzo di interpretazione della Bibbia, mi lasciate solo, non ho riscontri, non una voce che faccia seguito alla mia, per approvare o per criticare o, comunque, per continuare un discorso in cui si affrontino problemi che riguardano la nostra vita e il nostro destino, oltre la vita.    Ma, comunque, grazie.
E anche mia moglie vi ringrazia, per l’accoglienza che avete riservato al suo libro “La casa sepolta”.
Questa volta è toccato all’episodio della Madonna Pellegrina. L’innocenza della bambina e l'iniquità dell’adulto.
Eravamo nel secondo dopoguerra e nell’atmosfera della guerra civile. E la bambina che declamava “Vieni, o novello Levita”, era il simbolo di come avrebbe potuto essere l’Italia; mentre l’uomo che minacciava (e minacciava anche nei confronti della bambina), era un segno di come invece sarebbe stata questa nostra Patria. Una nazione che nella sua storia ha avuto più paura dell’amore che dell’odio. Una storia che ci ha regalato questa civiltà, in cui ‘per amore’ si ammazzano le donne.
E un mio grazie come nicolese ve lo devo dire per la poesia del nostro Mario Orlandi  Scherzi d'l vin (Gli scherzi del vino). Si tratta di una dolente elegia che nasce spontanea dal cuore del poeta, in cui il vino, il liquore di Noè, di Lot e delle sue figlie, il vino di  vinum non habent’, e quello di 'prendete e bevetene tutti', diventa il mezzo dell’unica possibile consolazione per un’umanità disastrata, emarginata, degradata, anche a causa di questo fascinoso liquore.
A questa umanità appartenevano Carmè, Casciscio, Spartàn e molti altri, che tutti conoscevamo e di cui tutti, semmai, ridevamo... Solo il poeta Orlandi, con la sua ironia piena di cuore e di partecipazione affettuosa, ha saputo, nella dolcezza dell'aspro dialetto nicolese, ascoltarne le invocazioni d'amore e redimerli nell'olimpo della poesia.
Il vino. I Greci lo chiamavano anche 'nepente' cioè liquore contro il negativo della vita.
Ed io ricordo che era gradevole medicina con cui anche a mio padre piaceva guarire le sue malinconie. Ché mio padre  era un uomo timido e silenzioso. E anche un po’ malinconico. Quasi triste. Era così mio padre normalmente. Per cui era di poche parole: “Ciao, ba’”. “Ciao”. Il più che poteva aggiungere: “Come stai?”. Ma poi la risposta non la stava a sentire. Perché lui non voleva mai sapere come stavamo. I figli stavano sempre bene, per definizione. Non voleva sentire nella nostra vita nessun disagio fisico né morale. Se c’era qualcosa di negativo in noi, le sue difese venivano meno, le sue reazioni si bloccavano, non sapeva più che fare, se non rimanere immobile con le lacrime agli occhi. Senza piangere. Mio padre nel suo stato normale non era coraggioso. Aveva paura. Poche volte lo vidi coraggioso ed estroverso. Solo quando aveva bevuto. Alcuni sotto l’effetto del vino diventano cattivi e intrattabili; in lui, la sua naturale bontà, si estrinsecava. Un po’ ubriaco, il babbo era un’altra persona: allora nel suo viso si trasfigurava; il sangue gli entrava in circolo tumultuosamente; gli occhi gli si accendevano come due carboni ardenti; la lingua gli si scioglieva; diventava eloquente; faceva domande; rispondeva; raccontava; diventava generoso; si sentiva ricco; prometteva; elargiva; il cuore gli si sfaceva; e dal suo sorriso usciva bontà e generosità come torrenti in piena. I fumi del vino lo drogavano; il negativo attorno a sé scompariva; e tutto diventava bello e buono e tutto diventava facile.
Mio padre, normalmente riservato e pieno di pudore, sotto l'effetto del vino, si trasformava: si abbandonava ad una dolce e pur essa inebriante lussuria; lo si vedeva dall’espressione languida ed implorativa con cui guardava la mamma; la quale, di fronte a quella richiesta d'amore maschile,  si faceva tutta rossa e, non sapendo come portarsi e che cosa dire, esclamava: “Quando ha bevuto, vostro padre diventa anche scemo!”. Parole che volevano significare che il vino aveva acceso in lui il fuoco dell'amore e che la fiamma si era trasmessa anche a lei.
“Il Sentiero” ci ha offerto questo mese (pubblicandole)  l'occasione di rileggere due pagine preziose piene di poesia e di umanità di Maria Giovanna Perroni Lorenzini e di Mario Orlandi. E io vorrei che questo succedesse anche ad un mio racconto che, chiuso, nel libro mio 'Creature d'amore e di passione' nessuno andrebbe là per leggerlo o rileggerlo. E invece io vorrei che succedesse, perché è un racconto pieno di affetto e di poesia e anche di nostalgia. Il racconto si intitola 'Perlina'. Perlina è una bambina che io ho immaginato nata e cresciuta in località Biotanelli, località rurale famosa per i suoi vigneti e per il suo vino. Il vino bianco dorato, dolce e nello stesso tempo robusto, dalle uve dei Biotanelli, era un vino pregiato da conservare per berlo nelle ricorrenze importanti. Come del resto il bianco dalle uve di Sarticola e quello dalle uve dei vigneti del Colonnello in Isola Alta.
A proposito dell'uva dei Biotanelli io ho un ricordo. La famiglia che abitava quella località e che conduceva a mezzadria quei vigneti, veniva a prendere il pane al nostro negozio. E, quando era la stagione, la massaia, data la loro amicizia, portava alla mamma come omaggio qualche grappolo di quell'uva. E quei grappoli, posati a mucchio sul banco, splendevano e davano luce come se fossero un tesoro di zecchini d'oro e mandavano il profumo di un roseto nella sua stagione di piena fioritura.
Con questi colori e questi profumi, ti lascio, per riprendere il nostro discorso in altra occasione. Affettuosità a tutti della Redazione. Buon lavoro. E lunga vita al nostro “Sentiero”.

 

Montepulciano, metà giugno 2013       


                             


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