N° 8 - Ottobre 2011
Storie dei lettori
  UN’ESPERIENZA DIVERSA
di Carlo Lorenzini


 
 

 

Rispondo all’articolo di Romano Parodi su “Anziani e solitudine” sul numero di Agosto-Settembre.

 

   Ancora sotto l’effetto dell’anestesia avevo sognato tutta la notte di essere opportunamente dotato del mio pappagallo (che se ne stava, invece tranquillo, lì accanto sur una seggiola); e quindi ad ogni stimolo di minzione mi liberavo del liquido in più con grande senso di ristoro e di benessere di tutto il mio corpo; per poi , tranquillo, riabbandonarmi al sonno. E questo fino al mattino; fino al primo passaggio degli infermieri, i quali, scoprendomi, videro una specie di lago e furono investiti da un acuto profumo, che scoppiò fuori violento dal chiuso delle mie lenzuola: ‘Ma qui c’è un lago!’, esclamarono; ‘Che ha fatto il professore?!’ E con il maggior buonumore di questo mondo e la più alta comprensione della debolezza umana, mi lavarono, mi cambiarono, cambiarono il letto da capo a fondo; e, questa volta sì, munito del pappagallo, lasciarono che continuassi a dormire, a sognare e a liberarmi dell’umore superfluo.

 

Era successo il 25 luglio u.s. una botta in terra per motivi futili (a morire non ci vuol niente!) e rottura scomposta del femore dx:

26 luglio u. s. ricovero nell’unità operativa di ortopedia e traumatologia dell’ospedale di Nottola, Montepulciano;

28 luglio u. s. intervento di endoprotesi biarticolata non cementata;

04 agosto u. s. dimissione dal reparto;

04 agosto u. s. ricovero nel centro di riabilitazione ‘L. Moni’, presso ospedale di Nottola Montepulciano;

31 agosto dimissioni, in attesa dell’esito della visita di controllo prevista per il 06.09.11.

 

   Dunque a questa data del 31 agosto 2011 più di un mese di ospedale, con un intervento chirurgico piuttosto serio.  E in quel mese (è proprio vero che non tutti i mali vengono per nuocere), ho visto cose straordinarie. Ho visto strutture moderne ottimamente gestite, ho visto competenza, efficienza, disponibilità, umanità, cordialità, affetto, amore; ho visto il trionfo della vecchiaia (l’età media dei pazienti era oltre i 75 anni, quasi nessuno autosufficiente; alcuni non parlavano; altri erano completamente sordi). Eravamo lì curati, serviti e riveriti.  Ci pulivano con cura e disinvoltura, ci facevano il bidé; ci aiutavano a vestirci, a lavarci, a cambiarci; ci rifacevano spesso il letto, ce lo cambiavano, ci erano costantemente vicini nei nostri trasferimenti, si preoccupavano se mangiavamo, se il cibo era di nostro gradimento e se eravamo in grado di consumarlo; ci accompagnavano alle palestre, tornavano a riprenderci, ci mettevano a letto; vigilavano che durante la notte fossimo a nostro agio.. La vecchiaia per loro non era un deterrente: ci sorridevano, ci vezzeggiavano, ci chiamavano per nome, scherzavano con noi, come avrebbero fatto con dei bambini, in palestra ci incoraggiavano e ci dicevano spesso ‘bene!’, ‘bravo!’, anche se la prova non era stata del tutto soddisfacente: è lo spirito che aiuta la carne.

    La degenza fu per me (per noi, a parte l’obiettività del dolore) una specie di permanenza in un albergo di lusso, in cui, fra un certo numero di opzioni, uno poteva scegliersi per il giorno appresso il tipo di primo piatto, di pietanza e di contorno che desiderava, per il pranzo e la cena.

   Dico la verità: in fatto di ospedali, la mia esperienza era completamente diversa; l’ospedale, fino a questa data, era stato un luogo in cui, alla sofferenza dovuta alla malattia, si aggiungevano il disagio e spesso l’umiliazione inflitti dalla struttura: disservizi, cibo scadente, trascuratezze; insomma, invece di un luogo in cui rifugiarsi, l’ospedale era un luogo da cui rifuggire.

 

   Mentre in Nottola di Montepulciano, l’umanità, l’accoglienza, la disponibilità, la competenza e la professionalità nel reparto di ortopedia e traumatologia e nel centro di riabilitazione ‘L. Moni’, mi hanno proposto una nuova e ben più felice esperienza.ospedaliera. Evidentemente in Montepulciano di nobile non c’è solo il vino. Grazie dott Claudio Bianchini e grazie dottoressa Monica Ceccarelli. E grazie a tutti coloro che in queste strutture hanno collaborato e collaborano, animati da un così alto spirito di umanità.

 

 
 

  VIA GAGGIO
di Marta


 
 

 

        Via Gaggio è una delle stradine più antiche del nostro Comune. Sicuramente è stata importante quando la popolazione dell’antica Luni scappava dagli assedi, dalla malaria e s’inerpicavano su, verso monti e colline formando quindi i paesi di Ortonovo, Nicola, Annunziata, San Martino…

            Più in particolare via Gaggio fa parte di una delle cinque stradine che dal paese di Nicola scendono a valle per raggiungere la via Aurelia e, da lì, tutte le altre direzioni. Erano stradine belle, tutte in acciottolato, tenute ben pulite dai rovi e altre sterpaglie che potevano (come succede ora) ostruire lo scorrere delle acque piovane. Erano curate e molto trafficate: chi saliva, chi scendeva.

             Via Cantinone raggiungeva, in alto, il “Colletto” di Nicola, mentre, in basso, si immetteva in via Isola per pochi metri per congiungersi subito con via Gaggio che a sua volta terminava nel guado del Parmignola per poi proseguire per la frazione di Dogana sull’Aurelia. Memorie ataviche! Sono trascorsi secoli ma esse sono ancora lì, a ricordarci l’importanza che hanno avuto nella storia del nostro territorio.

            Si può amare una strada? Sì, essa è come un’arteria (e si chiamano veramente così le grandi strade) che porta linfa al cuore o al cervello. Ora sono quasi impraticabili; sono sempre più strette a causa delle frane provocate dall’acqua piovana che scorre dove vuole e dai rovi che invadono il percorso e che più nessuno taglia o fa tagliare. Un tempo, ognuno nel proprio podere costruiva dei muretti a sasso per sorreggere piane o delimitare i confini, ora non più e tante stradine ora sono improvvisamente sbarrate e chi fa jogging o passeggiate con la famiglia si trova in difficoltà.

            Eppure non è poi tanto (io me lo ricordo) che sentivo “Michelo”, l’ultimo uomo che col suo mulo e il carretto scendeva da metà monte di Nicola con quel rumore inconfondibile di ruote e di zoccoli sul selciato e la sua voce che incitava il mulo.

            Un ricordo.  Una notte di diverso tempo fa, erano circa le tre del mattino, ho sentito un vociare sommesso fuori della casa;  mi sono alzata, sono uscita  e mi sono affacciata al muro che confina con via Gaggio; subito m’è venuta la pelle d’oca: uno squadrone di militari in tuta mimetica, con un cappuccio nero integrale con solo due buchi per gli occhi e occhiali a infrarossi, tenevano in mano una mappa e una voce diceva: “Questa è via Gaggio…”. Poi sparirono in un baleno. Seppi tempo dopo, che erano gli ‘incursori’ del Varignano che stavano facendo una esercitazione. Queste mappe,  con le vecchie stradine, sono ancora in dotazione alla forestale, ai Vigili del Fuoco, ai Boy Scout…

            Purtroppo questa stradina è ora piena di buchi e di erbacce, ogni tanto si vede un pezzetto di asfalto che risale al tempo del sindaco Mino Bianchi. Eppure è una strada molto frequentata poiché le persone che vanno a fare la spesa, per abbreviare il percorso, passano di lì. Abbiamo chiesto a degli asfaltini che lavoravano sulla strada principale perché non asfaltavano anche via Gaggio. Ci hanno risposto: “Ma lì non ci passa nemmeno la schiacciasassi!”.

 

                                                                                                

 

                                                                                                                                         

  PENSIERI
di Doretto


 
 

PENSIERI

 

Ecco, anche stanotte ho pensato molto alla morte. Anche al pensiero di don Lodovico che sta per tornare alla Casa del Padre. Quel Padre che lui ha servito per tutta la vita. Sacerdote infaticabile, sempre pronto nel servizio di Dio e del prossimo.

            E poi…mi è venuto alla mente un particolare: abbiamo preso l’abitudine di dire: è morto Tizio… è morto anche… ecco, è morto, ecc.. Una volta io sentivo dire invece: è passato a miglior vita… è andato all’altro mondo… Addirittura gli alpini, quando muore un loro commilitone, dicono: è andato avanti…

            Dire che qualcuno è morto, secondo me, è lo specchio della cultura dominante di oggi. Sì, uno muore, ma è meglio non parlarne più. E allora? Dovrei mettermi a piangere, disperarmi, o darmi alla pazza gioia per questi giorni che mi restano? Questa è la teoria del mondo. Ma se io, cristiano, so che la morte non è altro che il passaggio da questa Vita a un’altra Vita, quella che Gesù ha promesso a tutti coloro che hanno creduto e credono in Lui!

            Ricordo le parole di mons. Giuseppe Stella, nostro vescovo tanti anni fa, che mi diceva: “Non vedo l’ora che il Signore mi chiami a Sé, perché questo mondo sta diventando sempre più brutto: troppe cattiverie, e io soffro tanto al vedere tutto questo”. Se fosse vivo oggi, chissà cosa direbbe!

            Gesù, io non finirò mai di lodarti e ringraziarti per il bene che mi vuoi. Certamente non è per i miei meriti che sono arrivato a comprendere appena appena il Tuo disegno d’amore su ciascuno di noi. No, se sono in cammino verso di Te è perché Tu mi hai preso ”a ceffoni e a calci” come può fare un Padre buono che ama tanto Suo figlio e, misericordioso come sei, me lo hai fatto capire.

                       9 novembre 2010                     

 

 

 

 

Gesù, insegnaci a pregarti

 

            Gesù, mi è venuto alla mente una cosa: Tu ci hai insegnato a pregare Dio chiamandolo Padre, e così abbiamo imparato il ‘Padre Nostro’. Poi la Chiesa ci ha insegnato a pregare la Madonna con l’’Ave Maria’. Poi preghiamo per i nostri cari defunti, poi per l’Angelo custode, per la Santissima Trinità…, ma Tu, come possiamo pregarti? Una preghiera per Te non c’è!

            Ma la solita vocina mi dice: “Quando Io mi sono tramutato in pane e vino per rimanere con voi per sempre, ho dato ai miei Apostoli il compito di ripetere questo miracolo ogni volta che siete riuniti alla mensa nella Santa Messa, affinché possiate nutrirvi del mio Corpo, di me tutto e, quindi, uscire dalla chiesa e tornare nel mondo portandomi con voi, ovunque andiate. Ecco, io sono vicino a te, dentro di te! E tutte le volte che vuoi pregarmi non devi fare altro che parlarmi direttamente, guardando direttamente nel profondo del tuo cuore. Io sono tuo amico; io sono il tuo Dio che, per grazia del Padre, mi sono incarnato per farmi come te e per restare con te per sempre”.

            Gesù, ma allora come mi devo comportare? “Ascolta la mia Parola e mettila in pratica!”.

 

                                                                                             
 

  RIFLESSIONI
di Romano Parodi


 
 

 

 

La verità -     

 

 L’uomo non è fatto di disperazione ma di fede e speranza; non solo di morte, ma di anelito alla vita. Perché, se dovesse prevalere la disperazione, molti si lascerebbero morire. E’ curioso e paradossale che, anche un pessimista cronico come me, pur profondamente deluso dalla vita, sia sempre disposto a rinnovare la speranza: ciò dimostra la poca importanza della ragione. La ragione e l’intelligenza, ci dimostrano continuamente che il mondo è atroce e che l’ingiustizia regna sovrana. Da qui il mio pessimismo cronico.

            Per fortuna l’uomo non è mai un essere ragionevole e, quindi, la speranza rinasce di continuo, anche in mezzo alle sventure. Anche dopo essere stati annientati da disastri immani, l’uomo, come la formica, ricomincia a costruire il suo piccolo mondo. Ecco una delle poche vere verità: la fede e la speranza sono più forti della disperazione. Poche, perché la verità assoluta esiste solo in matematica.

            Nella vita di ogni giorno la verità non esiste; non esistono fatti, ma solo interpretazione. Quello che dici può solo essere una parziale verità, perché la realtà ha infinite sfaccettature e se ne dimentico una sola, mento. Non esiste nemmeno il male tutto uguale: se il male è valutato allo stesso livello, se ogni ladro è uguale, se ogni azione immorale è equiparata ad un’altra, allora rischiamo di diventare schiavi del male. Anche se fossero veniali, guai assuefarsi ai peccati.

Per chi è al vertice, per esempio, anche i peccati veniali sono mortali (dovrebbero), perché è sempre dalla testa che si corrompe più facilmente la società, come il pesce quando inizia a puzzare; ed è “meglio mettersi un masso al collo e buttarsi in mare che dare scandalo”, dice il Vangelo.

La vita è piena di sfumature! L’essere umano è pieno di contraddizioni. Siamo sempre la medesima persona? Abbiamo sempre gli stessi sentimenti? No. Si può voler bene a qualcuno e improvvisamente detestarlo. E se commettiamo l’errore di dirglielo? Quella è una verità molto parziale, che in altre circostanze o il giorno dopo non sarà più la verità (invece la persona alla quale la diciamo penserà che quello sia il tuo pensiero e sprofonderà nella disperazione, e magari non te lo perdonerà più).

 

Il volto -         

 

Il suo viso era quasi identico. Stessi capelli neri con riflessi rossicci, stessi occhi grigi, stessa bocca grande, stessi zigomi alti, stessa pelle scura e pallida. Ma quel “quasi” era atroce, dice E. Sabato, giacché non bastano le ossa e la carne per costruire un volto.

 Ed è per questo che il volto è la parte infinitamente meno fisica del corpo, fatto di sguardo, di contrazione della bocca, di pieghe, di tutto quell’insieme di sottili attributi attraverso i quali l’anima si rivela nel corpo. Ragione per cui, nell’istante in cui si muore, il corpo si trasforma bruscamente in qualcosa di diverso, così diverso da farci dire ”non sembra più la stessa persona”, nonostante abbia le stesse ossa e la stessa carne di un attimo prima di quel misterioso momento in cui l’anima si ritira dal corpo ed esso rimane come una casa dalla quale se ne siano andati per sempre gli esseri che l’abitavano e che là dentro, avevano sofferto e si erano amati.

  Poiché non sono i muri, né il soffitto, né il pavimento che danno carattere alla casa, ma gli abitanti (alcuni poi più di altri), che la rendono viva con le loro conversazioni, le loro risate, i loro amori e risentimenti. Esseri che impregnano la casa di qualcosa di immateriale ma resistente. Qualcosa di così poco materiale com’è, per esempio, il sorriso in un volto.
                                                                                                                                 
 
 
 

  I canti liturgici
di GianFranco


 
 

Non c'è niente di più rilassante che condurre, o meglio, accompagnare il proprio cane nelle sue  passeggiate quotidiane: per una mezz'oretta circa e per tre o quattro volte nell'arco della giornata hai modo di accantonare i tuoi pensieri, anche quelli più assillanti, e lasciar spaziare la fantasia. Il cane conosce la strada, tu lo segui, ed ecco che incominciano a riaffiorare pensieri e ricordi di giorni o di anni passati.

È così che senza nessun apparente motivo mi è tornata alla mente, a distanza di quasi un mese, la messa funebre di Paolo Cavirani, celebrata nella nostra chiesa parrocchiale di Luni Mare da Don Andrea. Chi ha visitato la nostra chiesa sa che con la sua pianta a forma di falce di luna può ricordare il nome della nostra bella zona, ma senz'altro non si presta per cerimonie che richiamano frotte di fedeli. Infatti parecchia della gente, accorsa in gran numero a rendere l'estremo saluto a Paolo, è stata costretta a rimanere fuori.

Comunque la cerimonia è stata molto commovente con grande partecipazione di tutti i presenti con preghiere e canti. Particolarmente toccanti le parole della vedova che, con ammirabile compostezza, ha raccontato dell'amore di Paolo per la sua chiesa e della sua determinata fede in Dio. Il coro di Isola, accompagnato da buona parte dei presenti, ha contribuito alla solennità dell'evento con canti appropriati al rito funebre.

Al termine della messa un gruppo ha intonato un canto allegro, che piaceva molto a Paolo,  dal  titolo “L'amore del Signore”. Devo dire che il contrasto con i canti gregoriani del coro era piuttosto stridente: tanto più solenni, gravi e adatti alla circostanza gli ultimi quanto più allegro,  arioso e inopportuno l'altro. In questa occasione, se non altro, un canto così allegro e improvvisato aveva una giustificazione: era il canto preferito del defunto. Altre volte invece, senza alcuna particolare ragione, vengono scelte canti poco adatti a rappresentare lo stato d'animo dei presenti che è carico di tristezza, una profonda tristezza per la perdita di un parente o di un caro amico, tristezza che solo in parte è mitigata dalla consapevolezza che la sua anima è già, o lo sarà presto, al cospetto del Padre Celeste. La tristezza, la profonda tristezza rimane, perché noi siamo lì per compiere l'ultimo atto terreno del proprio caro. Forse è proprio in quel momento che realizziamo che non lo rivedremo più, così come l'abbiamo conosciuto, se non nel giorno della risurrezione, quando tornerà ad essere un uomo, completo di corpo e d'anima.

Quindi lasciateci salutare i nostri cari con canti solenni e calde lacrime. Lasciamo i canti di gioia e le improvvisazioni ad altre occasioni!

 

 

  La “Tre giorni”catechistica
di Mila


 
 

                                                                                           

                                                                                        

            Sono stata, anzi siamo state, perché con me c'erano Paola ed Elda, che con la sua macchina ci ha accompagnate nella duplice veste di catechista e autista; dicevo siamo state alla “tre giorni”  catechistica. Veramente io ci sono andata soltanto i primi due giorni perché il terzo sono stata di corvè con la mia nipotina. Mi è molto dispiaciuto non aver potuto partecipare anche l'ultimo giorno, dato che i primi due sono stati veramente interessanti e ricchi di insegnamenti e spunti per la nostra (possiamo chiamarla così) missione di catechiste. Sono sicura che anche il terzo giorno sarà stato altrettanto interessante, era in programma la presentazione di Don Franco Pagano di alcune linee di lavoro in vista del convegno regionale del prossimo aprile 2012.

            Nel primo giorno è intervenuto sua Eccellenza il nostro Vescovo che ha avuto parole di elogio, incoraggiamento e sprone per noi catechiste. Ci ha ringraziato dicendo che il nostro lavoro è molto importante nell'ambito della chiesa per l'iniziazione cristiana dei ragazzi. Una cosa mi ha particolarmente commosso, quando ha detto che tutte le sere ci ricorda nelle sue preghiere. Grazie, Eccellenza, perché nella globalità di quella preghiera ci sono anch'io, ci siamo tutte noi, una per una e il Buon Dio, che ci conosce da sempre e ci ha chiamate, terrà sicuramente conto di quelle preghiere e forse ci concederà il Suo aiuto del quale abbiamo tanto bisogno e il Suo  sostegno per tutte quelle cose che vorremmo fare ma non ne siamo capaci.

            Il secondo giorno è intervenuto padre Marco Chiesa dei carmelitani, priore del monastero Santa Croce a Bocca di Magra che, nonostante un bel mal di gola, è riuscito a catturare la nostra attenzione per più di un'ora. Il tema del suo intervento era ”Liturgia e catechesi”. Ci ha parlato dei simboli sui quali si basa tutta la liturgia della Chiesa, dove niente è lasciato al caso o all'improvvisazione neanche i colori o i fiori che addobbano l'altare; tutto ha un significato, ogni gesto, l'alzarsi in piedi o il rimanere seduti. Il rituale della Santa Eucarestia poi dovremmo conoscerlo tutti e insegnarlo ai nostri bambini. Naturalmente ha fatto anche tanti esempi che adesso sarebbe troppo lungo riportare.  Eccone uno: ”Perché si china il capo quando si recita il Credo alle parole:... e si è incarnato nel seno della Vergine Maria...”? Io credevo fosse solo in segno di rispetto, invece il vero significato è molto più profondo, purtroppo non so spiegarlo.

Il tutto è stato coordinato da don Franco Pagano che in chiusura si è raccomandato, con il suo sorriso e i suoi modi un po' scherzosi, di pregare e pregare e non stancarsi mai di pregare, e ricordare sempre che se si prega con fede alla fine qualcosa si ottiene. Chissà che l'entrata in seminario di sei nuovi giovani (numero eccezionale per la nostra zona) non sia la risposta ai nostri pellegrinaggi del primo sabato del mese e alle preghiere per le vocazioni che rivolgiamo assiduamente al Signore. Don Franco ha detto anche che noi catechiste potremmo adottare, simbolicamente, un seminarista immaginario della nostra parrocchia e pregare per lui. Io farò così! Tutte le volte, prima di iniziare l'ora di catechismo, farò dire ai miei bambini una breve preghiera perché nasca una vocazione qui a Luni Mare. Sarà dura, ma chissà, le vie del Signore sono infinite.    

 

                                                                                         

 
 

  L’ANIMATORE LITURGICO
di Enrico M. Beraudo (da “La domenica”)


 
 

 


                A quarant’anni dal concilio Vaticano II, sappiamo che nella Chiesa alcuni svolgono ministeri particolari e ci vengono in mente i ministri straordinari della comunione eucaristica e i lettori, mentre non pensiamo che anche tutti coloro che svolgono il servizio di animatore della liturgia - chi suona, canta, anima - svolgono un ministero.

                In effetti, ai primi, per svolgere il loro servizio, è richiesto di frequentare corsi di formazione e di aggiornamento, mentre ai secondi è sufficiente normalmente la buona volontà. Eppure anche questi ultimi debbono avere una preparazione tecnica non disgiunta da quella spirituale. Certo la disponibilità è indispensabile, ma non è sufficiente. Ci vuole anche una preparazione tecnica e il talento donatoci dal Signore che vanno messi umilmente a disposizione della comunità.

            La tecnica, poi, va unita a una continua crescita spirituale che trova la sua fonte nella liturgia. E’ da una lettura attenta e approfondita dei testi - letture, preghiere, tempo liturgico - che si coglie il cuore di ogni celebrazione e fa abbandonare la visione della liturgia come “cerimonia”.

                Sarà la meditazione di questi testi - non disgiunta da un autentico amore e dalla conoscenza della propria comunità - a stimolare nella scelta dei canti e delle musiche da proporre, che non avverrà partendo da gusti personali, ma da ciò che è adatto a quella particolare comunità per esprimere il Mistero che sta celebrando, e a promuovere una crescita spirituale e tecnica costante.

 

                                                                    

 

 
 

  Diario di un parrocchiano di Casano- San Giuseppe
di Giuseppe Franciosi


 

 

Giovedì, 08.09.2011.

            Questa mattina “sono ritornato” al Santuario di Ortonovo; dico “sono ritornato” perché l’anno scorso non c’ero andato e, dico la verità, non ricordo perché non ci sono andato.

            Alle ore 9 mi sono vestito da “giorno di festa” e, fatta colazione, mi sono diretto verso la piazza XXIX novembre. Il pulmino per Ortonovo era già pronto e io sono salito. Senza fatica, naturalmente, sono arrivato lassù all’inizio della difficile salita verso il Santuario (la “salita” che forse lo scorso anno mi aveva spaventato e indotto a non partecipare) e lì sono cominciati i dolori. Comunque piano piano sono arrivato al piazzale e lì mi sono trattenuto un po’ per recuperare le energie. Mi sono incontrato con Walter; qualche chiacchiera e poi sono entrato in chiesa.

            Ho partecipato alla Santa Messa delle ore 9 ed ho fatto la Santa Comunione. Ho poi partecipato alla Santa Messa delle ore 10 e mi sono confessato non so da quale sacerdote. Gli ho detto: “Sono duro d’orecchi”, e così lui ha alzato un po’ il tono della voce e tutto è andato bene. Mi sono trattenuto in chiesa anche per la Santa Messa delle ore 11, quella celebrata dal vescovo emerito, Bassano, ma finita la predica sono uscito per raggiungere il pulmino che mi avrebbe riportato a Casano.

            Bella mattinata, belle Sante Messe che hanno visto occupati dai fedeli tutti i posti disponibili. In chiesa ho avuto tutto il tempo per scegliermi il posto migliore l’ho scelto vicino all’ultima colonna. Davanti hai tutto il quadro della Madonna: una meraviglia. Ho già deciso che anche il prossimo anno occuperò quel posto se la Madonna mi concederà la grazia di ritornarci.

 

Domenica , 25.09.2011.

            Oggi alla Santa Messa delle ore 11 mi ha fatto riflettere un pensiero di mons. Alfredo di Stefano che ho letto su “La Domenica” e che riporto di seguito.

            “Il vangelo di questa domenica è per tutti un invito a credere nell’uomo nonostante tutto, a scommettere nelle possibilità di ciascuno, anche se a volte i nostri occhi vedono solo una dignità venuta meno a causa del peccato, ma che mai spegne l’amore di Dio, ad accettare il messaggio di Cristo, avere i suoi stessi sentimenti, Egli che è stato l’uomo del “sì” radicale, senza ripensamenti e dubbi.

 

Lunedì, 26.09.2011.

            Questa sera, alle ore 21, nella chiesa di San Giuseppe si è riunito il Consiglio di Amministrazione delle nostre chiese (San Giuseppe e San Martino). E’ presente anche un architetto in rappresentanza della Curia  della diocesi. Scopo dell’incontro: esaminare un progetto di sistemazione dell’altare e del tabernacolo della chiesa di San Giuseppe.

            Ci viene presentato un progetto; la discussione è interessante; molti prendono la parola, rivelando preparazione e interesse notevoli. Alla domanda sul preventivo di spesa, viene risposto che si potrebbe arrivare alla somma di centomila euro. Sembra una spesa insostenibile per la nostra chiesa; si vedrà di studiare bene la cosa e di ritrovarci in un’altra occasione, in tempi brevi, per un ulteriore esame.

 

                                       

 

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