N° 6 - Giugno-Luglio 2011
Storie dei lettori
  “Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”.
di Romano Parodi


 
 
 

Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”.

 

            Non è una legge degli uomini, ma di Dio, e anche l’uomo fa parte di questa legge divina. Ma in cosa si trasformerà l’uomo? In cenere: “cenere sei e cenere tornerai!”  Ma la sua anima, la sua immagine, la sua voce? (dell’anima ne ho già parlato e ne parleremo).

            Un versetto della Bibbia dice: “Fiat lux!” (sia la luce!). E’ solo una metafora? No, anche la scienza dice che qualcosa di noi continuerà a vivere in eterno. 

            Pensate alla voce del telefonino; viaggia a trecentomila km al secondo, arriva immediatamente in Australia, ma quando si smette di telefonare le onde elettromagnetiche continuano a viaggiare, dopo dieci minuti raggiungeranno Marte, dopo cinquanta anni la stella Polare e continuano. Pensate alle stelle: molte di quelle che vediamo sono morte da migliaia di anni, ma noi le vediamo brillare ancora e così anche l’immagine, la nostra immagine continuerà a viaggiare nell’infinito del cielo assieme a quella di Pippo Baudo. Ma non è detto che non ritornano: la cometa di Halley passa ogni 75 (?) anni, altre dopo milioni di anni, perché viaggiano in tondo nel cielo infinito. Perciò, in teoria, ma non è detto che un giorno non possa succedere, potremo sentire e vedere Gesù, dalla nascita alla morte e così tutti i nostri morti.

            Il corpo pur perdendo la massa non perde tutta l’energia che lo componeva e qualcosa di esso rimane sotto forma di particelle di luce e di suoni: i fotoni e i fononi. Quindi, per riepilogare, se la memoria fotonica è in grado di portarti quello che apparteneva all’organismo anche in mancanza dell’organismo stesso, se la voce fononica può essere trasportata  nel tempo anche per migliaia di anni e conserva te come eri nel momento in cui l’hai emessa, allora la religione cattolica ha ragione quando afferma che il corpo tipo-luce è la parte di noi immortale: quella che c’era, c’è e ci sarà. “Il verbo si è fatto carne e la carne si farà luce”.

            Vi porto un altro esempio: la carica elettrica generata da ogni battito del cuore può essere registrata con elettrodi applicati in ogni parte del corpo, perché il corpo è composto di acqua, buon conduttore, ma quando questi segnali raggiungono la parte esterna del corpo come si comportano? Ebbene quei segnali si propagheranno nello spazio alla velocità della luce, così come quelli del telefonino e delle stelle lontane. Dopo due secondi il nostro battito cardiaco avrà percorso 600.000 chilometri e continuerà a viaggiare all’infinito.            Riepilogando: il battito del nostro cuore, le onde emesse dalle nostre corde vocali, il flusso di luci irradiato dal nostro corpo sono immortali.

            E’ così avventato dire, quindi, che l’uomo è immortale? Fino ad oggi le religioni hanno avuto un ruolo determinante nell’ipotizzare una vita oltre la vita. Ma ipotizzare un “oltre” è solo un atto di fede, o può essere anche il risultato di un ragionamento puramente laico?

            Una cosa è certa: chi nega l’esistenza dell’aldilà ha le stesse prove di chi la afferma.                                                              

                                                                                    
 

  UN MONDO AL TRAMONTO
di Carlo Lorenzini


 
 

 

Scomparve, per esempio, o si ridusse di molto, il mestiere del maniscalco, di colui, cioè, che ferrava i cavalli.

Ce ne era uno giù in pianura lungo la sponda destra del fiume, poco discosto, a monte, dalla casa della mia nonna, che invece era sulla sinistra. E io, quand’ero dalla nonna, a volte attraversavo il fiume per andare a vedere Urbano (così si chiamava il maniscalco, che era anche fabbro, ed era anche carradore) che lavorava nella sua nera fucina, lampeggiata da bagliori di candide fiammate. Urbano, detto anche per antonomasia ‘’l magnàn’, il magnano (che è altro nome di chi lavora il ferro: c’è anche il nome ‘fabbro’), era un uomo grassoccio, piuttosto basso di statura; ma era agile e aveva muscolatura poderosa; viso ognora annerito dal  fumo e dalla fuliggine; gli occhi ardenti: come colui che, degno alunno di Vulcano (lo sai, vero, di Vulcano, che era il fabbro e anche l’orafo degli dèi?), è sempre col viso affacciato all’ardore della forgia, sempre alle prese con ferro, tenaglie, martello, incudine, fornello, mantice..., che erano i suoi strumenti di lavoro. Mi piaceva vedere in poco d’ora il ferro da rozzo e informe trasformarsi negli utensili della necessità quotidiana. E mi piaceva vedere i  vari animali: cavalli, asini, muli, che arrivavano zoppicando; e che, all’inizio indocili e sospettosi, poi si ammansivano nella fiducia del padrone, che li teneva per le briglie o per le corna o abbracciava loro il muso, dicendo intanto parole di conforto; e si sottoponevano all’arte di Urbano che li ridotava di ‘scarpe’ nuove. E che, infine, offesi e ingenerosi, se ne tornavano, camminando però con passo agile ed elegante.

L’altra figura legata alla vita e all’attività degli animali era il raccoglitore di sterco. Lo si vedeva ogni tanto; ma più spesso, nei periodi di maggior fervore dei lavori agricoli e quindi di più intenso andirivieni di animali dal paese alla campagna e viceversa. Ce ne era sempre in abbondanza di sterco, dopo questi numerosi passaggi. Col sacco in spalla e la paletta in pugno, questo esperto della concimazione, percorreva le varie vie, raccogliendo lo sterco oramai essiccato e insaccandolo: quello delle vacche, quello dei buoi, dei cavalli, dei muli, degli asini, delle pecore... Ad ogni specie il suo sterco; e ad ogni sterco la sua figura, il suo colore e il suo odore. Ma, comunque, ognuno buono per essere un buon concime.

Ma erano gli anni quelli, lo avrai capito e poi lo saprai dai tuoi studi, in cui il vecchio mondo, quello il cui ritmo giornaliero era ancora tranquillamente al giro del sole, moriva; e si affacciava alla storia il mondo nuovo, quello rapido e affaccendato delle macchine, quello che non alza più gli occhi a guardare il cielo. Ma li abbassa a guardare l’orologio, sempre con ansia e preoccupazione. E, a poco a poco, attività e figure consuete nella nostra vita quotidiana scomparivano o si trasformavano, tanto da perdere le primitive caratteristiche.

Il calzolaio, per esempio. Io lo andavo a trovare, quando aveva le mie scarpe a risuolare oppure me ne stava facendo un paio nuove; oppure quando mi piaceva di vederlo lavorare. Protetto dal vasto grembiule e dai duri e consunti manali, lavorava, seduto al suo piccolo desco,  in quella sua stanza dal soffitto basso che, attraverso l’angusta finestra, guardava il pendio della collina ad occidente, verso Serravalle e poi lontano la pianura fino a Sarzana.

Io ero un ragazzo e lui già era uomo.

A volte era solo. Vedendomi mi salutava e poi accennava a una delle sedie che erano lì presso. Io mi mettevo a sedere. E me ne stavo in silenzio a guardarlo mentre era ‘a l’opra intento’, come dice il Poeta, assorto e anche lui silenzioso; e intanto l’informe cuoio fra le sue mani e sotto le direttive del suo estro creativo diventava elegante calzatura. L’eleganza delle sue scarpe! Tutti nel Paese e anche nel Comune erano orgogliosi di portare le sue scarpe. Erano già, si potrebbe dire, scarpe firmate.

A volte, a fargli  compagnia mentre lavorava, c’era anche qualche paesano. Per lo più erano mutilati e invalidi della prima guerra; oppure quelli che ormai erano troppo vecchi per poter combattere ancora nella seconda.

Ed io, anche se c’erano altre persone, mi fermavo lo stesso.

Amavo da ragazzo sentir parlare i grandi. Di solito non erano discorsi importanti. Per lo più ragionamenti che riguardavano la gente del nostro paese, di Nicola. Ogni tanto qualche barzelletta. Ma, a volte, dato che erano persone che avevano fatto la guerra, raccontavano: imprese di eroismo e atti di viltà. Lui era ancora un ragazzo per la prima grande guerra; ed era malato per la guerra di ora. Per cui lui la guerra la sentiva solo raccontare, mentre se ne stava in silenzio, occupato al suo lavoro: la scarpa ancora nella sua forma in grembo, intento fra cuoi, pelli, suole, tomaie, martelli, lesine, punteruoli… colle (era piacevole, quando faceva scaldare la colla, quel profumo che sapeva vagamente di mandorle amare).

E anch’io stavo a sentire quei racconti di camminamenti e di trincee; di battaglie navali e di scontri aerei. E anche di assalto alla baionetta. Chi raccontava era un eroe e anche chi era morto era un eroe. Lui, invece, il nostro calzolaio, non era un eroe. Lui faceva il calzolaio e il più che poteva fare era confezionare qualche paio di scarponi per i soldati al fronte. Del resto lavorava per i ragazzi, per i vecchi e per  le donne. Gli uomini validi erano sotto le armi e non si servivano delle sue scarpe. E generalmente non ne avevano bisogno neanche quando tornavano a casa. I morti infatti non portano le scarpe. Lo avevo imparato andando con la mamma in visita a qualche defunto. Li avevo sempre visti supini nel loro letto, completamente vestiti ed anche con una certa cura di eleganza, con calze e tutto, donne e uomini. Ma senza scarpe. E neanche lui le aveva le scarpe (eppure lui era calzolaio), quando, ed eravamo ormai in tempo di pace e la vita veramente ora poteva promettere primavere di bellezza, quando quella malattia che lo aveva escluso dai vari fronti e non gli aveva permesso di essere un eroe, lo aveva escluso anche dalla vita.

E questo mio calzolaio era morto in tempo, prima di dover essere lui a chiudere la sua bottega, a causa del montare dell'industria che, progredendo, distruggeva ogni tipo di artigianato. Allo stesso modo scomparvero le botteghe del sarto e quelle del falegname. Tutto un mondo di manualità e di intelligenza che andava piano piano, oppure in gran fretta, verso il suo tramonto.
 

 
 

  RIFLESSIONI DI UN LETTORE
di Doretto


 
 

Domenica, 22 maggio 2011.

Come al solito, vado a Messa su a Casano nella chiesetta di San Giuseppe. Lì ritrovo le mie “anime sorelle” e quando ci ritroviamo è gioia;  Gesù, il mezzo dei nostri incontri, lo ritroviamo ogni volta che ci incontriamo. Poi, ecco la celebrazione della Santa Messa.

            Nella chiesetta c’è tanto raccoglimento; il coro diretto dalla Lucia è qualcosa che ti prende l’anima e la innalza verso il cielo; padre Onildo, un prete anche lui venuto da lontano, sembra un prete nato a Casano, mentre invece la sua patria si trova oltre oceano. Poi le sue prediche sono avvincenti, chiare ed attuali, rapportate sempre alle Letture del giorno. E poi la consacrazione del pane e del vino e la distribuzione dell’ostia consacrata ai fedeli. Infine si esce.

            E qui, ecco la mia riflessione. Le persone non vanno via. Si fermano davanti alla chiesa, nel piccolo piazzale antistante, e si mettono a parlare tra loro. Parlano di ogni cosa. Dei piccoli o grandi problemi che ognuno di loro  si porta dietro, dei figli, dei loro progetti immediati o futuri, o anche di cosa si mangerà a pranzo… Anche tutto questo è partecipazione alla Santa Messa.

            Un giorno, mentre osservavo tutto questo, la solita vocina mi dice: “Ma non ti accorgi di niente? Guarda se tra di loro ce n’è uno che alza la voce; se c’è qualcuno che non sorride, se non ha lo sguardo luminoso; se qualcuno non è contento! Guarda come si vogliono bene!”.

 Ma che significato ha tutto questo? Dove c’è Amore, lì c’è Dio (Ubi caritas et amor, Deus ibi est…). Ha proprio ragione padre Onildo quando dice: “Almeno per un quarto d’ora, dopo che avete fatto la Santa Comunione, cercate, nel raccoglimento, di volervi bene tra voi!”. Un quarto d’ora solo?  Mi pare un po’ poco. Sono certo invece che ognuno di loro, quando ritornerà nel proprio ambiente, porterà questa sua gioia anche agli altri. Non ce lo vedo proprio uno di loro litigare col vicino perché il cane gli sporca il marciapiede! Ognuno, invece, porterà gioia e pace, e allora si realizzerà quello che ha detto Gesù: “Voi siete il sale della terra!”.

            Facile? Difficile? Chiediamo aiuto a Gesù: Lui non ci abbandonerà.

 

                                                                                                                     
 

  CONTINUANO LE MIE RIFLESSIONI
di Una assidua lettrice del “Sentiero”


 
 

 


16 maggio-  Il Vangelo di ieri (Gv 10,…) è sublime e meravigliosa è stata l’omelia, perché c’è l’essenza del messaggio che Gesù vuole mandare a ciascuno di noi (Lui è la Via, la Verità e la Vita) qui nella nostra vita terrena.

Gesù vuole togliere da ciascuno di noi, ma soprattutto da dentro il nostro cuore, quell’aridità che ci allontana da Lui e ci vuole, dato che è misericordioso, farci conoscere l’Amore (Il beato Giovanni Paolo II diceva che l’Amore è la spiegazione di tutto). Quell’Amore che ci ha dato con la sua morte, indicandoci così la via per la vita eterna. Questo dobbiamo tenerlo sempre a mente specialmente in questi 50 giorni, dalla Pasqua alla Pentecoste.

Gesù ci vuole gioiosi, sereni, ottimisti nel cuore; vuole che ognuno di noi abbia nel proprio cuore la pace interiore (che è “tanta roba”), pace che possiamo ottenere se seguiamo come le pecore il Buon Pastore che conosce una ad una le sue pecore e le chiama per nome. Lui ci conosce veramente, per questo non dobbiamo temere nulla se ci facciamo guidare da Lui. Ci conosce (mi ripeto anzi voglio ripetermi) fino in fondo: Lui sa se siamo o non siamo dei veri cristiani, perché col suo grande occhio ci scruta fino in fondo al nostro cuore e, prima che esprimiamo a lui qualcosa “il Signore lo sa già”; per questo dobbiamo fare ciò che Lui ci chiede e non quello che vogliamo noi, non attenendoci al suo Vangelo.

Dobbiamo ascoltare la sua voce che è presente in ciascuno di noi; Lui non fa distinzione: siamo tutti sulla “sua” terra, sotto il “suo” cielo; la sua legge è veramente per tutti senza alcuna distinzione; sta solo a noi riconoscere quella voce tra le tante altre che abbiamo dentro. Ma come facciamo a riconoscerla tra le tante? E’ facile, Lui, attraverso i suoi discepoli,  ci ha lasciato l’arma per abbattere il nostro “Golia”, il Vangelo e quattro momenti precisi per incontrarlo: il confessionale, dove parliamo col sacerdote (ma è con Lui che parliamo) dei nostri momenti bui, delle nostre difficoltà, dei nostri errori; e lì incontriamo Gesù con il suo perdono; poi Lo incontriamo nell’Eucaristia, ed è molto importante riceverlo col cuore pulito; ma soprattutto lo incontriamo quando entriamo in chiesa, anche quando non c’è nessuno, nel tabernacolo e con Lui possiamo parlare  così a “quattr’occhi”; il quarto momento poi è durante la Santa Messa attraverso  l’ascolto vero e silenzioso della Parola di Dio che viene proclamata.

Da diversi mesi ho capito che se voglio riconoscere la sua voce è molto più semplice e facile di quello che pensavo. Dobbiamo sempre confidare in Lui e ci porterà verso l’Amore, verso le cose buone, non verso quelle cattive; se in ciò che facciamo, diciamo, pensiamo non si va verso il bene, significa che siamo sulla strada sbagliata.

E allora cambiamola quella strada! Facciamo vedere a noi stessi e a chi ci circonda chi siamo veramente, anche se ci troviamo ad andare contro corrente e ci troviamo soli; tiriamo fuori noi stessi, il nostro coraggio personale… Ascoltiamo il nostro cuore, sentiremo Lui! Quante volte, non rendendomene conto, ho preso delle strade sbagliate: lui era sempre accanto a me (come lo era ai discepoli di Emmaus), ma io non lo riconoscevo, e ho sbagliato strada, ma come dice  colei che ci è di insegnamento, Madre Teresa; la cosa più facile è sbagliare, importante è non ricommettere più quell’errore, farne tesoro e chiedere scusa se lo abbiamo fatto verso qualcuno.

Madre Teresa diceva anche: “L’importante non è quanto facciamo bensì l’Amore che poniamo in quello che facciamo”, perché “Chi ama Dio ama anche quanti lo circondano”.

Ritornando alle parole del Vangelo, Gesù ci fa uscire dal recinto, non ci vuole in gabbia, proprio perché Lui ci vuole liberi; ognuno di noi deve essere se stesso perché solo lui sarà responsabile davanti a Dio.

Ma siccome noi non abbiamo quella intelligenza immediata per capire subito qual è la strada giusta, Lui, essendo il nostro Pastore si mette davanti al suo gregge.

Quindi ascoltiamo e riconosciamo la sua voce; instauriamo con Lui un dialogo continuo. Lui ci vuole con sé tutti, anche quelli di noi che abbiamo più volte sbagliato strada non riconoscendolo, perché Lui non è un mercenario ma un Pastore buono che dà la sua vita per salvare anche l’ultima pecora smarrita.

            Facciamo come ha sottolineato il nostro parroco, don Andrea, nell’omelia dei “Discepoli di Emmaus”.  Gesù è il nostro grande pastore, pastore di ognuno di noi che siamo tutti dentro un grandissimo gregge (il Mondo), ma Gesù vuole che anche ciascuno di noi abbia la personale responsabilità di essere, a nostra volta, pastori, nel dare agli altri quello che abbiamo attinto dai suoi insegnamenti attraverso il suo Vangelo: nel lavoro, nella comunità parrocchiale, con i nostri amici, con tutti quelli che incontriamo  e non conosciamo… Ma Lui ci vuole soprattutto bravi pastori nella nostra famiglia a 360°, ossia la nostra che ci siamo costruiti, marito o moglie e i bambini dai quali siamo continuamente osservati. Madre Teresa dice inoltre che “i migliori professionisti sono i bambini…”. Camminiamo con loro; non hanno bisogno di tante cose materiali ma di tanti gesti e fatti concreti che solo un babbo e una mamma possono dare. Quindi Gesù ama la famiglia perché Lui è il pastore di tutte le famiglie del mondo, ma ciascuno di noi è invece pastore della propria famiglia, di quel piccolo gregge che Gesù ci ha affidato-

            Ora termino, vi saluto tutti e scusate le mie ripetizioni (a volte le vedo proprio necessarie); ho capito che se certe cose le diamo troppo per scontate e se non ce le teniamo sempre a mente, ci possiamo riperdere e riperderci significa “cadere nella trappola”. Mi auguro con tutto il cuore di non caderci mai più e che le mie riflessioni possano servire sì a me ma anche ad altri.

            Un sentito grazie a tutte le meravigliose persone che ho incontrato nella mia vita fino ad ora; sono stata una grande “ladra”: da tutti ho rubato per potermi migliorare e quanto devo ancora migliorarmi, perché da tutti possiamo imparare qualcosa e, nello stesso tempo essere noi di esempio per altri: che bello!

                                                                                  

Una assidua lettrice del “Sentiero”

 

 

P.S.) 25.5.2011. Bellissimo è ciò che è scritto in Corinzi 1-13, l’Inno all’Amore! Per noi che andiamo in chiesa e che leggiamo  “Il Sentiero” penso possa essere molto importante. Ora vi insegno qual è la via migliore: leggetelo, è sublime per uno che ha fede o vuole trovarla!

 

 
 

  IL MIO OMBRELLO
di Marisa Lisia


 
 

 


            Premetto che vivo in casa con mio figlio e con la sua legittima consorte e sono proprietaria di un vecchio ombrello di un colore rosso vivo, quasi introvabile; è un po’ malconcio e anche da me rattoppato, però mi è molto utile perché quando spiove lo uso come bastone. Non è un comune ombrellino: ha il privilegio di avere una sua storia tutta personale e interessante.

            Io sono una persona caratterialmente molto disordinata, con disappunto di mia nuora che, malgrado vada a lavorare, in casa è veramente precisa; così si invertono i ruoli: lei, la suocera un po’ brontolona, io la nuora sconsiderata e sprecisa, in questo le do perfettamente ragione.

            Vi dirò ora perché ho portato in causa il mio vecchio ombrello. Il fatto è che disagiato com’è non riesco mai a chiuderlo come si dovrebbe, per quanto mi ci metta seriamente d’impegno. Ma meraviglia delle meraviglie, un giorno che aveva piovuto, trovo il mio ombrellino perfettamente chiuso da una mano esperta e riposto diligentemente al suo posto e asciutto.

            Se il mio prezioso ombrello potesse parlare ci direbbe che non è mai stato trattato con tanta cara attenzione. Certamente questo è stato un atto assai gentile da parte di mia nuora o, meglio ancora, un vero e proprio atto d’amore.

            Comunque sia, a lei un sentito grazie di cuore.
                                                                                                                
 
                                

  Diario di un parrocchiano di Casano- San Giuseppe
di Giuseppe Franciosi


 
 

Sabato, 14 .O5.2011.


            Oggi mio figlio si sposa, non è più un ragazzino ha già compiuto 50 anni. Non abbiamo suonato le campane, per annunciare questo avvenimento, eppure molti ne sono venuti a conoscenza e la nostra casa in via Castagno è piena di vasi, di fiori ed altro. Alle 13,30, a Fiumaretta, pranzo con un gruppo di parenti ed amici. Domani gli sposi partiranno per una crociera in Grecia e Turchia: buon viaggio! Anche se non mi entusiasma l’idea di dover restare, quasi solo, per due settimane. Ho  detto “quasi solo” perché non resterò del tutto solo: parenti stretti mi sollecitano ad andare da loro: a pranzo, a cena, ma io ho ringraziato, commosso e solo qualche volta approfitterò di questa cortesia.. Passare il tempo con le persone care è una cosa assai gradita, ma io non voglio creare imbarazzo a nessuno. Ho detto “quasi solo” e non solo perché una vicina di casa, la Cristina, una rumena, si occuperà di me.

            Ho parlato di pranzo a Fiumaretta, in un ristorante; ma ci sarà un secondo incontro a Quarazzana un sabato del mese di agosto. Tanti nostri parenti sono a Ortonovo ma altrettanti sono nel Fivizzanese, terra della Giulia, e quindi un incontro a Ortonovo e un altro a Quarazzana.

            La Giulia, ne sono sicuro, sarà pure lei presente in mezzo a noi.


Lunedì, 16.05.2011.

Verso le 10 gli sposi si sono messi in viaggio: auguri e felice ritorno per venerdì 27 maggio. Alla sera, alle ore 21, ci sentiamo al telefono e così  anch’io in qualche modo vivrò la “crociera”.

           

                                       

 
 

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