N° 7 - Agosto-Settembre 2010
Spiritualità
  Simboli e segni cristiani
di Ratti Antonio


 
 

 IMPOSIZIONE DELLE MANI  E UNZIONE

 

 

L’imposizione delle mani e la sacra unzione sono i due gesti liturgici essenziali per trasmettere, dando così la continuità, lo Spirito Santo e l’autorità di operare nel nome e per conto di Gesù. Rappresentano l’azione consacratoria della Chiesa apostolica sopra coloro che sono chiamati a particolari compiti (es., il sacerdozio). Nell’Antico Testamento il gesto delle mani  poste sul capo significava  benedizione e investitura: Mosè, attraverso l’imposizione delle mani sul capo conferì a Giosuè il potere di succedergli (Lv 9, 22 ).  L’imposizione e l’unzione erano riservate ai re e ai sacerdoti, cioè a coloro che erano chiamati a svolgere una speciale missione nella società. L’unzione, un rito che si perde nella notte dei tempi ed è presente in molte religioni pre-ebraiche e pre-cristiane, rappresenta anch’essa benedizione e chiamata a compiti particolari. Per questo motivo nelle cerimonie di consacrazione sono presenti: es., nel conferimento del Sacramento della Cresima, come nella consacrazione sacerdotale ed episcopale. “Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazione di profeti, con l’imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri.” ( Paolo, Tm 4, 12-14 )

 

 
 

  Simboli e segni cristiani
di Ratti Antonio


 

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Questo simbolo, formato da due lettere greche sovrapposte [ X (chi) e P (rho) ], rappresenta le iniziali del nome di Cristo. Cristo vuol dire Unto e traduce il termine ebraico di Messia. Gesù all’inizio della sua vita pubblica, leggendo le Scritture nella sinagoga di Nazaret, applica a sé, apertamente e senza sottintesi, un brano del profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio….”   ( Is 61, 1-2 ) Ne consegue che questo simbolo indica la missione di Gesù, l’Unto per eccellenza, consacrato e inviato per la salverzza degli uomini. E’ chiaro come imposizione delle mani e unzione siano due modi di esprimere lo stesso concetto.

 

 

  JEROME, SEMINARISTA IN CIELO
di Padre Carlo Cencio -Missionario carmelitano


 

 

 

 

 

Non c’era ancora stata una morte in seminario, e non l’avremmo certo voluta, ma la natura, i piani di Dio… Padre Domenico in quel periodo era in Italia. Io ero rimasto il padre più anziano del seminario; in caso di guai, dovevo assumerne la guida. E quello fu un vero guaio.

         Si trattava di Jerome, un nostro seminarista che aveva quasi sedici anni. Era un bravo ragazzo, serio e sincero. Era fra quelli che si occupavano della legna per il fuoco. Solo i più grandi, ben istruiti, potevano tagliare la legna con la sega a motore. Un giorno - aveva poco più di tredici anni - approfittando dell’assenza del compagno più grande, si mise alla sega. Mentre la legna tagliata cadeva a terra, Jerome vide cadere anche le sue dita e si ritrovò la mano in un lago di sangue. Il suo coraggio, le nostre cure, la protesi e la sua perfetta ripresa, sia pure con sole due dita, avevano meravigliato tutti. Suo padre e sua madre avevano sofferto molto per l’infortunio capitato al figlio, ma non avevano pensato neppure lontanamente di rivalersi contro di noi. Avevano capito bene che si era trattato di un incidente, e che lui non avrebbe neppure dovuto toccare la sega. Si commossero alla notizia che sarebbe stato portato in Italia  per le cure del caso, rimanendovi per mesi e mesi. Loro non avrebbero mai avuto la possibilità di curarlo così in Centrafrica.

         Eppure, dopo oltre due anni dal suo ritorno, Jerome cominciò ad accusare debolezza generale, insonnia, inappetenza e malesseri vari. Non riusciva più a frequentare regolarmente la scuola e a svolgere i suoi compiti giornalieri. Cominciammo a farlo visitare dal medico di Bouar e da altri esperti. Le medicine non gli davano alcun beneficio. Pregavamo per lui con ardore, per la sua guarigione. Dal momento che sul posto non riuscivamo ad ottenere alcun risultato positivo, decidemmo di portarlo a Bangui, presso una nota clinica, con la speranza che riuscissero a diagnosticare il male e a fare qualcosa. La degenza e le cure costavano molto, ma non volevamo lasciare nulla d’intentato. Di giorno in giorno si passava da una diagnosi all’altra, da un’ipotesi all’altra, e intanto Jerome deperiva visibilmente. Erano presenti a Bangui anche suo padre e altri familiari, che poterono verificare in prima persona quanto stavamo facendo e quali spese stavamo sostenendo. L’ultima diagnosi fu: setticemia. Non si trascurò neppure di esaminare il sangue per escludere che avesse contratto l’Aids: risultato negativo. Lo stato generale di Jerome era così precario che non avremmo neppure più potuto trasferirlo in Italia. Il giudizio del primario fu: “Non si può più fare nulla; riportatelo all’ospedale di Bouar, sperando che…”.

         Il sangue di Jerome era sempre più povero. Avrebbe dovuto fare trasfusioni in continuazione. Noi eravamo anche pronti, i medici invece mi dissero: “Jerome è molto grave, forse non arriva a stasera”. Andai immediatamente all’ospedale con l’olio degli infermi. Come arrivai accanto a Jerome, mi resi conto che non c’erano né medici né infermieri. Lui mi riconobbe: ci salutammo con uno sguardo. Salutai i suoi parenti; la mamma continuava ad asciugargli la bocca piena di sangue. C’erano anche  alcuni suoi compagni di seminario. Gli dissi che le sue condizioni erano gravi e ci sarebbe stato bisogno di un miracolo. Bisognava pregare molto. Tutti i suoi compagni lo stavano facendo e sarebbe stato bene se lui avesse ricevuto l’olio degli infermi per il corpo e per l’anima. Mi fece un cenno positivo, senza parole; era talmente debole che non riusciva nemmeno a confessarsi. Gli diedi l’assoluzione e il sacramento degli infermi.

         Tornato in seminario, verso le 17 mi portarono la notizia che Jerome era spirato. Mezz’ora dopo due auto cariche di parenti e di seminaristi, rimasti accanto a lui fino all’ultimo respiro, raggiunsero il seminario di La Yolé. Portarono anche il feretro. Restammo tutta la notte a cantare, piangere e pregare. Quel pianto però non era tragico, neppure quello dei parenti. L’indomani, celebrata la Messa di esequie, accompagnammo la salma di Jerome al suo villaggio, lontano più di 100 chilometri. Il corteo era composto dai seminaristi e da molta gente; mai a Bawi avevano assistito a una cerimonia funebre così suggestiva e pacifica.

         Qualche giorno dopo arrivò padre Domenico, direttore del seminario Gesù Bambino di La Yolé. Andò a visitare la famiglia e a parlare con tutti. Così apprese che il vecchio nonno aveva a lungo discusso con il padre di Jerome, per fare causa ai Padri, accusandoli come responsabili per quella vicenda e chiedere un notevole risarcimento. Il papà che era stato testimone di tutto quello che era stato fatto, lo aveva lasciato parlare e poi gli aveva risposto: “ Smettila di continuare a farmi questi discorsi per indurmi a perdere la testa. No! Io non farò nulla contro di loro. Mio figlio non è stato ammazzato dai padri missionari o dalla loro incuria, lo hanno solo curato. Io ho ancora un altro figlio in seminario e non intendo allontanarlo. Sono sicuro che gli vogliono bene”.

         Queste parole coraggiose misero fine a ogni tentativo di rivendicazione. Ormai una lapide ricorda Jerome là, sulla sa tomba di Bawi, e i suoi compagni pregano per lui negli anniversari.   

  I Vangeli del mese
di Rosa Lorenzini


 

 

L’ Evangelista Luca, originario della comunità di Antiochia, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, di professione medico, uomo di cultura, sensibile a tutto ciò che merita attenzione, profondo conoscitore della letteratura e dei metodi compositivi della storiografia greca, scrupoloso narratore della storia della fede in Cristo, compagno di viaggio di Paolo, grazie a suoi preziosi scritti è conosciuto come il teologo della storia della Salvezza.

Ed è proprio della Salvezza che Luca ci parla in queste quattro domeniche del mese di settembre. Le sue parabole sono perle di saggezza, sono parole che vincono sempre, perché chi ha fiducia nella Parola di Dio non perde mai le occasioni per vivere nella gioia dando con il cuore, per vivere raccogliendo a piene mani il centuplo di quello che ha donato, assaporando già adesso un piccolo anticipo della “fragranza” della Salvezza promessa che riempie il cuore di pace:

Ø  ci consiglia di valutare gli eventi con la sapienza del cuore (XXIII dom.)

Ø  ci ricorda la forza  e la gioia del perdono (XXIV dom.)

Ø  ci ammonisce per imparare a vedere nella generosità e nella sincerità la “ricchezza” che appaga, salva e rende felici (XXV dom. )

Ø  ci invita a fare della nostra vita uno splendido capolavoro  (XVI dom.)

 

05 settembre  XXIII domenica del tempo ordinario/ C  Lc. 14, 25-33

Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro………..

Sono molti quelli che dicono di voler seguire Gesù, ma ciò rimane volontà e non diventa realtà; sono molti quelli che iniziano un cammino seguendo gli insegnamenti di Gesù, ma quando trovano le prime difficoltà, l’ entusiasmo svanisce e la perseveranza si perde nelle molte giustificazioni inventate per far tacere la coscienza; sono molti quelli che sono convinti di seguire fedelmente il “ loro Gesù”; sono molti quelli che da sempre sono convinti di seguire Gesù, ma rimangono fermi mentre Gesù è alcune  miglia avanti a loro. Per tutti questi e per altri e soprattutto che quelli che vogliono con fermezza seguire Gesù, le parole di Luca sono preziose: prima di iniziare una avventura impegnativa, come la sequela di Gesù, è necessario soppesare scrupolosamente le proprie capacità, misurare con onestà i mezzi che si hanno a disposizione e valutare con sapienza se ciò che si guadagna è più prezioso di ciò che si deve abbandonare per amare totalmente, fedelmente e senza riserve Gesù. Chi ha provato sulla propria pelle questa avventura unica ed inimitabile,testimonia che la Salvezza che dona Gesù a chi lo segue con totale abnegazione è più preziosa e appagante di qualsiasi tesoro terreno.

 

12 settembre XXIV domenica del tempo ordinario / C    Lc. 15, 1-32

C’’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Dio Padre Misericordioso è presente in molti brani evangelici ; siamo abituati a sentire parlare della sua infinita capacità di perdonare, conosciamo il grande dono che ci elargisce a piene mani nel Sacramento della Riconciliazione, crediamo che il nostro bisogno di perdono viene sempre appagato dalla pazienza paterna di Dio, sempre pronto ad accoglierci a braccia aperte. Luca regalandoci questo brano evangelico ci offre un motivo in più per chiedere il perdono di Dio e avvicinarci con piena fiducia al “confessionale”, spesse volte dimenticato e peggio ancora sottovalutato; quando ci “gettiamo” con umiltà e sincerità tra le braccia di Dio Padre ricordiamo che Lui ci ama per primo, ci cerca continuamente e quando gli diamo la possibilità di abbracciarci e perdonarci gli procuriamo una gioia pari alla sua bontà infinita.

19 settembre XXV domenica del tempo ordinario / C    Lc. 16, 1-13

…… se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?

Protagonista di questo brano è la ricchezza: la ricchezza dell’ uomo tanto ricco che non vuole perdere la sua agiatezza, la ricchezza che l’ amministratore rischia di perdere, perché il suo padrone ha paura che il suo denaro venga male amministrato. Due persone schiave della ricchezza e terrorizzate al solo pensiero di perderla. La “scaltrezza” risolve il problema dell’ amministratore che per non perdere la sua agiatezza diventa disonesto,  e la “ scaltrezza “ piace al ricco padrone che capisce che un’ amministratore scaltro è meglio averlo come amico. Ma Luca ci porta a riflettere su un’ altra ricchezza e su altri amici: la ricchezza da conquistare è la Salvezza, gli amici da coltivare sono i poveri; poiché quando sarà il momento di rendere conto di come abbiamo “amministrato” la nostra vita, il denaro accumulato non avrà più nessun valore e il “passaporto” per la Salvezza sarà  la generosità , la benevolenza, la solidarietà  spesa per i poveri nel volto dei quali abbiamo riconosciuto il volto di Cristo sofferente.

26 settembre XXVI domenica del tempo ordinario / C     Lc. 16, 19-31

Hanno Mosè e i Profeti: li ascoltino!

Luca ci porta dove la Salvezza si concretizza in Gloria e dove la “mancanza” di Salvezza si trasforma in tormento insieme a Lazzaro mendicante, coperto di piaghe, con il solo desiderio di potersi sfamare con gli avanzi riservati ai cani, che gli leccano le piaghe e insieme a un uomo ricco, senza nome, senza identità che festeggia ogni giorno con grandi banchetti. Il povero Lazzaro che ha passato la sua vita aspettando con umiltà e pazienza un gesto di generosità, dopo la morte, è consolato e il ricco che ha usato il suo tempo pensando a impreziosire il proprio corpo con vesti lussuose  e a mantenersi sempre sazio con grandi banchetti, dopo la morte, è tormentato. L’ uomo senza nome, nel suo tormento, pensa a suoi fratelli che come lui spendono la loro vita pensando al lusso e alle feste e supplica Abramo perché  invii loro Lazzaro   per ammonirli e salvarli. Ma la Salvezza non si acquista con magie, incantesimi, visioni e voci che vengono dall’ “oltre tomba”; ma ascoltando e dando con cuore fiducia alla parola di Dio che se accolta e “fatta entrare” con docilità nella quotidianità  trasforma la nostra vita in uno splendido capolavoro che ci accompagna dolcemente alla pienezza della Salvezza.

 

 

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