N° 6 - Giugno 2022
IL NATALE DEGLI EVANGELISTI
di Carlo Lorenzini.

 

 

 

In quel tempo dunque Cesare Augusto emanò un editto che imponeva il censimento a tutta l’umanità (Factum est autem in diebus illis, exiit edictum a Caesare Augusto, ut describeretur universus orbis). E andavano tutti a dare il proprio nome, ciascuno nella propria città.

E anche Giuseppe da Nazaret in Galilea salì a Betlemme in Giudea, perché lui era di quella città. E aveva con sé Maria, sua moglie, che era incinta (cum Maria desponsata sibi uxore, praegnante). E siccome il tempo della gravidanza era terminato, mentre si trovava a Betlemme, partorì e diede alla luce il suo figlio primogenito (et peperit filium suum primogenitum). E lo avvolse in panni e lo adagiò in una mangiatoia, perché per loro non ci fu posto in nessun albergo (quia non erat eis locus in diversorio).

Tutte le volte che rileggo questo latino mi prende una specie di commozione, perché mi riporta alla memoria i miei verdi anni e che per la prima volta, grazie a questa narrazione,  scoprii la poesia del Natale come lo celebravamo noi al mio paese.

Mi ricordo (era il primo trimestre della mia seconda media e dunque i mesi sotto Natale del 1948) l’impressione che provai nel costatare che quelle pagine raccontavano i riti che celebravamo noi nella nostra chiesa e nelle nostre case: diceva, infatti, in un latino che sembrava italiano,  del presepe, di Giuseppe e di Maria, del Bambino Gesù, dei pastori, dell’angelo annunciatore, di tutte quelle luci in cielo, dell’inno di gloria; non parlava del bue e dell’asinello né del fieno o della paglia; ma in una stalla è logico che ci sia un bue e del fieno, mentre l’asino certo era quello con cui facevano il viaggio i due pellegrini.…

 Un’impressione, dunque, così profonda, che quel bel latino lo imparai a memoria: e me lo ripetevo fra me e me, una frase qua e una là, gustandone il suono e il significato: factum est in diebus illis… singuli in suam civitatem…. Et peperit filium suum primogenitum.. e poi le parole che dicevano dei pastori, che erano in regione eàdem vigilantes… e poi quelle che dicevano dell’angelo di Dio ai pastori e poi tutta quella luce … e i pastori che con tutta quella luce si spaventarono (et timuerunt timore magno), e l’angelo che dice loro non temete perché io vi annuncio una grande gioia (gaudium magnum), e cioè che è nato per voi il Salvatore del mondo; e poi altri angeli si riunirono a questo primo e le luci si moltiplicarono e in cielo c’erano cori e tutti cantavano Gloria in altissimis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis.

E poi gli angeli se ne volarono in cielo e i pastori andarono e trovarono il bambino con Maria e Giuseppe e videro che il bambino era posto nella mangiatoia. Poi i pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio.

Leggevo queste pagine nella malinconia del silenzio collegiale in quei freddi pomeriggi bui e caliginosi e il mio cuore era pieno di nostalgia, nostalgia della mia casa, della mia chiesa, dei miei riti, che ora mi sembravano pieni di poesia;  nel gelo e nella solitudine di quei cameroni collegiali sognavo le calde riunioni domestiche di fronte alla fiamma del focolare, in un’intimità quasi religiosa; sognavo, incontrandoci per via fra compaesani, lo scambio di auguri ‘Buon Natale!’ ‘Buon Natale!’, sognavo il rito dei modesti regali; sognavo la coralità dei canti nella mia chiesa, le armonie dell’organo e il suono delle campane. Sognavo la gioia di ‘Tu scendi dalle stelle’. Cosa che non mi era ancora mai successa negli anni trascorsi. Tanto che mi pare di poter affermare che quello fu il mio primo Natale.

E questo, certo, grazie al vangelo di Luca. In cui la nascita del Bambino è narrata in modo epico, come un trionfo.

Come un trionfo, del resto, questo evangelista ci narra anche la passione e la morte di Gesù.

Pagine di grande letteratura che diedero all’occidente i modi della celebrazione della nascita e della morte del Salvatore. Se non avessimo Luca non avremmo il nostro Natale.

Perché sulla nascita del bambino gli altri tre evangelisti lasciano piuttosto a desiderare.

Matteo è sbrigativo: con lui niente poesia, ma dramma: è lui che mette accanto alla nascita del Bambino la fuga in Egitto e la strage degli innocenti: bagliori sinistri.

Marco non fa alcun cenno della nascita.

Mentre Giovanni, dopo un inizio a carattere filosofico teologico di sublime intuizione, ma di non comune comprensione (In principio era il Verbo), dice solamente: E il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi. Espressione che racchiude in una potente sintesi tutto il dramma dell’umanità di Cristo. In cui però la gente comune non sa trovare il calore e i colori della poesia. 

 

 


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