N° 10 - Novembre 2017
Il piccolo cimitero di Saroco
di Romano Parodi



 

Novembre. Una coltre di nebbia copre la piana di Luni. Ma come si sale su, verso Ortonovo, spunta il sole, e tutto ciò che sembrava grigio e spento, rinasce. Le chiome degli alberi di castagno sono fiammate e gialle.
Sul ciglio della strada i margheritoni gialli crescono spontanei. Nel piccolo piazzale, antistante il cimitero, noti un movimento inconsueto. Auto di forestieri, che esitano a posteggiarsi: temono di essere degli intrusi e non vogliono disturbare posteggiando in malo modo.

Ne scende gente che i paesani faticano a riconoscere, gente che se ne è andata da tanto. “Quello è il figlio della Rosé” ci si dice a voce bassa.
Chissà se si ricorda degli antichi vicini, quel ragazzo partito quaranta anni fa.
Cinquanta, quaranta, la vita intera passata lontano. Che cosa rimane?
I vecchi, e a volte nemmeno. E case, ora disabitate, mezzo diroccate, gli scuri chiusi. Ortonovo si sta spopolando sempre di più. Dagli ottocento abitanti dei tempi di mio nonno ai duecento odierni. Eppure dai propri morti, a novembre, si torna, fedeli, e forse più giovani, senza nemmeno sapere esattamente perché. A vent’anni, la morte sembra così astratta e lontana. A sessanta si avverte, di colpo, che oltre metà della corsa è passata e si è vicino all’arrivo. E allora, a novembre, si torna dai propri morti, nel luogo di una radice comune e profonda.
I Montefiori hanno lasciato detto che vogliono essere sepolti qui, con i loro morti, e, uno alla volta stanno tornando. “Qui sento i miei spiriti benigni”, mi diceva Roberto. Nel fare memoria del dove, da cui vieni, e di chi ti ha amato, quando eri bambino.

Scendono dalle auto e si guardano intorno, quasi stranieri. Tra le mani hanno un gran mazzo di crisantemi. La strada per quella tomba, sì, se la ricordano: l’ultima a sinistra, in fondo. La ghiaia scricchiola sotto ai passi.
La foto in cornice sulla lapide, è di un giorno di festa: remoto.
Nome e cognome, e due date, e quel volto, sono tutto ciò che si può ritrovare.

Un lungo viaggio, per restarsene muti, con un mazzo di fiori in mano, e pregare, e segnarsi, e andarsene in silenzio.
E poi magari si mangerà in trattoria, insieme ai parenti rimasti qui, e che stenti a riconoscere. Si berrà il vino locale: vermentino giallo, o rosso sangue: massareta, e il nettare scioglierà, per un poco, i nodi del cuore.
Si mangerà e si berrà in abbondanza, quasi a dimostrare di essere, noi, assolutamente vivi.
Poi in macchina, stanchi, si farà ritorno, mentre la nebbia, come un velario, cala di nuovo.
A sera il piccolo cimitero chiuderà il cancello. Attorno, la chioma degli alberi arde negli ultimi rossi fiammanti. Se ne sono andati tutti, i vivi.
Pensando, nel muto ritorno, a quella invalicabile, misteriosa barriera cui si è, un anno dopo l’altro, impercettibilmente più vicini.

Anche Ceccardo, venne, straniero fra straniera gente, “sul poggio lunigiano al sole”, a trovare sua madre. Era il mese di novembre del 1899, e scrisse questa stupenda poesia:

“Un cimitero di monti”

 

Tarda il sentiero in un silenzio d’erba
che ingialla di rammarico, e rinverde

non mietuta tra un vel d’aridi gambi.

Una rosa selvatica, una stella
d’iride azzurra, affacciansi talora

da quel deserto, come un sogno…., un sogno

che intende co’ le pallide pupille

a un altro sogno, lungi, interminato.

Un suon di foglia che sul gambo oscilla,

il volo silenzioso d’una magra

farfalla bianca, il canto d’un uccello,

o il vento, che tra gli alberi viaggia

il monte, con il sole, con le stelle

e con le vele di nubi, variando

colloqui d’ombre e immagini di luce…

E in aria pende a l’infinito un’eco

di mar che rompa a un’invisibil riva,

o nella valle o dietro il monte.

Ed ora...

è questa la tua vita, o madre mia!”




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