N° 10 - Novembre 2017
Storie dei lettori
  STORIA CHE UNISCE
di Millene Lazzoni Puglia


                    

La Valle del Magra è ricca di storia antica, non solo per il fiume omonimo, che è stato causa di molti problemi per chi doveva attraversarlo e per i contadini che dovevano subire frequenti inondazioni nelle loro fertili terre, ma soprattutto per il territorio della vetusta città di Luni, posto nell’estremo lembo della Liguria di Levante, dove i romani di duemila anni fa hanno lasciato preziose tracce del loro ingegno, arte e civiltà, dopo essersi intestarditi a conquistarlo con tanta fatica e con l’astuzia che non li nobilita.
In questa valle diciamo che il progresso è arrivato nel 1863/64 con la ferrovia e il passaggio giornaliero dei primi treni a vapore. Molto più tardi, nella seconda metà del ‘900 è arrivato il ponte sul Magra, l’Eliporto e l’autostrada. Infine l’espansione edilizia, quasi mai positivamente, si è impossessata del territorio di cui fa parte anche il primo entroterra che comprende (da ovest ad est) Sarzanello, Caniparola (una punta di Toscana che arriva alla via Aurelia) per arrivare nel castelnovese con i piccoli centri di Colombiera e Miniera, i quali hanno il sottosuolo ricco di lignite, scoperta casualmente nel settecento.
Minerale che ha legato per circa due secoli  questi paesini alla storia delle miniere, definita l’”era del carbone”, che finì in modo tragico nel 1953 con l’ennesimo incidente, quella volta molto grave con alcune vittime, verificatosi in una delle tre miniere di Castelnuovo.
Quell’attività estrattiva ha dato il nome al luogo: Miniera. Da sempre il lavoro in miniera è costellato di incidenti causati da frane ed esplosioni di gas troppo spesso mortali, ma nel nostro caso è stato anche fonte di benessere economico negli anni difficili della seconda guerra mondiale, così com’è stato fonte di lotte sindacali e di aggregazione fra lavoratori per difendere il posto di lavoro anche se rischioso. A quel tempo la gente andava nei boschi a procurarsi la legna per l’inverno e per cucinare, ma il carbone, che si trovava a piccoli pezzi nella terra di scarto proveniente dai pozzi, aveva destato l’attenzione e l’ingegno delle donne che erano diventate “cernitrici” di carbone che sostituiva la legna dando un grosso contributo ai bilanci familiari stretti nella morsa della povertà, sottraevano risorse ai boscaioli. Tracce di quel periodo sono rimaste in via Carbonara e via Carbone, mentre un monumento al minatore si trova a Colombiera. Quelle di Sarzanello si sono rivelate le meno longeve, compresa quella situata nel primo tratto di via Canalburo nella collinetta a destra. Lì la storia è un po’ diversa dalle altre, perché prima di scavare i pozzi in verticale, i minatori procedevano in orizzontale con gallerie, sfruttando meglio il sottosuolo. Per un breve periodo, proprio in questa miniera vi lavorò mio nonno materno, Angelo, nel secondo decennio del ‘900, per “rimpinguare” le magre entrate del suo mulino. Mia madre Argentina, allora bambina, andava ogni giorno da Caniparola a portargli il modesto pranzo. Molti uomini delle zone circostanti trovarono nella miniera una risorsa per superare un momento difficile, però il lavoro era molto più duro e pericoloso di quello dei campi, sebbene un po’ più remunerato di quello del bracciante. Alla miniera di via Canalburo, a metà degli anni ’30, alcuni anni dopo la sua chiusura, è avvenuto un fatto insolito e tragico; la curiosità fece avventurare tre giovani in uno di quei pozzi abbandonati rimanendo vittime del gas e dell’inesperienza. La più antica miniera della zona di Caniparola è stata la prima ad essere dismessa nei primi anni del ‘900. Si ricorda che quando era in attività avesse una galleria che la collegava ad una delle due miniere a est di Sarzanello, prima del vecchio borgo di fronte all’inizio di via Paternino. Questa antica miniera di Caniparola si trovava sul lato sinistro di viale Malaspina, poco più a sud della villa omonima, dove da tempo esiste una casa disabitata, una delle poche rimaste dell’antica Fattoria Malaspina, mentre di quell’antica miniera è rimasto un pozzo come riserva di acqua.
Fino all’inizio del nuovo millennio esisteva ancora una boscosa collinetta, costruita con la terra estratta dalla miniera, ora è stata spianata per ampliare la coltivazione della vite già praticata dall’800 ai piedi di “Montesagna”.
E’ presente anche un’altra collinetta, fatta con lo stesso materiale di scarto, molto più antica con grandi alberi che tanto dona in bellezza alla settecentesca villa Malaspina.  Come succede ovunque abbiano lavorato persone, anche le miniere sono ricche di storie legate a quei lavoratori.
Della miniera di Caniparola ne conosco una interessante. Il protagonista è stato il capostipite della prima famiglia di commercianti del luogo, ancora oggi esistente con nome diverso, ma stessi discendenti. Era un uomo della seconda metà dell’800, si chiamava Cecchini Ilario ed era in seminario destinato a diventare prete. Forse la sua vocazione non era profonda, tanto che un giorno confidò ad alcuni compagni di studio che avrebbe lasciato il seminario e l’abito talare. Uscendo dal seminario andò incontro a grosse difficoltà, dovendo affrontare la vita da solo, senza il sostegno della famiglia, né una casa. Così andò a lavorare in miniera dove restava anche a dormire.
Di lì a poco vi portò anche la compagna che nel frattempo era arrivata.
Cecchini Ilario era molto intelligente, intraprendente e capace, con in più la cultura degli studi, cosa rara per quei tempi, quando per i giovani c’era soltanto il lavoro manuale. Questo particolare non era sfuggito al “signor padrone” di Caniparola e Fosdinovo, il quale aveva deciso di animare e “dare un po’ di vita” al luogo aprendo l’Ufficio postale gestito da persone di sua fiducia (la famiglia Ambrosini).
Il marchese Alfonso Malaspina stava anche progettando l’apertura, sempre a Caniparola, di una rivendita di “Sali e tabacchi”  e individuò in Cecchini la persona ideale per la gestione. Ovviamente la proposta fu accettata anche per l’aiuto che gli era garantito: i locali nel borgo antico con annessa la casa per abitare, il denaro per i rifornimenti, in più il vino della Fattoria, perché a Caniparola non poteva mancare l’osteria. Il tutto si rivelò subito un buon investimento con guadagni rapidi e costanti, tanto che nei primi anni del ‘900, Cecchini vendette la licenza per aprire un negozio di ferramenta a Ponte Isolone sull’Aurelia. Da lì sono nate altre attività commerciali, supportato da una grande famiglia unita non solo nel lavoro, ancora oggi molto attiva.
Ho iniziato con la storia delle miniere e della povertà dei minatori, finisco con quella di un uomo diventato, per poco, minatore per capriccio e necessità, perché, a dire il vero, era sempre proteso a trasformare i suoi sogni in realtà, sfruttando le sue non comuni capacità e lungimiranza.


  QUANDO SI DICE IL CASO!!!
di Marta


                                    

 

E’ un giovedì di luglio e alle 10 di mattina siamo già a 38°, ma nel weekend si prevedono anche 40°. Mi trovo a Marina di Carrara dove ho fatto la spesa con fatica e stanchezza, così, prima di raggiungere l’auto, decido di riposarmi un pochino. Nella vicina pineta intravedo una panchina dove due anziane persone stanno godendosi un po’ di frescura. Chiedo il permesso di sedermi e mi viene gentilmente accordato.
Si inizia a parlare del tempo, dell’afa, della pioggia che non arriva e dell’acqua che scarseggia nei torrenti e nei fiumi.  Mentre parlo del mio paese, del torrente Parmignola ormai in secca, il signore accanto mi chiede se sono di Ortonovo. Alla mia risposta affermativa, mi racconta di essere nato a Ortonovo da una famiglia del luogo e che suo padre si era trasferito a Marina di Carrara quando lui era molto piccolo. Quel signore alto e con una corporatura asciutta, occhi vivi, intelligenti, una bella parlantina, dimostrava una settantina d’anni. Con mia palese sorpresa mi disse di averne novanta!

E’ stato difficile credergli.

Mi raccontò in poco tempo le vicissitudini della sua vita. I tedeschi lo prelevarono nel 1943 durante la guerra, quando aveva solo sedici anni e lo portarono a lavorare nella Battilana a costruire la linea gotica.
Durante quel lavoro talvolta venivano attaccati dai partigiani, così gli misero in mano un fucile costringendolo a sparare contro i suoi stessi fratelli.
Per sua fortuna i tedeschi non s’accorsero mai che sparava in aria o fuori bersaglio, perché non avrebbe sparato mai contro un italiano.

Riuscì a scappare rischiando la morte sopra la “ca’ lunga”, ma saltando giù dai poggi se la cavò sebbene sotto una pioggia di fucilate.

Si ritrovò in quel di Pisa, dove conobbe la sua futura moglie. Anche lì la situazione era tutt’altro che tranquilla. Difatti, si vide morto, recitò le preghiere, perché i tedeschi sparavano sulla popolazione civile.

Vedendo cadere la gente, si gettò a terra fingendosi morto rimanendo con i morti per due giorni e due notti. Anche quella volta se la cavò.

Finalmente la guerra finì e, come tutti, si mise alla ricerca del lavoro.

In quel periodo tanti facevano domanda di lavoro in Svizzera dove assumevano lavoratori stranieri. La Brown Boveri, multinazionale di ingegneria, era tra le più attive, ma lui si rivolse alla società aerea Swissair e nel curriculum dichiarò di sapere parlare il tedesco, che aveva imparato durante il suo sequestro. La società aerea lo chiamò subito per un colloquio e lo assunse come meccanico.  Passò tutta la sua vita lavorativa “sopra le nuvole” con viaggi intercontinentali fino alla pensione (pensione percepita con tanto di interessi, ma la Svizzera va oltre, dà una pensione anche alla consorte).  I racconti di questi suoi viaggi sono di un bello!! E nello stesso tempo erano un po’ avventurosi e con tanto di imprevisti. Ha visto nascere anche un bambino ad alta quota.  Questo signore, quando parla di sé e delle sue avventure, possiede il dono sapere narrare così bene che è come se scorresse davanti ai nostri occhi un film a colori con una trama piena si suspense da premio Oscar. Il mio narratore è nativo di Ortonovo paese e si chiama Cesare Lorenzini. 

Durante il suo racconto gli ho chiesto di poter pubblicare la sua movimentata storia sul nostro giornalino interparrocchiale “Il Sentiero” come testimonianza di un ortonovese che, sebbene lontano da una vita dal paese natale,  conserva nitide le sue origini.

  Una preghiera per noi
di Paola G. Vitale



 

Cari amici, ero dalla Mila per un lavoro e lei mi ha suggerito: “Scrivi qualcosa per il Sentiero”.
Dopo il susseguirsi degli eventi parrocchiali, non ho saputo fare altro che leggere nel “Tesoretto Antoniano” ogni sequenza, invocazione e meditazione dello Spirito Santo. Poco dopo è tornata una serenità fattiva che ha rimesso tutto in moto. E allora, forza e avanti! Anche la lettura de “Il Sentiero” mi ha dato tanto. I vostri articoli sono perfetti e li ho letti tutti, anche quelli lunghissimi! Walter è con voi! Un pensiero grato anche per i “Servi di Maria” e la loro comunità che credo sia trascurato.
Allora, allora…. il cammino è tutto in salita e va preso, giorno per giorno, con don Alessandro che cerchiamo di comprendere e seguire, essendo lui, ora, la nostra speranza di far rimanere Gesù Eucarestia qua a Luni Mare. Ogni aiuto è importante per noi, e una preghiera ve la chiediamo davvero!
Grazie dell’ascolto e un pensiero grato per tutti voi!


 

P.S. Il mio impegno personale è quasi tutto circoscritto all’impegno in famiglia e nella preghiera.


  Ciao Papà
di Stefania.



Il mese di novembre è il mese in cui commemoriamo tutti i nostri cari che non sono più apparentemente con noi. Ma se noi siamo veramente cristiani sappiamo che non è così, un giorno ci rincontreremo tutti nella Gloria del Signore. Non è però così semplice, da poco papà hai raggiunto la mamma e un’amica cara, Patrizia, mi ha detto: “Quando mancano tutti e due ci sentiamo orfani”. È vero la mancanza di entrambi lascia un vuoto incolmabile.
Ciao Papà, prega per tutti noi e dai un bacio alla mamma.

Tua figlia Stefania.

  Morte e resurrezione
di Giuliana Rossini



In questo periodo che lega strettamente la morte fisica alla resurrezione, al cielo dove dimorano i Santi che sono in comunione con noi, ho avuto tra le mani, dono inaspettato, un delizioso libretto scritto dal dott. Giuseppe Cecchinelli: “Via Crucis per il mio paese”, letto in chiesa durante la quaresima di quest’anno. Devo dire che sono rimasta piacevolmente colpita da tanta poesia e tanta profondità.
I vari personaggi che vi compaiono, quasi tutti tipici di Nicola e tutti partiti per il paradiso, parlano in prima persona e rivivono un episodio della loro vita, spesso l’ultimo, come tanti Gesù agonizzanti. Si tratta di una via crucis attualizzata nel presente, un vangelo vivo, come potremmo viverlo tutti (se solo fossimo capaci di offrire i nostri dolori a Dio), illuminato dall’abbandono semplice, oserei dire quasi inconsapevole, ma fiducioso nell’amore del Padre.
Solo così è possibile, con uno sguardo rivolto al cielo e uno “verso il (sottostante) mare (sciogliere) le vele per fare la… volontà” di Dio quasi con gioia (Prologo, Gesù nell’orto degli ulivi).
Si tratta di sedici bozzetti (oltre le stazioni, un prologo e un epilogo) che racchiudono altrettante vite: quelle di sacerdoti, religiosi e religiose, ma anche del campanaro cieco del paese, del calzolaio, il barbiere, familiari dell’autore, madri che hanno perduto il figlio (ciò che di più caro avevano), giovani privati dell’uso delle gambe che “sono andati a correre sopra le nuvole” (Terza stazione, Gesù cade per la prima volta).
Tutti hanno pronunciato il loro “fiat” con dolore, sì, chiedendo, come Gesù nel Getsemani, l’allontanamento del calice, se fosse possibile, ma affidandosi poi, come Lui, pieni di speranza alle braccia del Padre. “Così me ne sono andato quasi senza paura, triste per quelli lasciati, ma nella pace per tanti ritrovati nella gioia del Signore.” (Epilogo. Il sepolcro vuoto).
A fianco, il brano relativo del Vangelo. Poche righe, ma intensissime, sulle quali si potrebbe e si dovrebbe riflettere e meditare a lungo, specchiandoci nel dolore di Gesù, facendo nostro il suo abbandono (“Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” Mc. 15,34), ma anche il glorioso ricongiungimento al Padre (“Nelle tue mani rimetto il mio spirito” Lc. 23,46).
Un grande insegnamento per me, un sostegno per affrontare le prove della vita con lo sguardo fisso sulla Pasqua che annuncia “che la morte è vita per sempre nel trionfo della Tua misericordia”. (Dodicesima stazione. Gesù muore sulla croce).
Mi piacerebbe che molti potessero leggere questo piccolo capolavoro perché, oltre che una pennellata densa e penetrante su una realtà di paese oggi scomparso e quindi un forte richiamo alla memoria, è anche un valido aiuto per vivere le difficoltà che l’esistenza ci presenta con più leggerezza, certi che Dio ci ama immensamente e, se permette il nostro dolore e le nostre tribolazioni, è perché possiamo realizzare il meraviglioso disegno di Dio che Egli ha su ciascuno di noi.
Grazie doc., rimaniamo in attesa di altri doni così luminosi!!


  Chi non ha avuto almeno un po’ di paura nella vita
di Aurora Giacchero



La paura è un sentimento che abbiamo sperimentato già dalla prima infanzia senza nemmeno saperlo. L’infante ha paura di perdere la mamma, poi, quando si comincia a strutturare la consapevolezza di sé come individuo separato da “lei” ha avuto paura di essere abbandonato a se stesso, di perdere tutto quell’insieme di cure a cui i suoi familiari lo hanno abituato e questa paura genera un’ansia che si traduce nel bisogno di compiacere chi si ama per essere, a propria volta, adeguatamente amato ed accudito. Crescendo poi abbiamo acquisito la consapevolezza della paura come tale: paura di essere interrogati quando si sa di non aver studiato a sufficienza ed allora via a nascondersi dietro alla schiena del compagno del banco davanti o peggio a spingere all’interrogazione, a cui ci si vuole sottrarre, qualche compagno più ingenuo o più studioso.
Ecco così nascere nuovi sentimenti:   1) quello della sottrazione al proprio dovere,    2) quello di  farsi paladini o delatori delle azioni altrui (ma di questo potremo parlare in prossime occasioni).
Certamente in quelle occasioni la paura  ci ha paralizzato e non ha sicuramente reso più brillanti le nostre performance. Già! Perché la paura è un sentimento paralizzante che sbarazza la mente dalla consapevolezza di tutto ciò che si sa per fare posto solo a sé stesso.
Nel corso della vita adulta quante altre volte abbiamo avuto paura: paura a prentarsi ad un concorso per un posto di lavoro, paura  nell’intraprendere una attività nuova, paura che ci accadano eventi incontrollabili come il terremoto, i nubifragi ecc., paura a presentarsi in un ufficio amministrativo se convocati, paura di un vicino di casa aggressivo e quanti altri esempi ognuno di noi potrebbe aggiungere.
Allora a questo punto ci verrebbe da pensare che la paura sia predominante su ogni aspetto della nostra quotidianità e ci paralizzi al punto da rendere le nostre azioni meno agili ed appropriate e la nostra mente ottenebrata.
Certo tutto ciò è in parte vero se, una volta raggiunta l’età della consapevolezza, ci facessimo vincere da questo sentimento senza trasformare la sua potenzialità ansiogena e paralizzante in un nuovo modo di agire caratterizzato  invece dal desiderio di mostrare ciò che si sa fare, insomma il nostro lato migliore, mostrando così agli altri la nostra capacità di navigare nel mare della vita anche in acque tempestose, ed a noi stessi il piacevole stupore del riconoscimento delle nostre migliori qualità; forse anche quelle di cui non avevamo nemmeno consapevolezza completa evocando pertanto quel bellissimo sentimento di autostima che, se ben utilizzato, può fare di ciascuno di noi un uomo adulto, consapevole, sereno e realizzato.
Da qui vediamo bene quali altri modi di sentire abbiamo evocato, ma di questi parleremo un’altra volta.

  Il 24 ottobre 2014 ci lasciava Doretto
di La Redazione


Il 24 ottobre 2014 ci lasciava Doretto

In suo ricordo riportiamo uno stralcio di un suo dialogo con l’amico Turnea

 

...Verso mezzogiorno arriva la postina. C’è una lettera per me, viene da Roma. Capisco subito: è lui! La apro e il mio cuore spezzato ha un sussulto di gioia, quella gioia che può venire solo da Lui, che è Amore infinito.
E’ Turnea che risponde alla mia che gli avevo spedito giorni fa. La leggo e… mi metto a piangere! Ecco la prova che Dio mi ama. Si è servito della mano di un operaio della Sua vigna per farmelo sapere.
La leggo, la rileggo. E’ scritta proprio a me, l’ultimo degli ultimi focolarini sulla terra.
E mi dice che Dio mi ama come mi ha sempre amato; mi dice di vivere bene l’attimo presente; mi dice dell’Amore di Dio che riempie ogni vuoto; mi dice che sono partecipe dei doni di Gesù in mezzo “a coloro che sono uniti nel suo nome”.

Grazie Turnea!

  AVO
di La Redazione


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