N° 2 - Febbraio 2009
Storie dei lettori
  La famiglia
di Antonio Ratti


VI  INCONTRO  MONDIALE  DELLE FAMIGLIE.
" La famiglia formatrice di valori umani e cristiani "

Il cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, il 15 gennaio ha aperto a Città del Messico, presso l’avveniristico complesso dell’Expo Bancomer, davanti a migliaia di famiglie, di delegati, di rappresentanti dell’associazionismo di 108 Paesi, il VI Incontro Mondiale delle Famiglie.
Nel suo intervento il cardinale ha ricordato il senso di questi Incontri Mondiali inaugurati da Giovanni Paolo II nel 1994 ed ha evidenziato il vivo interesse verso la manifestazione messicana di Benedetto XVI che ha inviato un video messaggio e domenica 18 ha partecipato in diretta alla celebrazione eucaristica di chiusura sulla spianata davanti alla Basilica di N. Signora di Guadalupe.
Fondamentale è il ruolo della famiglia nell’educazione e nella crescita corretta delle nuove generazioni.
Da sempre per la Chiesa la famiglia consiste in una “comunità stabile di vita e di amore, che armonizza nella comunione le differenze costitutive dell’essere umano: la differenza di sesso, uomo-donna, e la differenza di generazioni, genitori-figli”.
La famiglia è formatrice di valori umani, non solo cristiani. Se la famiglia è “formatrice ai valori” diventa educatrice, in quanto “educare i figli è diritto-dovere originale e primario, insostituibile e inalienabile” anche nella società civile.
“Se vengono meno le certezze essenziali”, cioè i ruoli e le competenze all’interno del nucleo familiare, diventa difficile trasmettere da una generazione all’altra “regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita.”
In queste condizioni diventa difficile vivere e cresce il malessere esistenziale e sociale.
Allora il bisogno di certezze e di valori che danno un senso compiuto al vivere”torna a farsi sentire in modo impellente: così, in concreto, aumenta oggi la domanda di un’educazione che sia davvero tale.
La chiedono i genitori, la chiedono tanti insegnanti, la chiede la società civile, lo chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani.”
Ma allora come uscire dall’”emergenza educativa” e dalla “frattura tra le generazioni”, dovute al diffuso relativismo che insinua dubbi riguardo al vero bene e alla verità? Questa è la sfida che i cristiani hanno davanti.
Lo strumento consiste nel testimoniare con la forza dell’esempio concreto le opportunità di elevazione sociale e morale che ne deriverebbero se la famiglia fosse ritenuta dalla società civile, sempre e comunque, un bene primario da salvaguardare.
Nell’intervento conclusivo il card.Tarcisio Bertone, inviato speciale del Papa,ha ribadito con espressioni efficaci il ruolo della famiglia intesa come scuola di pace.
“La famiglia è vocazione originale e patrimonio dell’umanità.
E’ misura della sua qualità etica. E’ primo motore del diritto pubblico.
Quando una società perde di vista il bene della famiglia e smette di riservare le sue migliori energie per difenderla, promuoverla e sostenerla, va incontro a un declino inevitabile.
Anzi, rischia un vero e proprio suicidio.”
“La storia assicura che il tesoro di bene portato in ogni epoca dalla famiglia alla società e alla Chiesa è stato fondamentale.
Oggi però assistiamo a una cultura impregnata di nichilismo, di individualismo esasperato, di utilitarismo che rischia di minare le basi della famiglia.
Dobbiamo arginare questa deriva perché non c’è male più preoccupante di una famiglia indebolita e incapace di svolgere al meglio i propri compiti.
Solo la famiglia è garanzia di stabilità e coesione sociale, solo la famiglia svolge preziose funzioni di ammortizzatore sociale laddove il pubblico non è in grado di intervenire, solo la famiglia assicura quel grado di moralità pubblica che è garanzia di vita buona per tutti.”
Ma attenzione, “non si possono mettere sullo stesso piano la famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza.
La presenza in uno stesso nucleo familiare dell’uomo e della donna, che sono allo stesso tempo padre e madre, costituiscono il fondamento unico della famiglia.”
Richiamandosi al tema del VI Incontro mondiale, il card. Bertone si è soffermato sull’impegno educativo specifico ed insostituibile dei genitori. “In famiglia si imparano la giustizia e la pace delle piccole cose, si imparano gesti e atteggiamenti che si costruiscono con semplicità giorno dopo giorno.
Ma senza questa scuola di vita nessuno sarebbe in grado di trasferire poi questi valori sul piano sociale. Ecco perché solo la famiglia è costruzione paradigmatica ( modello ) di giustizia e di pace, cioè di carità e di amore.”    
Come concretizzare questi insegnamenti nella vita di tutti i giorni? “Spesso la Chiesa non riesce a convincere giovani e famiglie di quanta forza interiore per sé e per gli altri ci possa essere in un legame di fedeltà.
Inoltre la famiglia porta alla società molto di più  di quanto possano fare i suoi singoli membri, perché l’amore amplia le energie e moltiplica gli effetti del bene.” 
Conclude: “L’esame di coscienza non devono farlo solo le gerarchie, ma anche i laici, i movimenti familiari, chi da tanti anni lavora con le famiglie”, cioè, è la testimonianza dell’esempio che deve farsi lievito missionario  per una seria riflessione. 
Quale commento è possibile aggiungere, se non invitare a ponderare a fondo  prima di mettere a rischio la stabilità di una famiglia o  progettarne una instabile e fragile?
                                                                                                      Antonio Ratti                  

  Come eravamo
di Cervi Annamaria


COME ERAVAMO

        

         Presso il Circolo Culturale -“Almo Cervia”, a Nicola, viene allestita una mostra dal titolo: “Come eravamo”.

         Chi vuole, può affidarci, entro il 7 febbraio,  per il periodo della mostra (14 febbraio - 1° marzo),  oggetti, fotografie, indumenti, abiti, giochi e altro materiale (tutto verrà catalogato e tenuto con cura).

 

Telefonare ad Anna (0187/660445) o al 333/8400519.

 

  Alla ricerca di Arduino
di Marta


 

Era l’anno 1944, in piena seconda guerra mondiale nella nostra zona: c’è la famosa Linea Gotica, c’è il fronte, le città limitrofe vengono bombardate e la gente scappa.
A Casano, Armando stava rigovernando le bestie nella stalla, metteva il foraggio e da bere un po’ alla svelta perché, benché fosse agosto. Minacciava un temporale coi fiocchi.
Tra lampi e tuoni Armando si prodigava con premura ed ecco che gli appare una famigliola: babbo, mamma e una piccola bimba di cinque o sei anni. “Per carità, buon uomo, abbiamo camminato tanto a piedi e siamo stanchi; siamo scappati dalle cannonate e cerchiamo un riparo per la notte anche a causa di questo tempo”.
“O buona gente, io non ho camere perché la mia dimora è assai modesta, e…”.
“A noi basta anche solo la stalla…”.
“La stalla? Ma c’è la Bigia, la mucca e la Teresina, l’asina...Però c’è il fienile che rimane pulito ed asciutto…”.
“Grazie, grazie, ci sta benone”.
Armando chiamò la Gina, sua moglie, che ristorò la famiglia con quel poco che aveva e li rifornì di coperte e lenzuola.
I giorni passavano e questa famigliola ringraziava sempre per tanta carità, anche perché durante quei giorni, sia all’ora del pranzo che della cena,  la piccolina sentendo il profumo del cibo, e per la fame, metteva il visino tra l’uscio spalancando gli occhi e, con candore proprio dell’infanzia, soleva dire: “Pio piatto meee?” (Prendo il piatto io?).
La Gina aveva un cuore generoso e di buon grado divideva il suo desinare con questa famiglia anche perché la donna era incinta e quasi al termine della gravidanza.
Una notte la piccolina bussò alla porta della Gina: “Presto, presto, la mia mamma sta male!”.
La Gina subito pensò che erano le doglie del parto e disse:”Sono le doglie, vero? Ma non vorrete mica partorirlo qua, in una stalla proprio come Gesù Bambino?”.
E fu così che la Gina accompagnò la donna nel letto del figlio Arduino che era andato con i partigiani.
Nacque un  bel bambino, forte e sano, che col suo vagito reclamava il diritto alla vita.
Il bimbo lo chiamarono Arduino.   
Gli anni passarono e la Gina chiedeva spesso notizie di quella famiglia sfollata nel suo fienile.
Pensava: “Chissà come sarà cresciuto Arduino...E sua sorella sarà sposata?…”.
Fabrizio è un appassionato di ciclismo e da tanti anni fa l’allenatore dei piccoli ciclisti.
Uno di questi parlava sempre a Fabrizio di suo nonno:”Mio nonno qui, mio nonno là…”.
Senti un po’, gli disse un giorno, qualche volta ti porto a Casano  per farti conoscere un altro nonno: è mio padre, e si chiama anche lui Arduino, non ce ne sono tanti di Arduino, vero?” “E, no”, rispose il bimbo, anche mio nonno si chiama Arduino ed è nato a Casano, in tempo di guerra”.
Se è vero che nella vita tutto ritorna alla terza generazione, il cerchio si chiude.
Chissà come sarebbe stata contenta la Gina se fosse ancora                                                                                                                    Marta

  Noi e la neve
di Carlo Lorenzini


 

 E ancora pensieri. Pensieri lontani. Per esempio, pensieri a proposito della neve…

Generalmente la neve fa parte dei ricordi dell’infanzia. Per me non è così.

Data la rarità delle nevicate negli inverni del mio paese d’origine, in Liguria.

Semmai, in quegli inverni liguri (nicolesi), gelate e piogge e temporali e tempeste di vento.

Ma quasi mai la neve.

Della neve della mia infanzia, dunque, ho ricordi labili ed evanescenti.

Non più che un esile e candido tappeto, deserto e silenzioso, a ricoprire, raro e fragile, i tetti delle case del paese, gli uliveti e i boschi di querce e di castagni, giù per la collina.

Di un’altra neve invece ho vivo il ricordo.

La neve, frequente negli inverni, abbondante e di lunga durata, qui a Montepulciano, negli anni Sessanta.

Ricopriva, altissima, tetti, vie, strade, viottoli, camminamenti, campagna.

Pesava, inerte e ostinata, sugli alberi, piegandoli, abbattendoli, rompendoli, straziandoli.

Noi eravamo giovani insegnanti, allora, appena sposati; Rita, la nostra unica figlia, ancora nella fantasia.

Abitavamo in campagna, a mezza collina.

E durante queste nevicate, andavamo a scuola a piedi, su per la ripida salita del Cimitero vecchio, fino alla Fortezza, sede del nostro Liceo.

Assieme.

Tenendoci, a volte, per mano.

In mezzo a quel deserto tutto bianco.

Accompagnati da quegli alti cipressi, che da due lati costeggiavano la via e che piegavano sgomenti le loro cime sotto il pesante carico.

Del cimitero lì, lungo il cammino, quasi più nessuna traccia.

Non il rumore delle corriere, delle automobili.

Neve e silenzio.

E, andando, ogni tanto mi diceva: “Sono stanca, fermiamoci un momento”.

E ci fermavamo, a guardare intorno, anelanti, le cose, le piante, ingoiate subito poco lontano dalla lattiginosa nebbiosità dell’aria.

E ogni tanto lei guardava me, le guance rosse e il naso rosso.

Incappucciata, insciarpata, incappottata, inguantata.

Scoperti aveva solo il riso della bocca e il rosso candore di tutto il viso.

Scoperto aveva solo il cuore, che splendeva nello scintillio degli occhi, mentre mi guardava.

Ma sotto quel cappuccio c’erano i suoi capelli lunghi e biondi; nascosto da quella sciarpa il suo collo candido ed esile e il suo seno di donna giovane, che palpitava pieno; protette da quei guanti le sue mani, lunghe e mobili, mani già di moglie e di amante; e sotto quel cappotto, il suo corpo, quasi ancora di ragazza…
Poi si riprendeva la via verso il Liceo, verso il fervore e l’appassionata avventura delle lezioni.

E dopo, il ritorno da scuola: per la stessa via, sulla stessa neve, in discesa, veloci, impazienti di arrivare…

Il caldo e l’accoglienza della nostra casa.

Il silenzio.

La solitudine.

La breve e febbrile preparazione del pranzo.

Il continuo reciproco parlare sulle esperienze, le cose e le persone della mattinata.

Il reciproco e continuo guardarci, con nel cuore e nei sensi pensieri espressi e pensieri nascosti.

Il pranzo.

I cibi, il vino.

I cibi forti e il vino forte di Montepulciano, a cui non eravamo ancora del tutto abituati.

Il breve riposo, dopo il pranzo.

E poi, il lungo pomeriggio in casa, soli.

E, fuori, la neve.

La vedevamo cadere attraverso la finestra che dava sulla campagna.

Cadeva in silenzio, ostinata, lungo l’immobilità biancastra di un cielo denso e compatto, che andava rapidamente verso il crepuscolo del tramonto e il buio della notte.

Carlo Lorenzini

(dal libro ‘L’estate di dicembre’)

               

 

 

 

 

  Un grande poeta
di Romano Parodi


UN  GRANDE  POETA

“Chi sei tu, verme della terra, per sapere cosa è la giustizia?” Così, fra Cristoforo, apostrofa il povero Renzo, che minaccia di farsi giustizia da solo.    
Nel rileggere per la seconda volta i “Promessi Sposi” questo rimprovero mi è sembrato esagerato e fuori luogo; ma ecco che, domenica 7 ottobre, Davide Rondoni ne fa uno stupendo editoriale su “Avvenire”.
Quell’articolo mi ricorda una lettera di Papa Wojtyla che chiedeva di fare del perdono un dogma di fede.
“Chi è uno che si vuole fare giustizia da sé, se non un fantoccio d’uomo?”, dice Davide Rondoni.
Tutto ciò che scrive il Rondoni è straordinario.
Già alcuni mesi or sono sul “Sentiero” abbiamo pubblicato un suo articolo dal titolo: “Dio è un grande racconto, non un dialogo”.
Già nel titolo vi è una profonda, poetica religiosità.
Ma per una strana “premonizione” già da tempo avevo preparato queste poche righe su un suo libro di poesie intitolato “Avrebbe amato chiunque”, poesie che continuamente ho sotto gli occhi e non riesco ad archiviare per passare ad altro.
Si dice, e sarà pur vero, che la poesia non rende, nessuno compra un libro di poesie: anche a me questo libretto è stato regalato.
In Italia il declino della poesia è dovuto al fatto che quelli che sono considerati i nostri maggiori poeti contemporanei sono poco comprensibili, ma non c’è dubbio che Davide Rondoni è un grande poeta del nostro tempo.
Fin dai primi versi il punto focale delle sue liriche è l’amore-coraggio. Focalizza racconti di vita realmente accaduti con una struggente ricerca della verità.
Il caso della madre che getta il figlio di dieci anni dalla finestra del quarto piano avvolto in una coperta, avvenuto a Milano nel ’99, per un estremo tentativo di salvarlo dalle fiamme: lui lo raccoglie e lo affronta.
“Cosa c’era la fuori, o che cielo in quel vuoto”, un cielo diventato braccia pronte a raccoglierlo, il suo bimbo.
E’ un amore-delitto quello di Giovanni, pensionato di 61 anni che uccise con due colpi in testa, nel sonno, il proprio figlio che voleva fare il ballerino ed ora una grave malattia lo sta’ uccidendo.
Il poeta non vede il delitto, ma vede lì, nel traffico di porta Romana, aggirarsi uno sconosciuto: è colui che ha tenuto sulle ginocchia il ragazzo mentre il padre gli sparava appoggiandogli la canna della pistola sulla tempia; “che era stata del suo bambino, tenera, baciata mille volte, una foglia posata sul battere lieve del sangue”.
Chi è quello sconosciuto? La domanda è simile a quella sul vuoto-cielo a cui la madre consegna il figlio. E’ Dio.
“Dio attraversa la strada, lo vedo uscire dal portone, sta ancora piangendo mentre inizia il coro a due voci del giorno”.
Perché l’amore può andare anche dalla “parte sbagliata” nella sua foga di salvare chi amiamo, oltre noi, oltre la vita e il visibile, nella città in fiamme, nel fumo che acceca e stordisce.
E’ una persona vera anche Irene, una ragazzina di tredici anni che si uccise buttandosi dalla finestra di casa  nell’anniversario del suicidio di una famosa rock star, Kurt Cobain.
Il poeta attacca il vuoto della cultura mediatica in cui tutti galleggiamo ridotti a sterco.
“Pagherete per Irene…”, dice a chi non sa più che cosa è domandare.
Perché il segreto che è chiuso nell’essere, nella persona, deve essere domandato.  
La poesia, il pensiero, la nostra stessa libertà, la nostra essenza di uomini, ci dice Davide Rondoni in “Avrebbe amato chiunque”, è nel dialogo con i nostri simili.
“ Voler bene a uno, a mille, a tutti è come tener la mappa nel vento.
Non ci si riesce, ma il cuore me l’hanno messo al centro del petto per questo, alto, meraviglioso fallimento”.                                                                     
                                                                                                         Romano Parodi.

  Il creatore di statuine di legno
di Roberto Bologna


IL CREATORE DI STATUINE DI LEGNO
   
Questo racconto dell’amico Roberto Bologna è stato pubblicato su  “La Nazione” il 14 agosto 2008. 
Tra i moltissimi arrivati alla Redazione del quotidiano è stato scelto questo, più un altro che pubblicheremo prossimamente.

Cara e dolce Lubiana, oggi nel tempio di Gerusalemme c’è stato il caos totale.
All’improvviso è arrivato un tale, si dice da Nazareth, con al seguito una dozzina di uomini, che ci ha mandati tutti via. Urlava come un pazzo, diceva che noi mercanti non avevamo il diritto di stare lì, che quello era un luogo sacro e non era adatto per vendere le nostre mercanzie.
La mia delusione è stata grande.
Mia cara, tu sai bene come già i miei occhi non possono vedere, ma ti assicuro che in quei momenti è stato come se anche sulle ultime speranze di concludere qualche buon affare fosse calato il buio più profondo.
Così ho raccolto le mie povere cianfrusaglie e mi sono fatto accompagnare al palazzo reale dove ho chiesto udienza  al nostro re, Erode; ma dopo ore di attesa mi è stato detto che un re non può conferire udienza ad un pezzente, peraltro cieco.
Il nostro re è un pessimo sovrano; come può governare bene un popolo colui che non consente di far udir giustizia a colui che per sua disgrazia non può neppure vederla?.
Disperato, ho cominciato a maledire quella persona che mi aveva scacciato dal tempio, che, si dice in giro, sia figlio anch’esso, come me, di un falegname.
Poi, d’improvviso, ho sentito dei passi avvicinarsi; chi mi stava accanto mi ha avvisato: “Stai attento! E’ lui!
Stai all’erta! E’ quello che ti ha scacciato dal tempio! E’ il nazareno! Ti ha seguito! Sta venendo verso di te!”.
D’istinto, pieno di rabbia, gli ho gettato il bastone addosso, come per colpirlo.
Ma il tentativo è andato a vuoto; poi l’ho sentito poco più in là mentre lo raccoglieva e lo spezzava in più parti, per poi gettarlo lontano da me.  Ho sentito i suoi passi che si facevano sempre più vicini.
Ho poi sentito le sue mani sporche  di fango sulla mia fronte e la sua voce decisa che mi ordinava di alzarmi e di aprire gli occhi.
Ho obbedito e subito dopo l’ho visto e da quel momento ho ricominciato a vivere!
Cara e dolce Lubiana, finalmente, presto, tornerò a casa da te e potrò vedere quel viso i cui lineamenti sono già da tempo scolpiti nel mio cuore. Finalmente i miei occhi potranno affogare nei tuoi ed i miei iridi potranno dilatarsi di emozioni alla luce dei tuoi raggi e inumidirsi tanto da sfuocarsi in una miopia di sola felicità.
Domenica prossima festeggerò con te la più bella Pasqua della mia vita.
Mentre tutto questo accadeva e mentre tutti gridavano al miracolo, solo uno, fra i dodici compagni di colui che mi aveva guarito, sembrava rattristato di quanto accadutomi.
Se ne stava in fondo al gruppo e scuoteva la testa come in segno di disapprovazione; così gli ho chiesto: “Giuda, perché scuoti la testa? Io ero stato tradito dalla vita e la luce del tuo maestro me ne ha ridata una nuova!.
Giuda, la luce sconfigge sempre ogni tradimento! Ogni tradimento finisce sempre nell’ombra!.
Non c’è denaro che valga la luce!”.
 Ma lui, alle mie parole, si è incupito ancora di più come se il suo cuore fosse improvvisamente sprofondato nell’oscurità assoluta.    
Certa gente nasce per aprire gli occhi agli altri; altri invece per chiuderli per sempre; altri ancora, ma sono in pochi, per accendere il buio che è dentro di noi.
Cara e dolce Lubiana, non vi è dubbio che la luce che c’è in te e che mi hai trasmesso ogni giorno, in realtà, ha fatto sì che non mi sentissi mai completamente cieco!
Il tuo creatore di statuine di legno, Samuele Kaleb.                                                                                    

                                                                     Roberto Bologna

  Lettera dal Brasile
di Pietra Fioravanti e Margherita Giannetti


Lettera dal Brasile

Pietra Fioravanti e Margherita Giannetti

Da dieci anni ci riuniamo, qui in questa città di Belo Horizonte, per onorare Fioravanti, Margherita e i loro 8 figli, tutti scomparsi.
Ogni anno li ricordiamo e li commemoriamo.
Ricordiamo quella giovane coppia con una bimba piccola di 4 anni (la Leonice) che partì, dopo esperienze dolorose, da Ortonovo nel lontano 1886 alla ricerca di una nuova vita in America.
In questa città, allora una semplice favelas piena di capanne, hanno trovato lavoro, rispetto e un buon clima.
Una terra che piano piano cominciava a dare i suoi frutti, niente inverni freddi e niente estati afose.
Dicevano che avrebbero trovato l’oro e che sarebbero tornati ad Ortonovo ricchi e felici, ma niente di questo che loro non credevano neppure.  All’inizio la vita è stata dura: lingua sconosciuta, gente con cultura diversa, cibo diverso, la frutta non aveva il solito sapore e nessuno sapeva cucinare gli spaghetti.
Ma il tempo li aiutò, e tutto questo, ora, è il nostro pane quotidiano.
Fioravanti è un giovane coraggioso, anarchico sempre, che predicava un mondo più giusto, con meno repressione, meno miseria.
Diventò un grande impresario edile, e tutti volevano andare a lavorare con lui perché aveva un grande rispetto per tutti i suoi operai.
Egli lavorò tanto - oggi è citato come uno dei fondatori della città -, guadagnò tanti soldi ma non divenne mai ricco.
Perché essere ricco non era il suo obbiettivo.
Coerente con le sue idee anarchiche, voleva solo la sua parte di lavoro nonostante potesse averne molto di più.
Il suo desiderio - come diceva spesso - era che una volta morto, voleva essere sepolto sotto sette palmi di terra.
Questa era la sua filosofia.
Margherita (la Margò) è stata una ottima compagna, sempre contenta del suo avere, attentissima ai figli, cuoca bravissima.
Nessuno cucinava come lei il pane e gli spaghetti.
E’  morta presto, aveva 63 anni, lasciando una famiglia numerosa ed un grande vuoto in tutti noi.
Fioravanti aveva un modo tutto suo.
Era lui che sceglieva il nome da dare ai suoi figli.
Oggi so’ che erano i tipici nomi ortonovesi e così li chiamava: Leonì, Alcè, Gilbè, Dirce, Efigè, G’iacò, Carò, Vilma.
I figli non conoscevano nemmeno il loro nome di battesimo, lo scoprivano quando dovevano sposarsi.
G’iacò rischiò la galera perché non aveva risposto alla chiamata militare, non sapendo che si chiamava Narcisio.
Oggi i discendenti di Fioravanti e Margherita sono molto numerosi in questa città popolosa, la terza del Brasile, dove nessuno conosce nessuno. Vista dall’alto, un’estensione di “grattacieli” impressionante.
Oggi sono i nipoti e pronipoti a raccontare  questa storia italiana e ogni giorno ricordiamo con tanto affetto i nostri antenati.
Belo Horizonte è una città che ospitò tantissimi italiani, una città che festeggiò il proprio centenario nel 1996, cento anni esatti dopo l’arrivo di Fioravanti.
Ha circa 4 milioni di abitanti (comprese le favelas) e continua a crescere a ritmo vertiginoso.
Anche qui la vita è cambiata ma noi, i Pietra, siamo rimasti sempre gli stessi: gente buona, affettuosa, attaccati gli uni agli altri, con abitudini italiane; buona pasta, un buon vino, il pane fatto in casa e soprattutto, cosa che ci distingue moltissimo dagli altri, con un tono di voce alto, come usano gli ortonovesi, dice Romano.
Caro Romano, perdonami se ti scrivo in portoghese.
In Italiano farei troppa fatica. 
Un abbraccio a tutti i miei numerosi parenti ortonovesi, Pietra e Giannetti, e a tutti i lettori del “Sentiero”.

P.S. Vorrei mantenere il contatto con Massimo Marcesini: potrei avere il suo indirizzo?

                                                                                     Jacy Pietra   

  Diario di un parrocchiano
di Giuseppe Franciosi


DAL “DIARIO” DI UN PARROCCHIANO DI CASANO-SAN GIUSEPPE



Giovedì, 8.01.09
    
Questa sera, alle ore 21, ci siamo riuniti nella chiesa di Santa Maria Ausiliatrice, a Isola, per il tradizionale incontro di preghiera per le vocazioni. Mi piace ricordare che nel seminario di Sarzana, ormai da molto tempo, il 1° giovedì del mese c’è un altro incontro di preghiera per le vocazioni.
A me dispiace non partecipare, ma da quando la Giulia è andata in Paradiso a preparare un posto anche per me, io non partecipo più a incontri che si organizzano fuori parrocchia, fuori Comune.
Qualcuno della nostra parrocchia ci va e fa molto bene perché di vocazioni c’è un grande bisogno.
Tutte le mattine ascolto la rassegna stampa che padre Livio fa a “Radio Maria”e sento che in lui c’è tanta preoccupazione.
Per i cristiani, per i cattolici sono tempi duri; le cose non vanno bene e occorre che tutti ci impegniamo se vogliamo che in futuro le cose vadano meglio.
Padre Livio fa spesso riferimento ai messaggi che la Madonna - il 25 di ogni mese - ci invia attraverso le veggenti di Medjugorie.  
La Madonna chiede preghiere, tante preghiere e quindi ogni incontro di preghiera va seguito, incoraggiato.
Stasera, come il mese scorso, ho raggiunto la chiesa dove era previsto l’incontro di preghiera con l’auto di Padre Onildo.
Alle 20,45 lui si trova davanti a casa mia, io salgo e partiamo per la chiesa che ci attende.
I viaggi sono brevi eppure sono interessanti: parliamo della nostra parrocchia, delle altre parrocchie, emergono tante cose positive, ma a volte anche altre non del tutto positive.
Don Andrea,alla fine dell’incontro di preghiera, ha fatto alcune riflessioni.
Ha detto che noi partecipanti all’incontro mensile eravamo parecchi, ma quanti invece sono rimasti a casa, non hanno partecipato?
Nella chiesa di Isola, tutte le volte che partecipo a qualche incontro, ascolto brani musicali che nelle altre chiese non ascolto.
Non so di chi sia il merito, ma certamente a dirigere c’è qualcuno. Ci sa fare e fa: bravo!     
All’organo mi pare che si alternino in tre: non credo che nelle altre parrocchie ci sia tanta abbondanza di organisti!
Nel foglio che ci è stato consegnato per seguire con profitto tutta l’ora di adorazione, c’è un brano (il primo) di Madre Teresa: si parla del silenzio: “Se ti metti davanti a Dio in preghiera e in silenzio, Dio sicuramente ti parlerà”.
“Le anime di preghiera sono anime di profondo silenzio”… “Dobbiamo abituarci al silenzio dello spirito, degli occhi e della lingua”.
Qualche settimana fa, a mezzanotte, mentre seguivo la trasmissione di “Radio Maria”, mi ha colpito quello che diceva un sacerdote a chi si collegava con lui, sull’importanza, sul valore del “silenzio”.
Durante la giornata cerchiamo anche noi di creare il silenzio intorno a noi.

                                   Giuseppe Franciosi

  Incontri
di Don Mario Scarpato


    

INCONTRI




Ho incontrato la “giustizia”.
Stanca, magra,
vestita male.
Ho incontrato il “Potere”.
Unito in matrimonio indissolubile
con la “Sopraffazione”.
Stavano bene insieme;
una coppia ideale.
Ho incontrato
i poveri;
camminavano a piedi.
Ho incontrato un corteo.
È povertà non avere
la certezza del domani.
Ma il “Potere” e la “Sopraffazione”
non divorzieranno mai.
Ho incontrato il “Profitto”.
Figlio legittimo dei coniugi di cui sopra.
È nato presto
e continua a vivere.
Non ho incontrato l’”Amore”.
Il mio era un vano cercare.
Alla porta del Cimitero
mi dissero che era morto.
Sepolto in un loculo.
Ventennale? Sessantennale?
No.  Perpetuo.
Poi incontrai Te, o Signore.
Sempre nato in una stalla,
sempre senza camera d’albergo.
I poveri danno noia.
Rendono inquieta la vita.
E Tu,  povero , non riposi
e non fai riposare.
E  Ti ho incontrato
perché sei la povera gente
inchiodata.
Non ci lasciare soli
con il nostro odio,
il nostro egoismo,
la nostra rabbia.
Togli le ragnatele
dalle finestre
perché Ti possiamo vedere.
Senza ragnatele ai vetri
Ti ho visto, Signore;
Buon Natale
anche per la stalla e la croce.
So che sei crocifisso da sempre;
e la colpa è nostra.
Amen.

                                  Don Mario Scarpato

                                Parroco a Fossamastra

 

Il buon don Mario espresse con questi versi amari la  sofferenza e la partecipazione al dramma  dei suoi parrocchiani.
Siamo sul finire del 1974 e lo ‘jutificio’, la più grossa fabbrica privata della Spezia (un migliaio di persone tra dipendenti e indotto), appartenente alla Montedison, entra in crisi.
Alla chetichella, durante le ferie estive, parte dei telai vengono smontati e spediti in India da dove proveniva la juta.
Era più economico e profittevole cominciare a produrre dove  le regole e l’etica erano, e forse lo sono ancora, valori introvabili.
Anche qui da noi non è che le condizioni, in concreto, siano migliori.
Passano gli anni, cambiano  i protagonisti, ma il procedere è sempre lo stesso.
Oggi tocca alla San Giorgio.
E non finisce qui.
Il pane quotidiano non è ancora un diritto riconosciuto e tutelato nemmeno nei, così detti, Paesi di solida democrazia.
Troppo spesso è ritenuto solo un costo a bilancio.
E i costi incidono sui profitti che non possono che crescere, non importa come.  
Il mediatico progresso è veramente tale?



 

 

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