N° 2 - Febbraio 2019
Storie dei lettori
  Vinicio è salito al cielo
di Enzo Mazzini


È grande la commozione che pervade i numerosissimi fedeli che sono corsi da Ortonovo, da Sarzana e da tutta la piana di Luni, e non solo, per dare l'estremo saluto ad un insigne concittadino: il Prof. Vinicio Serri.
La maestosa Cattedrale di S. Maria Assunta di Sarzana è veramente  stracolma di fedeli, pervasi da una profonda commozione.
Vinicio, come lo chiamiamo noi di Ortonovo, era veramente stimato ed amato da tutti e non avrebbe potuto essere diversamente: lui che ha donato tutto sé stesso per l'insegnamento e l'educazione dei giovani e non giovani.
Formatosi nella sua amata Ortonovo, crescendo in un ambiente caratterizzato dalla cultura Orionina che ha fatto scaturire innumerevoli santi sacerdoti, si è trasferito poi a Sarzana dove si è dedicato all'insegnamento con totale dedizione, in qualità di professore prima e di preside poi, rivestendo anche numerosi importanti incarichi in Comune, nella sanità ed in altri importanti  settori della vita pubblica. Questo non gli ha impedito di tornare spesso nella sua diletta Ortonovo che ha portato sempre nel cuore.
Come dimenticare l'appuntamento per la festa dell'8 settembre presso l'amato Santuario della Madonna del Mirteto? Sia il giorno della Festa, sia la vigilia, era sempre presente, con la sua adorata Fabrizia, per assolvere ad una funzione quasi rituale: la vendita delle candele e degli articoli Mariani.
Qualche volta anch'io mi sono unito a loro, trascorrendo dei momenti davvero indimenticabili: non perdeva mai l'occasione per divulgare la sua immensa cultura e per ribadire l'importanza di non disperdere un patrimonio irrinunciabile: il dialetto e le tradizioni dei nostri avi. Ecco perché nella meravigliosa omelia di Mons.Piero Barbieri ho rivissuto tanti attimi commoventi, un'omelia veramente profonda e che da sola riesce a fornire una fedele rappresentazione di questo nostro grande concittadino ed educatore, omelia che riporto di seguito, integralmente, per consentirne la lettura a tutti coloro che, per lavoro od altri impedimenti, non hanno potuto partecipare a questa solenne cerimonia: "Abbiamo accompagnato qui, in questa Chiesa, le spoglie mortali del nostro fratello Vinicio, che veniva sempre ed assisteva là , da quella colonna, con la sposa, perché portava nel cuore quella fede che gli era stata donata e che aveva posto con tanta forza, con tanto amore, e direi anche con tanta passione. E quella fede che lui portava nel cuore ci dice adesso che la preghiera che noi stiamo facendo è ancora un incontro con lui. Non vediamo più il suo volto ma sappiamo che il mistero della Comunione dei Santi non ci separa ma ci unisce. Ci unisce a quelli che ci precedono nel segno della fede ed allora quella bella lettura che abbiamo fatto all'inizio: "Ed anche i giusti sono nelle mani di Dio. Nessun tormento li toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero, ma nella vera pace". Ci dicono che lui ha raggiunto una mèta. Noi stiamo camminando e speriamo di incontrarci ancora.
È un momento però di difficoltà, di fatica e lo vogliamo vivere proprio con le parole del Vangelo, quelle di Gesù che vede piangere, piange, si commuove, raccoglie il dolore della morte, perché la morte non viene Dio ma viene dal peccato dell'uomo e quindi è diventata una fatica, una sofferenza, però Gesù lo offre alla speranza questo dolore e lo fa facendo uno dei miracoli più grandi della Sua vita: la risurrezione di un amico, Lazzaro e lo fa anche un po' in rimprovero a Marta e Maria perché Gli avevano detto: "Se Tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto". E Gesù dimostra di essere padrone della morte e della vita, perché fa risorgere l'amico Lazzaro che poi morirà e risorgerà nella resurrezione per vedere il volto di Dio. E noi vogliamo proseguire la nostra preghiera in questo momento di sofferenza con tutta la compassione, ossia con la condivisione con la sposa, i figli, i nipoti, i parenti che sono qui, ma anche con tutta la certezza e la speranza che la morte è stata vinta da Gesù e che quindi lui vive con la sua anima e porteremo al cimitero il suo corpo, dove torneremo nell'attesa della resurrezione dei morti.
Ma vogliamo vivere anche quell'altra bella lettura che abbiamo fatto: una beatitudine che ci dice Giovanni nell'Apocalisse: "Beati i morti che muoiono nel Signore". E va pensata così questa lettura: "Beato il nostro fratello che ha saputo ascoltare le chiamate di Dio nella sua vita" e la prima chiamata l'ha ascoltata dalla voce dei suoi genitori quando è stato chiamato al Battesimo. Lo ha accolto senza saperlo, ma quella fede l'ha seguita, l'ha portata nel suo cuore, l'ha fatta diventare più grande, se l'è tenuta per tutta la vita. È una vocazione cristiana a cui è stato fedele. E dopo quella vocazione ne è venuta un'altra, molto importante: quella del matrimonio, che pure ha vissuto nella fede e con la sua sposa ha passato tutti gli anni della sua vita. Ha donato la vita secondo il disegno di Dio, ha testimoniato con la sposa la bellezza della famiglia, dell'amore, anche nei momenti difficili della malattia e l'ha trasmessa, questa fede, ai figli. Ma Dio gli ha fatto anche altri doni grandi: il dono dell'intelligenza, il dono del l'intelligenza che ha prima conquistato per sé e che poi ha donato agli altri, nella su professione di insegnante e di più anche di educatore e preside per tanti anni nella Scuola Arzelà di Sarzana dove ha profuso la sua conoscenza, dove ha guidato tanti insegnanti, dove è stato in dialogo profondo anche con gli alunni. Ha donato quello che Dio gli aveva dato. Lo ha fatto fruttificare.
E poi ha avuto anche un altro impegno grande: nella politica. Ha lavorato nella politica cercando sempre il bene comune, ma direi di più, cercando di far diventare il dono per gli altri, un amore per gli altri. La politica, come insegna San Paolo VI, è un servizio di amore per i fratelli anzi, dice questo Santo, l'esercizio più grande dell'amore.
E non posso non ricordare, perché è stato di esempio anche per me, quando nell'altra parrocchia è iniziata una mensa dei poveri che non era quella di dare da mangiare, perché quella c'era già, un'altra mensa dei poveri, per aiutare i ragazzi ed i giovani, che ne avevano bisogno, di essere accompagnati con le famiglie nel loro studio. Lui si è adoperato fino alla fine, fino a pochi mesi prima, si è impegnato ad insegnare gratuitamente, per tanti anni e per tutto l'anno, una volta alla settimana, il latino, il greco ed anche l'italiano, in silenzio sempre, un dono che Dio gli aveva fatto e che lo ha trasformato in un gesto di amore verso il prossimo.
Beati i morti che muoiono nel Signore! Ed è bello allora pensare che la morte intanto è stata sconfitta da Gesù ed è stata sconfitta non perché Lui non muoia più, ma perché noi non moriamo più. E se il nostro corpo è soggetto alla morte, è anche nell'attesa della resurrezione. Ed è bello allora che noi amiamo e tutte le volte che noi amiamo Dio e il prossimo, noi viviamo di una vita profonda di Dio e di una conoscenza che è la più vera di Dio: la conoscenza intellettuale di Dio è meno importante della conoscenza di amore di Dio, perché la fede e la speranza finiranno, Dio è anche speranza, Dio è anche intelligenza, ma l'amore non finirà. Per questo, dice Giovanni: "Dio è amore" e lo dobbiamo imparare dal suo esempio e lo dobbiamo imparare per rendere meno forte la paura della morte che sta dentro di noi. Lo dobbiamo imparare perché questa paura della morte che oggi serpeggia nella cultura e cerca le soluzioni solo psicologiche o psichiatriche che non arrivano in fondo perché la paura della morte sia vinta dall'amore di Dio che che noi viviamo e lo cogliamo proprio come ultimo messaggio della sua vita. Imparare ad amare Dio e il prossimo è prepararsi alla morte con serenità e con forza. È una testimonianza che noi dobbiamo dare alla nostra società. Dobbiamo dare, non imporre, il bene della persona umana che non è solo il bene di vivere fisicamente, ma è anche il bene di vivere spiritualmente e il bene di vivere in una fede in Dio vero. Questo bene lo dobbiamo comunicare con la testimonianza della nostra vita.
Noi siamo ancora in cammino, lui è arrivato laddove tutti siamo chiamati ad arrivare. Credo che ci sia arrivato con le mani piene di opere buone e con la coscienza che quando i peccati ci sono, è bene farceli perdonare.
Ha ricevuto tutti i Sacramenti, compreso quello dell'Unzione del l'infermo, penso possa dire al Signore: "Ho fatto tutto quello che potevo " ed affidarsi alla misericordia di Dio, lui e noi che lo faremo se si arriverà all'incontro col Signore. Lui è arrivato, noi siamo in cammino. Cerchiamo di ricordare non solo con la memoria, ma con l'impegno di vita, l'esempio buono che lui ci ha lasciato. Sarà più facile il nostro incontro con Dio e sarà più vivo anche in noi il ricordo di una persona che ha donato tanto alla sua città, alla sua parrocchia, alla Chiesa ed ai fratelli".

 


  Ceccardo e la Grande Guerra
di Romano Parodi



 

          La Repubblica di Apua: un sogno ucciso dalla guerra. Ceccardo fu abbandonato dai suoi “marescialli”. Fra di loro ci fu una diaspora.

          Come, già ebbi modo di scrivere una volta , ogni “verità” ha infinite sfumature. Ceccardo nazionalista della “stirpe”, De Ambris dell’impresa esemplare e liberatoria. Alcuni: Ubaldo Formentini e Pea seguirono la corrente di Salvemini, altri di Gobetti. Altri, come Salvatori, neutralisti convinti. Giovani intellettuali che esprimevano apertamente la loro indipendenza di giudizio, anche se in tutti c’era una profonda avversione per i Savoia, che Ceccardo spregiava chiamandoli i “moriana”: “mungere e dissanguare...”. (mentre l’avv. Bianchi, il grande nemico, era monarchico sfegatato).

          Il 4 novenbre 1988 è ricorso l’80simo anniversario del primo conflitto mondiale e sul Sentiero abbiamo pubblicato i nomi dei caduti ortonovesi che morirono per la Patria. Ma fra gli ortonovesi che contribuirono alla vittoria ci sembra possa annoverarsi anche Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, “che volle, fortissimamente volle, le terre irredenti”. Non tanto per l’età, aveva 44 anni, ma per le condizioni fisiche, il poeta fu riformato e non poté andare volontario. E ciò, unito alla partenza di molti amici (Viani, Ungaretti, De Ambris, Corridoni, etc) fu il suo intimo rovello. Però, se non gli fu dato di combattere con le armi, fu sul fronte interno di una un’attività instancabile. Il suo impeto oratorio non si limitò alla “trionfale giornata” di Quarto del 6 maggio 1915, quando tutta l’Italia ufficiale, accorsa ad ascoltare D’Annunzio, scoprì Ceccardo, che accompagnato da Viani, Ungaretti e da altri dignitari della Repubblica di Apua, lo incoraggiavano in ogni modo: “..apuani state vicino al vostro generale”, implorava tremebondo, pronunciò un alato discorso interventista, al termine del quale la grande sala “sembrò crollare dagli applausi interminabili…Mentre andava parlando le bianche e lunghe mani, sembrava scandissero i tempi dell’orazione, sostanziata di storia, resa incandescente dalla passione. Quella sera Ceccardo fu grande…” Scriveva Salvatori nel suo “Versilia”. Poi parlò D’Annunzio, che impressionato e commosso, esordisce con queste parole: “Che in questa sede delle Compere e dei Banchi sia accolto con onore è già mirabile cosa, ma che sia deputato ad accogliermi un poeta mero e della più pura specie è singolarissimo evento. Questo sdegnoso poeta, questo fiero e solitario apuano, questo mio fratello – diletto fratel mio di pene involto – in miserrimi tempi, levandosi di sopra ai trafficator di ciance, si domandò in un’ode profetica: Quando tornerà Garibaldi? Ebbene egli è tornato sopravveniente…         Ma l’opera di Ceccardo non si limitò alla trionfale giornata di Quarto, ma durò per tutta la durata del conflitto, con articoli e proclami infiammati e continui. Il giorno in cui le avanguardie oltrepassarono i confini, Ceccardo salutò i combattenti liguri in partenza (dai giornali dell’epoca): “Fanti di Liguria, io vi reco il saluto della terra nativa… Da Ventimiglia fin oltre Sarzana turrita, donde dall’alto della cattedrale Nicolò V° osserva; e dove, sui borghi intorno, di Val di Magra, che vider salire Dante, ospite e attore di pace, e dal piano, sepolcro di Luni, città sepolta, sede di quei liguri – apuani che insegnarono a Roma, già grande, per cent’anni di guerra, quanto valesse lor alpestre libertà vissuta… Statevi sulle Alpi come i vostri padri sul mare”. Se dure e alterne furono le vicende del sanguinoso conflitto, rettilinea e tenace si mantenne la condotta e l’impegno del Nostro. Andato a risiedere per il secondo semestre a Camaiore con moglie e figlio, poi a Lavagna, ospite del poeta Luigi Amaro, Ceccardo non si riposò mai. Di particolare rimarco in questo periodo la lezione antitedesca e italianissima, sulla disfatta di Arminio, tenuta al Carlo Felice di Genova e ripetuta un mese dopo alla Spezia. Quando non aveva occasione di parlare in pubblico o di scrivere sui giornali, il poeta sfogava sul suo brogliaccio la rabbia per la ritardata dichiarazione di guerra o contro il pullulare delle spie, che purtroppo non mancavano, ma che egli vedeva dappertutto. Il 25 marzo del 1917, l’anno più oscuro del conflitto, il poeta ancora alla Spezia e il 29 a Genova pronunciò un travolgente discorso: “Da Orsini ad Oberdan”, già tenuto al teatro Regio di Parma e pubblicato, in parte da “La Tribuna”. Pochi di quei discorsi si sono salvati. Parlò anche a Milano, dove Corridoni gli presentò il Duce, a Pisa, a Carrara, ma soprattutto nel parmense. Come fu Caporetto e tutto sembrò perduto, Ceccardo, pur vivendo giorni d’angoscia per la moglie e il figlio ammalati, scendeva in piazza, perché, sotto l’incombente minaccia, tutti udissero le sue parole di fede nei destini della Patria. Il 15 dicembre il “Versilia”, dell’amico Luigi Salvatori, pubblicava questo fremente “Grido”: “Italiani! Piuttosto che un solo austriaco vi penetri a profanar – o italiani – la suprema pace di Attilio, di Emilio Bandiera e di Domanico Moro, meglio o Italiani, che Venezia sprofondi nell’Adriatico”. La sua Francesca ormai l’ha lasciato, ma il poeta è più che mai nella mischia.
Così mentre in quel drammatico inverno, rincuora i genovesi davanti alla casa di Byron, giunto l’estate, su invito della Pro Patria, infiamma i bolognesi. Poi fu la vittoria! Nella notte del 2 novembre 1918, quando l’esito era ormai certo, C. R. Ceccardi, da Genova, volle far sentire, al figlio, ospite dell’amico Annibale Caro a Carrara, tutto il suo entusiasmo e la sua incontenibile gioia.
Senza denaro neanche per un telegramma, scrisse una cartolina postale: “I morti per la Patria son tutti risorti !” La guerra da lui voluta e poi giorno per giorno combattuta e sofferta, era vinta. Le terre irredenti, dal poeta rivendicate, erano sue; almeno per una volta i “sogni eroici” non l’avevano tradito! Nessuno poté sottrargli quell’ora di felicità. Ma mentre i “trafficator di ciance” ebbero onori e prebende, per il Viandante, neanche le briciole; nessuno ne in quel giorno ne in quelli che seguirono si ricordò di quanto, con assoluto disinteresse e senza risparmio di salute, aveva compiuto. Solo la città di Genova, pose questa lapide sulla casa natia:
Qui nacque Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Poeta e Patriota.

  Canzon d'inverno
di Favola tratta dal libro "La fola a veghio di Lorenzo Rossi Centori


                                            

Una sera d’inverno che ero più stanco che riposato, passando dal Collettino sento dire dall’interno di una casa: -Siete orbo? Non state lì impalato, muovetevi, non vedete che la bambina piange?
Sentendo queste parole antiche mi fermo a guardare dalla finestra. C’era la neve in paese ed i lumicini della case luccicavano tra il biancore dei tetti.
Dalla finestra si vedeva il fuoco scoppiettare sotto l’essiccatoio ed il nonno seduto nella panca che non sapeva come muoversi.  La bimba si mise a piangere più forte, poi piano e dice: - Nonna raccontatemi una favola.
-Dopo, - risponde la nonna – ora è tardi e dobbiamo cenare.

-Se non mi raccontate la favola io non mangio – dice la bimba, rannicchiata nel cantuccio come imbronciata con tutti.

- Siete proprio capricciosa, tesoro -  dice la nonna -  sedetevi e statemi a sentire. Ma dopo cena via subito a dormire che domattina c’è la scuola. Vi racconterò la canzone dei sette fratelli.

“Un tempo, quand’ero giovane io, in paese c’era la fame, le castagne erano poche ed i campi non producevano. Così la gente raccoglieva i pochi soldi che aveva e andava in cerca di farina, più le donne che gli uomini, perché loro dovevano andare chi alla cava e chi alla carbonaia. Andavamo a piedi per risparmiare, le giornate erano lunghe e la sera non arrivava mai per riposare.  Una volta che andavo per farina con mia mamma capitammo in un paese lontano tra quei monti con la neve. Camminando incontrai una bambina, un po’ più grande di voi, appoggiata al cancello di casa. Aveva otto anni, come mi disse, le trecce bionde e gli occhi così belli che le volavano via.
Dico: -Figliola, quanti siete in famiglia?
-Siamo sette fratelli – risponde.         – E dove sono gli altri? – dico.
-Due sono in mare, due in città e due sono al camposanto – risponde.
-Voi dite, bimba, che due sono in mare, due in città e due sono morti e che siete in sette. Mi sembra invece che siate rimasti in cinque. Non vi sbaglierete a contare?
-Siamo sette fratelli tra femmine e maschi – insisteva la bambina con una vocina  come quella di una fatina – due riposano qui vicino, in un angolo vicino al cipresso.
-Ma voi, cara bambina, - dico –  vi muovete vero? Cantate, fate le capriole o avete fame e sete. Se quei due riposano nel camposanto è chiaro che siete rimasti in cinque.
-Stanno in un posto verde, con tanti fiori d’estate – continua la bambina come se non stesse a sentire, e muovendosi come per camminare – potrete vederlo se volete, sono dieci passi da qui. Al giorno vado là a fare la maglia e a rammendare i vestiti. Mi siedo in terra sott’al cipresso e gli racconto le favole. Poi, quando viene sera e l’aria è ancora tiepida, vado là con la cena e ceno con loro. La prima a morire è stata mia sorella. E’ stata a letto parecchi giorni e soffriva. Poi il Signore l’ha guarita e l’ha portata via. E’ stata seppellita là e quando l’erba non era bagnata io e mio fratello più piccolo andavamo a giocare con lei. Poi quando venne la neve e avrei voluto giocare con lui, anche mio fratello dovette partire e ora le sta accanto. - E quanti allora siete rimasti – dico – se quei due sono in paradiso?
- Siamo sette fratelli  - dice la bimba meravigliata – siamo sette fratelli.

- Ma quei due sono morti - dico  - sono due angeli in paradiso, non stanno più qui.
- Non è vero siamo sette  - diceva la bambina allontanandosi .
E così dicendo sparì dietro al cancello e non la rividi più.”
Quando la nonna ebbe finito di raccontare per un po’ ci fu silenzio, si sentiva solo il fuoco scoppiettare e la pentola bollire.  Dopo un po’: - Nonna - dice la bambina capricciosa con le lacrime agli occhi -voi sì che sapete raccontare le storie belle. Questa notte vorrei sognare quella bambina dai riccioli d’oro di quel paese lontano.
Fuori la neve fioccava vicino e lontano, ed in quel  biancore, che sembrava confondere il tempo e la memoria, si sentivano i bambini giocare nella neve e le mamme chiamare per la cena.
Mi avviai verso casa, ed il rumore della neve sotto i piedi mi fece venire fame: mi aspettavano i cian caldi ed il formaggio dei pastori.

  A PROPOSITO DI ACCOGLIENZA…
di Marino Bertocci


 Mia moglie era fuori zona qualche tempo fa, ed io, come di tanto in tanto accade, ho sentito la necessità di parlare un poco con il nostro “Principale”.
Girovagando, sono quindi entrato in una chiesa, semplice ma molto bella, e mi sono “sistemato” su una panca “in prima fila”. Non per orgoglio, una volta tanto! ma per non distrarmi dal continuo via vai, coincidendo quel giorno con una festività Mariana, festeggiata in quella chiesa.
Essendo entrato nella chiesa al termine di una celebrazione, l’ho trovata praticamente deserta e quindi…ho potuto iniziare il mio colloquio con il dovuto raccoglimento e concentrazione.
La mia sosta ormai si prolungava ben oltre la mezz’ora…quando ho prima percepito e poi notato un improvviso, ma continuo, andirivieni di pie persone che, presenti in Chiesa per qualche servizio ai pellegrini in quel giorno di festa, mi passavano continuamente davanti osservandomi, ho pensato inizialmente, con curiosità, per poi passare a controllare ogni mia piccola mossa.
La statua della Madonna, non so se fosse per portarla poi in processione o semplicemente per la festa, era bellamente agghindata, forse anche di qualche semplice oggetto prezioso, come si usa fare per le principali ricorrenze.
Evidentemente la mia prolungata presenza vicinissimo all’altare, era fonte di seria preoccupazione per quelle pie persone che, certamente, in me, vedevano un possibile malintenzionato, pronto a spogliare la statua dei suoi preziosi.
Io sapevo non essere così, a dire il vero non lo pensavo nemmeno…il mio pensiero era il colloquio con il Sacramento. Non gli ori della Madonna!
Fatto è che quella continua aria di sospetto che si era creata intorno a me mi ha distolto completamente da quel bel momento di intimità spirituale che, finalmente dopo tempo, ero riuscito a ritagliarmi. Mi è quindi venuto spontaneo pensare: diciamo sempre che dobbiamo aprirci al fratello, vicino o forestiero che sia, ma, alla prova dei fatti siamo sempre pronti ad osservare con sospetto chi non faccia parte della nostra (sempre più ristretta) cerchia di abituali del sacro? Quante volte, anche durante le celebrazioni, sentiamo irrefrenabile il desiderio di girarci a vedere chi è entrato in Chiesa dopo di noi, subito pronti a “pesarlo”? eppure ci è stato insegnato: non giudicare, per non essere giudicato! Oltre a…” ero forestiero e mi avete accolto” …Forse dovremmo rivedere il nostro atteggiamento verso l’intero nostro modo di essere cristiani. Quel segno della pace che ci scambiamo nelle nostre celebrazioni è veramente segno di accoglienza o…lascia il tempo che trova?
Allora, a quelle persone che mi hanno osservato con preoccupazione chiedo perdono, se motivo sono stato per loro di questo ma, nel contempo, chiedo loro di fidarsi…non tutto ciò che proviene al di fuori del nostro quotidiano è possibile fonte di guai o problemi…Dio, senza stancarsi, ci chiama all’accoglienza, alla condivisione non al rifiuto dell’altro. Gratuitamente abbiamo ricevuto un dono, la Fede…gratuitamente condividiamola! In conclusione, perdonatemi questo ultimo pensiero, suggeritomi dalla povertà dell’Incarnazione: nonostante tutte le incrostazioni ed i formalismi talvolta inutili e farisaici che da secoli appesantiscono (ed hanno appesantito) la Chiesa, noi suoi fedeli ed i suoi Ministri...la Storia del Cristianesimo ha materiale inizio da un umiliante rifiuto ..."non c'era posto per loro in Albergo”.
e noi, che abbiamo l'arroganza di dirci Cristiani, non dovremmo mai dimenticarlo! Proviamo a riscoprire la gioia dell’accoglienza gratuita …!!!

Luni, 8 gennaio 2019
  
  S. ANTONIO ABATE NELL’ANNO 2019 D.C.
di Paola G. Vitale, Luni Mare


S. ANTONIO ABATE NELL’ANNO 2019 D.C.

Dovrebbe essere festeggiato in zona, come ho assistito in passato, al borgo dell’Annunziata, ogni diciassette gennaio, ma quest’anno non ne ho avuto notizia, benché ne abbia cercato traccia su “Il Sentiero” notiziario di questo mese.
Oggi è una giornata piovosa e ombrosa e l’orizzonte è scomparso sotto un grigio fitto e uniforme…. e allora …. mi accingo a un piccolo lusso domestico, cioè alla lettura attenta e rilassata del nostro mensile inter-parrocchiale. In questo modo posso conoscere le novità dal Santuario, i sogni di Marta, le attenzioni del Comune di Luni verso gli scolari, nella loro crescita come cittadini, le particolarità dei poeti locali, come il grande Ceccardo, come il Bertoloni, la testimonianza della nostra Mila sul concerto di Natale cui non ho potuto partecipare, nonostante fosse ospitato nel nostro “archetto” e poi ogni altro argomento riguardante la fede e la buona politica. Leggere fa sempre bene e in me accende anche il desiderio di conoscere un po’ da vicino i vari autori di ciascun argomento. Alcuni li conosco già e devo dire che a tutti riservo un pensiero grato. Scrivere ciò che si avverte nel pensiero e nell’anima è molto importante, ma certamente è molto importante e impegnativo attuare il tutto nei rapporti occasionali o giornalieri con chi incontriamo, o visitiamo o con cui viviamo. La delicatezza, il silenzio interiore nell’affrontare la situazione reale e quotidiana, sarà allora il compendio e l’attuazione delle tante riflessioni, dei tanti inviti a vivere tutto ciò che è buono, amabile, favorevole, portatore di pace … e di distacco da tutto ciò che ne è l’infruttuoso contrario. Ne consegue che la testimonianza è importante, sia quella che appare sia quella vissuta nel silenzio e nell’attesa di portare frutti buoni come testimonianza della fede. Vorrei dirvi anche perché sento così “presente” questo antico Abate dei primi secoli, che nel territorio africano a noi prospicente, ha seminato il buon seme di Cristo. L’ho conosciuto a metà della mia vita, quando è nato il mio primo nipote in Fivizzano. Il monumento a questo Abate, sul piazzale dell’ospedale, in quel frangente di particolare emotività, mi ha spinto la sera stessa, a farne ricerca nell’enciclopedia di casa. Ho rivissuto con emozione l’impronta dell’Impero Romano e della cultura cristiana, nell’Africa Orientale, e capisco bene quanto questa perfetta testimonianza cristiana, abbia avuto il suo peso nella formazione di grandi santi seguiti a San Francesco di Assisi, come S. Antonio da Padova, il quale a Padova si è fermato e Antonio si è chiamato in onore del grande Abate dei primi secoli cristiani.


  Ho visto qualcosa di bianco
di La Redazione



Bernardette, nata il 7 gennaio 1844, è malandata di salute, ha l’asma, è illetterata e ignorante di cose religiose, non ha memoria, ma rivelerà un carattere di ferro. Poiché non c’è più legna da ardere, le due sorelle e l’amica Jeanne Abadie, 13 anni, vanno alla grotta di Massabielle lungo il fiume Gave a raccogliere legna e «ossa», i resti delle carcasse di animali. Sempre utili per bruciare.
Mentre si toglie gli zoccoli per attraversare il fiume, Bernardette sente un rumore, come «un colpo di vento» anche se l’aria è calma. Alza la testa e sopra la grotta «scorsi una Signora: indossava un abito bianco, un velo bianco, una cintura blu e una rosa gialla su ogni piede».
La ragazzina fa il segno della croce e recita il rosario con la «Signora», che «passa i grani fra le dita senza muovere le labbra» e poi scompare.

  “IL SENTIERO”
di Giuseppe Franciosi


Giovedì, 6.1.05.

          Siamo arrivati ormai al 15° anno di vita; credo che nessuno di noi, quindici anni fa, pensasse che nel 2005 “IL SENTIERO” sarebbe stato ancora vivo. Siamo partiti con un modesto numero di copie, poi piano, piano siamo arrivati alle 600 copie e questo è il numero di copie che stampiamo oggi.
Siamo felicemente sorpresi di questo successo e ringraziamo tutti. Non ci sono mai mancate le offerte che ci hanno permesso di provvedere all’ordinaria amministrazione e anche alle spese straordinarie. Alla stampa provvediamo con attrezzatura nostra; abbiamo acquistato una prima stampante e nel 2004 ne abbiamo acquistata un’altra. Le offerte generose dei nostri lettori, e anche quelle delle parrocchie, ci hanno permesse di saldare il costo della prima stampante in un solo anno; ora stiamo ricevendo offerte per saldare il conto della seconda e credo che riusciremo presto. Quindi tutto bene per l’aspetto finanziario; per il resto, altri aspetti positivi e altri meno positivi. In quindici anni siamo usciti sempre regolarmente (10 numeri all’anno); non abbiamo mai dovuto ridurre le pagine (28) per mancanza di articoli.
Un aspetto di cui non siamo orgogliosi: il giorno in cui stampiamo il “Bollettino” (di solito il venerdì) a lavorare, da quando anche Walter è andato in pensione, siamo tutti pensionati, quindi siamo tutti anziani. Vorremmo che i giovani partecipassero di più alla gestione, alla realizzazione del nostro Bollettino.

          Comunque brindiamo ai quindici anni di vita del SENTIERO e auguriamogli lunga e benefica vita.        

  Gli edifici da spettacolo dell’antica Roma (Parte prima)
di Giorgio Bottiglioni



I circhi di età repubblicana

Quando, all’inizio del II secolo d.C., il poeta satirico Giovenale conia il famoso detto panem et circenses, alludendo al carattere godereccio del popolo romano e ai mezzi subdoli con i quali l’imperatore cercava di tenerlo a bada, siamo ormai molto lontani dall’indole e dal comportamento dell’antico vir romanus. Gli antiqui mores, i costumi degli avi, prevedevano che il cittadino di Roma si occupasse delle attività concrete della vita, in particolare dell’agricoltura e della pastorizia, della pratica delle armi e dei riti religiosi propiziatori per ogni azione quotidiana. Tutto quanto avesse a che fare col teatro e lo spettacolo in genere era considerato fuorviante e molle, indegno di un vero uomo. In Grecia le cose erano ben diverse e il teatro, le gare di atletica, gli spettacoli musicali erano considerati parte integrante della buona educazione di un politikòs, un giusto cittadino. Il teatro era a tal punto considerato dai romani uno strumento di corruzione che le leggi repubblicane impedivano la costruzione di teatri stabili e la professione dell’attore e del musicista fu sempre considerata di poco conto, contrariamente a quanto accadeva in Grecia, dove un attore poteva contare spesso su lauti guadagni.
Gli spettacoli pubblici romani, i cosiddetti ludi, nascono inevitabilmente come elemento di contorno ad alcune celebrazioni religiose; in origine consistevano unicamente in corse di carri, ed erano connessi a rituali arcaici in onore di divinità agrarie e militari. Le prime corse si sarebbero tenute durante le celebrazioni dei Consualia, le feste in onore del dio Conso, istituite da Romolo poco tempo dopo la mitica fondazione della città. L’altare dedicato a Conso fu sistemato nella Valle Murcia, fra Palatino e Aventino: tale altare era sotterraneo e veniva portato alla luce durante le festività, a ricordo del ciclo della semina e del raccolto dei cereali, di cui il dio Corso era protettore. Nello stesso luogo si svolsero le prime corse di carri istituite da Romolo, durante una delle quali sarebbe avvenuto il, famoso ratto delle Sabine, che avrebbe dato inizio alla civiltà romana vera e propria: siamo nell’area del futuro Circo Massimo, il più grande edificio per spettacolo di tutti i tempi. La tipologia architettonica del circo deriva dall’ippodromo greco con un impianto ingrandito, perfezionato e rese più monumentale. La struttura di base prevede un edificio quadrangolare, con uno dei lati corti semicircolare.
La forma grosso modo ellittica è chiaramente all’origine del nome. Le gare si effettuavano nella pista detta arena, divisa longitudinalmente in due da un lungo basamento, detto spina, alle cui estremità erano fissate le metae: intorno a queste, costituite da colonne spesso sormontate da statue, dovevano girare i carri, con una manovra complessa che costituiva uno dei momenti più pericolosi della gara. Vicino alle metae sette uova e sette delfini di pietra, opportuna mente disposti, indicavano ai concorrenti il numero di giri ancora da percorrere. La partenza avveniva dai carceres, appositi cancelli situati lungo il lato corto rettilineo, disposti obliquamente per permettere l’allineamento alla partenza. Sui lati più lunghi sorgevano le gradinate per gli spettatori divise in settori; quelli più vicini alla pista erano riservati ai senatori, mentre l’imperatore disporrà di una loggia speciale. Secondo la tradizione, la prima sistemazione in legno di un ippodromo nella Valle Murcia sarebbe stata opera del primo re etrusco di Roma, Tarquinio Prisco, il quale, come già per il foro romano, avrebbe costruito un sistema sotterraneo di deflusso delle acque, la cloaca, per permettere di drenare tutta la zona e regolarizzare il terreno. Ai primi sedili di legno si sarebbero col tempo sostituite gradinate in muratura, molto probabilmente in contemporanea con la costruzione dei primi carceres in legno nel 329 a.C. Forse negli stessi anni fu costruita anche la spina. Una seconda fase edilizia del circo, databile all’inizio del II secolo a.C., vide la costruzione dei carceres in muratura, di un arco trionfale al centro del lato curvo meridionale e la sistemazione sulla spina delle sette uova per contare i giri compiuti dalle quadriglie. La terza fase corrispondente all’età augustea, fu caratterizzata dalla costruzione del pulvinar, una zona sacra riservata agli dei che presiedevano lo spettacolo, dall’aggiunta dei sette delfini di bronzo accanto alle sette uova a dall’installazione sulla spina dell’obelisco di Ramsete II trasferito in Piazza del Popolo nel 1587. Una serie di incendi distrussero a più riprese il grande edificio che venne di volta in volta sempre ricostruito dai diversi imperatori. Ci è giunta la trascrizione di un’epigrafe commemorativa delle vittorie giudaiche di Vespasiano e Tito da collegare senza dubbio con un arco eretto dal Senato sul lato curvo meridionale intorno all’80 d.C.. I pochi resti in laterizio visibili oggi sul lato curvo appartengono al restauro dell’imperatore Traiano all’inizio del II secolo d.C.: Nel 357 Costanzo II aggiunse sulla spina un secondo obelisco, di Thutmosis III proveniente da Tebe: esso fu collocato da Sisto V, sempre nel 1587, in piazza di S. Giovanni in Laterano. Le dimensioni del Circo erano eccezionali: lungo oltre 600 metri e largo più di 100, poteva ospitare circa 250.000 spettatori, o, secondo fonti dell’epoca, forse esagerate, addirittura 385.000. Il circo Massimo era utilizzato particolarmente per le corse dei carri- specialmente quadriglie, cioè cocchi a quattro cavalli-, le più importanti delle quali avevano luogo nei Ludi romani o magni, dal 4 al 18 settembre. Il circo rimase in efficienza fino alle ultime gare organizzate da Totila nel 549. Sul lato sud si trova attualmente una torretta medioevale detta “della Moletta” appartenuta alla famiglia dei Frangipane, la stessa che aveva trasformato in fortino il cosiddetto Arco di Giano nel foro Boario, il grande arco quadrifronte dell’epoca di Costantino (IV secolo d.C.) che sorge a pochi passi dalla chiesa di San Giorgio in Velabro. Come le corse delle quadriglie nel Circo Massimo erano connesse con l’antico rituale del culto di Conso, così nel Trigarium correvano, in occasione dell’Equus October e degli Equirria, le trigae, carri Arcaici a tre cavalli, la cui scomparsa avvenne probabilmente già nel VI secolo a.C.. Durante la festa dell’Equus October, celebrata il giorno delle Idi –ossia il 15– di ottobre, il cavallo di destra della triga vincitrice veniva sacrificato a Marte inteso non come dio della guerra, bensì come tutore e guardiano dei campi coltivati e protettore della loro fertilità. Il sacrificio avveniva nel Tarentum –ove oggi è Piazza Pasquale Paoli-, il santuario delle divinità degli Inferi, Dite e Proserpina. Gli Equirria venivano festeggiati il 27 febbraio e il 14 Marzo e i riti ad essi connessi annunciavano l’avvento della primavera. In quest’occasione correvano cavalli attaccati a carri da guerra, corse che così divenivano propiziatorie sia per il nuovo sbocciare della natura sia per l’apertura della stagione militare. Il Trigarium, di cui non resta alcuna traccia Archeologica, è stato identificato in un tratto di via Giulia in un’area grosso modo delimitata a nord-ovest da via dei Banchi Vecchi e a sud-est dal Lungotevere dei Sangallo, fra ponte Principe Amedeo Cavalieri d’Aosta e Ponte Mazzini. Nella cripta al di sotto dell’odierno Museo Barracco di Scultura Antica sono conservate le strutture di una domus d’età tardo-antica (IV secolo d.C.), In particolare sono visibili i resti del portico colonnato della domus. Gli archeologi hanno messo in evidenza alcune anomalie planimetriche del portico, probabilmente risultato di condizionamenti dovuti a preesistenze architettoniche. Pare che prima della domus tardo antica l’area fosse adibita a piazza pavimentata con grandi lastre di marmo bianco pertinente al comprensorio degli stabula. Lo stabulum era un complesso di strutture differenziate connesso con una delle quattro fazioni che si contendevano la vittoria nelle corse del circo (veneta, prasina, russata, albata); vi si trovavano le scuderie, i quartieri degli aurighi con terme, luoghi di culto, grandi spazi aperti per la massa dei tifosi, ambienti di servizio, magazzini per le attrezzature e i quartieri per gli inservienti, i medici, i veterinari, gli organizzatori e i funzionari che gestivano le gare dei cavalli. Nel 221 a.C. il censore Gaio Flaminio Nepote. Autore anche della Via Flaminia, fece sistemare un’ampia area circolare che conteneva un piccolo tracciato riservato a gare e diverse costruzioni e monumenti. Si tratta del cosiddetto Circo Flaminio, identificato nella zona oggi compresa fra il Teatro Marcello, piazza Cairoli, via del Portico di Ottavia e il Tevere. Già autori di epoca imperiale quali Strabone, Valerio Massimo e Tito Livio esprimevano pareri discordi circa l’effettivo utilizzo del circo per le corse dei carri. E’ probabile che qui si tenessero i Ludi Tauri, in onore degli dei dell’oltretomba. Secondo alcune fonti questi giochi misteriosi venivano tenuti unicamente nel Circo Flaminio, suggerendo che erano simbolicamente legati all’area e che non potevano essere spostati in un altro edificio. Ai Ludi Tauri correvano cavalli con un unico fantino e non carri, bighe trighe o quadrighe che fossero, come avveniva nelle normali corse che si tenevano nei circhi. Il circo non aveva posti a sedere e strutture permanenti. Nei primi anni della sua esistenza il circo era lungo 500 metri, ma venne via via ridimensionato nel corso degli anni, in particolare quando nel 17 a.C. Augusto fece costruire il teatro Marcello. Lo stesso imperatore nel 2 a.C., in occasione dei festeggiamenti per l’inaugurazione del suo nuovo foro, fece tramutare il circo in un’immensa vasca utilizzata per contenere 36 coccodrilli precedentemente uccisi durante un sacrificio. L’area venne abbandonata verso la fine del IV secolo d.C., insieme agli edifici che nel corso dei secoli erano sorti nella zona

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