N° 6 - Giugno 2018
Storie dei lettori
  IL GIORNO PIU’ BELLO
di Marta


                                            

Maggio, con le sue tante ricorrenze religiose, è il mese delle prime Comunioni; ricordare quel momento particolarissimo, vissuto un po’ di anni addietro, mi fa sentire bene.
Durante l’infanzia, fino all’adolescenza, per me il giorno più bello è stato quello della prima Comunione.
Il Catechismo preparava noi bambine a questo importante avvenimento. Imparavamo tutte le preghiere; ci veniva insegnata la storia e la vita di Gesù, ci spiegavano quanto è fondamentale la prima Comunione.
Per le bambine veniva preparato l’abito bianco lungo con il velo, che ciascuna  - allora si poteva – sceglieva a proprio piacere, o, per meglio dire, erano le mamme che suggerivano quale scegliere.
Mi avevano detto che il mio abito era di broccato, una stoffa con la quale confezionavano anche gli abiti da sposa, per questo motivo mi sembrava ancora più prezioso.
Dopo la prova generale che affrontai un po’ trepidante, arrivò la mattina tanto attesa: non stavo più in piedi dalla gioia. Mi sentivo importante con l’abito lungo, la ghirlandina ricca di fiori, il velo in testa, i guanti bianchi alle mani con la borsetta dello stesso tessuto del vestito, con le scarpe e i calzini tutto rigorosamente bianco, infine la coroncina del rosario e il libricino della Messa.
I maschietti avevano il vestito grigio, alcuni con i calzoncini al ginocchio. Quelli che li avevano lunghi mi sembravano più soddisfatti, perché per ragazzi portare i pantaloni lunghi era un traguardo esistenziale.
Il mattino presto, tutti puntuali, ci ritrovammo nella chiesetta di Isola, dedicata a Maria Assunta. Il parroco, don Viani, ci diede il buongiorno e, ad uno ad uno, ci dispose nelle panche poste in verticale rispetto all’altare, che era ancora nel centro della chiesa lungo la navata: da una parte i maschi, dall’altra le femmine, in mezzo rimaneva il corridoio che permetteva a don Viani e ai chierichetti di muoversi.
Ricordo l’intenso odore dell’incenso, segno di un rito solenne e importante quale era ed è il primo incontro con Gesù. Ricordo come tutta la tensione accumulata nei giorni e nelle ore precedenti fosse svanita d’un tratto, lasciandomi la consapevolezza dell’immenso dono della prima Comunione.
Eravamo tutti felici: sapevamo che dal quel momento Gesù sarebbe stato sempre con noi, se lo avessimo voluto e desiderato.
Noi bambine come eravamo belle nei nostri candidi abiti!!!


  IO, NOI E….. IL MARE
di Millene Lazzoni Puglia


                              

Il mare nella mia infanzia è sempre stato quello che vedevo dalla collina di Caniparola Alta, il suo profumo e il contatto con quell’acqua azzurra era soltanto un sogno. Quando nella seconda metà degli anni quaranta era finito il conflitto (1940- 45) e non c’erano più pericoli ad allontanarsi da casa, mia madre mi aveva portato a vederlo da vicino. Tanto era l’entusiasmo che il viaggio a piedi fino a Fiumaretta non era stato un problema. Quell’emozione è ancora viva nella memoria, come quella mattina di luglio…
Ricordo che la strada finiva direttamente sulla spiaggia e il mare azzurro che si presentava davanti era uno spettacolo meraviglioso.
E finalmente i piedi in quella sabbia sottile…. Sulla destra della strada c’era una bancarella per le persone assetate come noi, con esposte varie bibite. Allora andavano di moda le “granite” col ghiaccio grattugiato al momento messo nel bicchiere insieme ad un liquido colorato: verde era la menta, mentre rosso era l’amarena.
Anche quella bevanda era stata per me la classica “prima volta”.
Purtroppo, come tutti, fino allora avevo conosciuto soltanto il clima e le ristrettezze della guerra; ma con il calore della famiglia quel triste periodo bellico era passato senza traumi gravi, violenze e neanche fame: tutto sommato ero stata molto fortunata. Il mare, così lontano da me nell’infanzia e poco frequentato nell’adolescenza, è entrato prepotentemente nella mia vita quando mi sono fidanzata con Silvano nella seconda metà degli anni ’50. Lui, sebbene giovanissimo, era già un vero “lupo di mare”, non solo perché in famiglia c’erano naviganti e pescatori, ma anche perché durante le vacanze estive lavorava a bordo del peschereccio di uno zio, dove aveva imparato a conoscere bene il mare e l’arte della pesca. Anche con Silvano c’è stata la “prima volta” al mare, sempre a Fiumaretta, quando ha voluto veramente stupirmi dandomi prova delle sue doti di nuotatore, che erano notevoli, andando al paese di Bocca di Magra attraversando la foce del fiume nel tratto della sua massima larghezza. Dopo la nuotata di ritorno, la sua soddisfazione si toccava con mano… ma non era pari al mio stupore!  Lo stupore si è ripetuto in seguito, quando dagli scogli vicino a Marinella ho fatto la conoscenza anche con la sua abilità nel fare i tuffi in acqua.
Dallo scoglio più alto, in quelle occasioni dava spettacolo….. e aveva immancabilmente il suo pubblico ammirato.
Io e Silvano abbiamo conosciuto insieme la spiaggia quando era molto diversa da quella di oggi: quasi selvaggia con l’autentico sapore di mare  che oggi non esiste più. Prima di avere l’ombrellone portato da casa, ci inventavamo l’ombra prendendo i rami degli arbusti frondosi che crescevano spontanei fino al limite della sabbia e che piantavamo nella medesima. Con Silvano ho imparato a conoscere il mare in vari aspetti, compreso il pesce, che fino allora era un oggetto misterioso, tranne il pesce azzurro come le alici o le sardine. Con lui ho conosciuto anche i crostacei, tutti con il pregio della freschezza, che prendeva direttamente ogni volta che andavamo al mare con le sue immersioni in apnea, ricavando pranzetti e cene prelibati. Soprattutto è di muscoli, le nostre “cozze”, che Silvano ha fatto strage, dopo che si era munito di bombole d’ossigeno e di “muta, arrivando anche a venderli o regalarli agli amici. Allora non era vietata la pesca, così Silvano non trascurava i datteri, molluschi molto pregiati e costosi, che andava a “scovare” con la pinza apposita dentro un particolare tipo di scoglio che si trova in mare sotto Montemarcello.
Noi con i bambini, Federico e Martina, andavamo al mare in quel luogo alla base del ripido promontorio di Montemarcello ricco di deliziose spiaggette dall’acqua ch’era un incanto. Lì ci si può arrivare solo con la barca e noi avevamo una piccola “brucella” che Silvano aveva costruito con le sue mani, anche se può sembrare incredibile. Il valido “capitano” della nostra imbarcazione con l’aggiunta di un motore fuoribordo ci faceva sentire sicuri e fieri di lui. Dall’andare al mare a piedi, poi con l’autobus e infine con la “500”, eravamo arrivati a solcare il mare con la nostra barca per cercare quelle spiaggette deserte, paragonabili ai nostri occhi a quelle che in altri continenti sono decantate e frequentate per la loro bellezza.
Per me quella barca e quelle gite erano una grande conquista : è inevitabile ripensare con dolce nostalgia a quei momenti.
Oggi nel terzo millennio, il mare è tornato ad essere da tempo lontano da me. Silvano non c’è più a vivere il mare e a farmelo vivere come soltanto lui sapeva fare. Sono tornata a guardarlo dalla collina fra gli ulivi…. come mi capitava molti anni fa, con tanti ricordi di momenti irripetibili, lontani e sempre bellissimi. L’esistenza cambia con il trascorrere del tempo che non possiamo fermare!!


  IL CIRCO MASSIMO
di Giorgio Bottiglioni


Quando, all’inizio del II secolo d.C.  il poeta satirico Giovenale conia il famoso detto panem et circences, alludendo al carattere  godereccio del popolo romano e ai mezzi subdoli con i quali l’imperatore cercava di tenerlo a bada, siamo ormai molto lontani dall’indole e dal comportamento dell’antico vir romanus. Gli antiqui mores, i costumi degli avi, prevedevano che il cittadino di Roma occupasse delle attività concrete della vita in particolare dell’agricoltura e della pastorizia, della pratica delle armi e dei riti religiosi propiziatori per ogni azione quotidiana. Tutto ciò che aveva a che fare col teatro o lo spettacolo in genere era considerato fuorviante e molle, indegno di un vero uomo. In Grecia le cose erano ben diverse e il teatro, le gare di atletica, gli spettacoli musicali erano considerati parte integrante della buona educazione di un politikos, un giusto cittadino. Il teatro era a tal punto considerato dai romani uno strumento di corruzione, che le leggi repubblicane impedivano la costruzione di teatri stabili e la professione dell’attore o del musicista fu sempre considerata di poco conto, contrariamente a quanto accadeva in Grecia, dove un attore poteva contare spesso su lauti guadagni. Gli spettacoli pubblici romani, i cosiddetti ludi, nascono inevitabilmente come elemento di contorno ad alcune celebrazioni religiose; in origine consistevano unicamente in corse di carri, ed erano connessi a rituali arcaici in onore mdi divinità agrarie o militari. Le prime corse si sarebbero tenute durante le celebrazioni dei Consualia, le feste in onore del dio Conso, istituite da Romolo poco tempo dopo la mitica fondazione della città. L’altare dedicato a Conso fu sistemato nella Valle Murcia, fra Palatino e Aventino: tale altare era sotterraneo e veniva portato alla luce durante le festività, a ricordo del ciclo della semina e del raccolto dei cereali, di cui il dio Conso era protettore.
Nello stesso luogo si svolsero le prime corse di carri istituite da Romolo durante le quali sarebbe avvenuto il famoso ratto delle, Sabine, che avrebbe dato inizio alla civiltà romana vera e propria: siamo nell’area del futuro Circo Massimo, il più grande edificio per lo spettacolo di tutti i tempi. La tipologia architettonica del circo deriva dall’ippodromo greco, con un impianto ingrandito, perfezionato e reso più monumentale. La struttura di base prevede un edificio quadrangolare con uno dei lati corti semicircolari. La forma grosso modo ellittica è chiaramente all’origine del nome le gare si effettuavano nella pista detta arena, divisa longitudinalmente in due da un lungo basamento, detto spina, alle cui estremità erano fissate delle metae: intorno a queste, costituite da colonne spesso sormontate da statue, dovevano girare i carri, con una manovra complessa che costituiva uno dei momenti più pericolosi della gara. Vicino alle metae sette uova o sette delfini di pietra, opportunamente disposti, indicavano ai concorrenti il numero di giri ancora da percorrere. La partenza avveniva dai carceres, appositi cancelli situati lungo il lato corto rettilineo, disposti obliquamente per permettere l’allineamento alla partenza. Sui lati più lunghi sorgevano le gradinate per gli spettatori divise in settori; quelli più vicini alla pista erano riservati ai senatori, mentre l’imperatore disporrà di una loggia speciale. Secondo la tradizione , la prima sistemazione in legno di un ippodromo nella Valle Murcia sarebbe stata opera del primo re etrusco di Roma Tarquinio Prisco, il quale, come già per il foro romano, avrebbero costruito un sistema sotterraneo di deflusso delle acque, la cloaca, per permettere di drenare tutta la zona e regolarizzare il terreno, ai primi sedili di legno si sarebbero col tempo sostituito gradinate in muratura, molto probabilmente in contemporanea con la costruzione dei primi carceres in legno 329 a.C. Forse negli stessi anni fu costruita anche la spina. Una seconda fase edilizia del circo, databile all’inizio del II secolo a.C., vide la costruzione dei carceres in muratura, di un arco trionfale al centro del lato curvo meridionale e la sistemazione sulla spina delle sette uova per contare i giri compiuti dalle quadrighe. La terza fase, corrispondente all’età augustea, fu caratterizzata dalla costruzione del pulvinar, una zona sacra riservata agli dei che presiedevano lo spettacolo, dall’aggiunta dei sette delfini di bronzo accanto alle sette uova e dall’istallazione sulla spina dell’obelisco di Ramsete II trasferito in Piazza del Popolo nel 1587. Una serie di incendi distrusse a più riprese il grande edificio che venne di volta in volta sempre ricostruito dai diversi imperatori .Ci è giunta la trascrizione di un’epigrafe commemorativa delle vittorie giudaiche di Vespasiano e Tito da collegare senza dubbio con un arco eretto dal Senato sul lato curvo meridionale intorno all’80 d.C. I pochi resti in laterizio visibili oggi sul lato curvo appartengono al restauro dell’imperatore Traiano all’inizio del secondo secolo d.C. Nel 357 Costanzo II aggiunse sulla spina un secondo obelisco, di Thutmosis III, proveniente da Tebe: esso fu collocato da Sisto V, sempre nel 1587, in piazza di San Giovanni in Laterano. Le dimensioni del circo erano eccezionali: lungo oltre 600 metri e largo più di cento, poteva ospitare circa 250.000 spettatori, o, secondo fonti dell’epoca, forse esagerate, addirittura 385.000. Il circo Massimo era utilizzato particolarmente per le corse dei carri- specialmente quadrighe cioè cocchi a 4 cavalli-, le più importanti delle quali avevano luogo nei Ludi romani o magni, dal 4 al 18 settembre. Il circo rimase in efficienza fino alle ultime gare organizzate da Totila nel 549. Nel Medio evo l’area del Circo Massimo fu utilizzata a fini agricoli e la presenza dell’acqua mariana, che ancora oggi scorre in profondità, permise di installare anche dei mulini. Sul lato sud si trova attualmente una torretta medioevale detta “della Moletta” appartenuta alla famiglia dei Frangipane, la stessa che aveva trasformato in fortino il cosiddetto Arco di Giano nel foro Boario, il grande arco quadrifronte dell’epoca di Costantino (quarto secolo d.C ) che sorge a pochi passi dalla chiesa di San Giorgio in Velabro. Nell’800 vennero qui impiantati capannoni e un gazometro, demoliti a partire dal 1911. Il circo fu quindi cementificato durante il ventennio fascista dai pilastri (anch’essi poi abbattuti) delle esposizioni sul minerale e sul tessile. Le prime e più importanti indagini archeologiche furono qui condotte negli anni trenta, interrotte purtroppo dalle numerose infiltrazioni d’acqua che imposero anche il reinterramento di diversi ritrovamenti. Gli scavi di questi ultimi mesi, condotti nell’emiciclo sud del Circo Massimo, hanno permesso di riscoprire quanto reinterrato nel secolo scorso. Fra l’altro sono state portate alla luce strutture murarie che confermano come in questa zona vi fossero anche “taberne”, ritrovate scavando oltre i pilastri delle gradinate superstiti. Ora che sono stati liberati dalla terra i pilastri, le basole della frequentatissima strada porticata, l’abbeveratoio e la fogna che serviva latrine e vespasiani, è possibile ricostruire la stretta connessione tra le “tabernae” esterne e quelle presenti dentro la struttura dell’antico circo che, come certi moderni impianti sportivi, funzionavano da punto d’incontro anche nei giorni feriali. Per la grande disponibilità di spazio aperto “non rovinabile” nel centro storico della città (il Circo Massimo è ancora dentro le mura Aureliane al centro di una enorme area verde e archeologica attraversata da numerosi mezzi di trasporto pubblico), il Circo Massimo è scelto sempre più spesso come sede per grandi eventi di massa: concerti, spettacoli, giubilei, manifestazioni sindacali, cortei per l’affermazione dei diritti trovano qui il loro spazio ideale.

  Da Luni mare
di Paola G. Vitale


Ieri sera,giovedì 10 maggio 2018, festa della mamma, abbiamo adorato Gesù Eucaristico, nel  Santuario di Nostra Signora del Mirteto, ad Ortonovo paese, anche per rendere omaggio ai religiosi Servi di Maria che ricordano un loro importante anniversario.
C'era una sufficiente presenza, proveniente dalle circostanti Parrocchie e il coro di Isola che, certamente in accordo con Don Carlo e Padre Mario, è venuto ad impreziosire la celebrazione.
Il tema eucaristico, nelle varie letture ed invocazioni, era la figura di Maria Madre di Dio, unione umile e totale col Figlio Gesù. Nei momenti di riflessione silenziosa, ognuno di noi si sarà chiesto quanto e come sia stata e sia un'unione con Gesù. Maria ci dice: "Fate quello che vi dirà" perciò, nel silenzio della propria anima, noi cerchiamo, troviamo e sperimentiamo la gioia di fare ciò che Gesù ci indica chiaramente. Conosciamo Dio in Gesù e per mezzo di Lui possiamo amarlo! …oppure svicoliamo in altre vie? ...... Meglio di no! Perché alla presenza di Gesù Eucaristico Gli stiamo umilmente chiedendo il dono di sante vocazioni sacerdotali, nella santità delle famiglie. Con umiltà Ti chiediamo: "Salvaci Signore" fino al prossimo incontro!

  Si avvicina il centenario della morte di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
di Romano Parodi


Si avvicina il centenario della morte di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

Una carrellata nella sua vita e nella sua opera

La casa

 

Oh, il piccolo salotto a pianterreno
col suo camino di bardiglio etrusco,
e la vecchia specchiera cui vien meno
l’argento, sotto un vel tenue di musco,
quel piccolo salotto da le mura
un po’ verdi, a gran mazzi di ginestra,
dove sembra un fantasma in su l’oscura sera,
il pomo che s’alza a la finestra;…”

 

Io sono nato e ho vissuto lì la mia infanzia. Del salotto però, mia mamma ne ricavò una cucina. Ricordo le pareti verdoline e i mazzi di ginestra, e penso che ci siano ancora. Un tempo la casa era tutta affrescata, dentro e fuori. Nella facciata lato mare, si intravvedono ancora dei ritratti. Oggi quelle stanze sono abbandonate e in vendita. E’ da allora che ho incominciato ad interessarmi dei Ceccardi. “Hanno regnato su Ortonovo per cinque secoli, più dei Medici a Firenze” - diceva Gianfranco. La mamma del vescovo Ambrogio Monticola, uno dei padri del Concilio di Trento, nato nel 1490, era dei Ceccardi ed il vescovo stesso è chiamato Ceccardus Lunensis nel librone dell’Ughelli. In questa grande casa, 17 stanze, bassifondi, giardino e chiostro, hanno vissuto consoli, notai, capitani, umanisti, scrittori, tanti sacerdoti e due vescovi. Nel ‘700 era uno splendore. Erano ricchi, anzi ricchissimi, basta vedere gli altari da loro eretti nelle nostre due chiese. Pensate: a metà del seicento Antonio Andreoli marito di Caterina Ceccardi, “amor sol”, istituì una scuola gratuita, fra le prime in Liguria, per tutti i maschi del comune, e lasciò anche un fondo post mortem che poi il comune, dopo 200 anni, con la nascita della scuola pubblica, incamerò, come in seguito s’appropriò e vendette anche il palazzo, per poche tasse non pagate: e Ceccardo, moglie e figlio sono nella miseria più nera.

“Così riveggo il tetto degli avi, sul poggio di Luni
con le finestre aperte tra ghirlande di olivi,
e immemore de’ lutti corro per l’orto, fanciullo:
chiamo gli usati nomi, e te, prima, speranza.... 
Piange il cuore del poeta egre sillabe alate...”

      

Gli ultimi due anni di vita di Ceccardo, malato, e ospitato caritatevolmente dagli amici più intimi, a Genova, a Lavagna, a Chiavari, a Carrara, a Pontremoli, a Viareggio, sempre con moglie e figlio; e poi, morta la moglie (a Lavagna da Sanguinetti), con il figlioletto, “attaccato alla sua cintola come un pennato”, dice Viani, è di una tristezza infinita. P.S. Mi par giusto dire che quando “Il Corriere della sera” nel ‘14, lanciò una sottoscrizione per Ceccardo ospedalizzato, il Comune di Ortonovo aderì con 15 lire (o 50?), accompagnandolo con commosse parole: “al forte cantore di Apua, l'espressione sincera del fervido augurio di pronta guarigione”.

       

Gli amori


A diciassette anni (‘88), si innamorò, di Emilia Novella*, per la quale, dalla delusione, provò a suicidarsi: si sparò al cuore, con il pistolone di casa, “cane a sei bocche che latra e morde nello stesso tempo”,  ma era così antico e vecchio, si caricava ancora dalla canna, che non riuscì a perforare il torace; poi si innamorò di Emilietta Venturini, ortonovese (abitava a Serravalle, penso nella casa dell’avv. Giannino Cervia), poi Gemma Catalani, di Fossola, poi Francesca Giovannetti, di Pieve Pelago, che sposò, poi, 47nne, già stanco, malato e vedovo, dieci mesi prima di morire, prese una cotta per la giovane maestrina Sidonia Serponi di Carrara a cui dedicò una bella poesia:

 

Io t’amo, io t’amo, né posso più questa dolce mia pena
tener costretta nel petto, né disfogarla in sospir…
”.


Una la dedicò a Emilietta Venturini:

 

O casa, cui s’abbraccia, alta, la vite …

guata casa, ove ascende la mia dolce amata

le vie di gioventù piane e fiorite;

e a torno è il grande pian lunigiano,

isole di verzure solatie

fra l’oro de’ maggesi e le pratìe

lande di Marinella al mar toscano…

O casa, dimmi: ti rammenti ancora
del vecchio sognatore, superbo re,

che i dolci sogni, rose de l’aurora

a spampanare, un dì triste cedé?....” 



Due le dedicò a Gemma Catalani, la perla lo dice anche Viani, è:

“Quando ci rivedremo”.

“Quando ci rivedremo
il tempo avrà nevicato
sul nostro capo, o amore;
avremo quasi passato
il mare, e sarà il cuore
più sincero e pacato.
Ma non avremo più remo:
io ne l’onda infinita
del sogno, tu, de la vita,
lo avremo infranto, o amore...
Guardandoci negli occhi
io non so, o amor mio,
se ancor sotto le vesti
ci tremeranno i ginocchi;
ma so che tu cercherai
di leggermi nel volto
il cammin dei più mesti
miei dì: e i pianti, e il desio
che fu ne l’ombra travolto...
Tu eri piccola e bruna, ricordi?
e amavi uno scialle
dai fiocchi lunghi, d’argento...
Crescean i fiocchi sul petto
che ancora seno non era…
Sarà quel tempo, quando
l’anima par che attenda
in pace, un’ala di sera
che a lei di contro protenda
il destino, cenando
il viaggio lontano”



Triste la poesia, scritta a Francesca tre mesi prima del matrimonio (presaghi entrambi di un triste destino?):

Perché piangi? Non sei tu Primavera? ….
Tu piangi, le tue lacrime nel mio
petto colando,
m’accendi in core...
Primavera di pianto e di desio
una vocal malinconia com’aria
in tra le rame di un cipresso geme”
.

Ma, dopo il matrimonio con Francesca, visse il periodo più felice della sua vita. Si capisce dal suo “capolavoro”, scritta, a Nizza, forse, durante il viaggio di nozze nel 1901:

Motivo d’Amore -
da molti, Montale, Caproni, Bò, ecc. considerata una delle poesie: “degna di stare nell’antologia, di vertice della letteratura italiana”.

“Mattin, col sole ridi
e gridi co gli uccelli;
ma più che il sole e i nidi
ride e grida il mio cuore,
ride e grida l’amore,
e il mio dolce desio
sfiorandole i capelli
sorpassa in mormorio
i nidi e gli arboscelli.

Una lirica. Descrive un momento d’intensa felicità, con una semplicità e naturalezza che non ha eguale.

 

       *Io, a differenza del prof. Carozzi e di Urio Clades, e parzialmente anche di Viani, che parla di un borgo del carrarese, penso che Emilia Novella, fosse di Pontremoli o di quelle parti. I Novella (Novelli?) avevano un negozio di mercerie (fulminanti, peperoncini, frustini, ecc). Gli amici di scuola, lo invitarono alla grande festa per l’inaugurazione della stazione di Pontremoli (1888): la ragazza (o donna*), gli fece gli occhi dolci, e il nostro partì in quarta. La delusione fu tremenda…. “Allora Ceccardo caricato il pistolone “mordi e latra”, con veccioni, sassi e pezzi di ferro, andò da lei a comprare otto centesimi di cappelletti” (inneschi) - dice Viani – “Se non mi vuoi mi sparo” – pens’io che le disse. “Lei li contò ad uno ad uno..., senza tremare..., indifferente, ti dico...” - dice Ceccardo a Viani - Viandante, è il tuo destino! Mi portai nel mezzo di un oliveto...salutai le stelle...e sparai contro il mio povero cuore”.  L’equivoco: “Mi gettavo sul direttissimo e quando alla grande curva del Magra sinuoso il treno rallentava io mi avventavo nell’aria e giù per filari di viti e di aerei pioppi correvo verso l’amata…” Il prof. Carozzi pensa che si gettava dal treno ad Avenza, per Gemma Catalani, mentre il dott. Clades pensa che si gettava nella piana di Luni per Emilietta Venturini; e così la pensa anche la Pistelli. Davano per scontato che il direttissimo proveniva da Genova, ma se invece andava su verso Parma? Il discorso sarebbe più logico, no? A Pontremoli c’è il Magra, e, proprio nel 1888, inaugurarono la ferrovia e probabilmente il direttissimo non fermava nemmeno ed era giocoforza doversi buttare.



P.S. - Pontremoli=Apua, con i suoi due amici più cari: Manfredo Giuliani e Luigi Campolongo, era la sua seconda casa. (Ceccardo fu anche direttore del giornale “Apua Giovane” di Pontremoli) -
“A Pontremoli - mi scrive l’assessore alla cultura Anna Repetti - c’era un’Emilia Novelli, ma aveva tredici anni di più” ... (mah).

(segue: I duelli e i processi)

 

 

 

 

  LE PRIME COMUNIONI A LUNI MARE
di Paola G. Vitale



Nella festa di Pentecoste, sette tra bambini e bambine della nostra parrocchia hanno ricevuto la Prima Comunione.
È stata una gioia ben meritata dall’impegno che Mila ha profuso sia nella preparazione dei piccoli, sia negli incontri con i loro familiari e genitori, sia nell’organizzazione del nostro piccolo spazio, nell’archetto in cui celebriamo. Questa mattina, festa della S.S. Trinità, festa di fede, una piccola è tornata a prendere la Comunione e allora credo che tutti noi abbiamo gioito e ringraziato il Signore e San Filippo Neri, la cui memoria era celebrata ieri, sabato ventisei maggio.
Vorrei dirvi che la liturgia di questo mese è veramente intensa e splendida come non mai, unita alla preghiera in onore di Maria madre di Dio e madre nostra; e allora la speranza, l’impegno e la gioia della fede regneranno anche in questo villaggio di Luni Mare a Dio piacendo.


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