N° 1 - Gennaio 2018
Storie dei lettori
  DIARIO DI UN PELLEGRINO
di Gualtiero Sollazzi


       


        RALLEGRATI!

Vicende amare, gravi problemi familiari e altro, hanno fatto perdere a molti il sorriso. In alcuni casi, anche la fede. P. Bernard Dullier, un amico di Dio, ha immaginato un dialogo fra l’uomo provato e il Signore. E’ assai bello e ricco di consolazione: “Eccomi davanti a Te, povero di una fede spenta, lontano dalla Chiesa, nella notte del dubbio. E Tu mi dici: “Ma io sono sempre accanto a te. Ho bisogno di te, come ho avuto bisogno di Tommaso e dei suoi dubbi per proclamare che sono il Figlio di Dio. Io ti ho guardato e ti ho amato così come sei. Rallegrati, allora: io pongo il mio sguardo su di te! Se lo vuoi, fai strada con me.”C’è un versetto del Salmo 63 che conferma, per ogni giorno, la ragione per camminare con gioiosa speranza: “Esulto di gioia all’ombra delle tue ali, Signore!”



           SETTIMO POSTO

Se si trattasse di Champions League, si sarebbe fuori. Non si tratta però di coppe, ma di fiducia. Con brutte notizie per la comunità ecclesiale. Da un’inchiesta recente risulta che, tra i giovani dai 15 ai 24 anni, solo il 38% ha fiducia nella Chiesa. “Crede” di più nell’Unione Europea, nelle forze dell’ordine, nel presidente della Repubblica. Così la Chiesa in questa particolare classifica è al settimo posto. Inutile rimpiangere ‘i vecchi tempi’ lamentandosi della ‘gioventù bruciata’ e altre amenità. Ci si sfoga soltanto.
Conviene chiederci: Che cosa fare per avvicinare alla Chiesa i giovani ancora lontani dalla fede? Con una “ricetta” di Paolo VI°: “Il mondo ha bisogno oggi di testimoni, più che di maestri.”
Forse occorre qualche segnale più esplicito di povertà; una Liturgia sobria, sfrondata da appesantimenti; comunità dove l’amore è legge e la condivisione un bisogno.
Più che con le strategie, i giovani si conquistano con fatti di Vangelo.

 


  SANT’ANTONIO ABATE
di Antonio Ratti



Il 17 gennaio è la festa liturgica di sant’Antonio Abate. Eremita egiziano, morto nel 357 secondo la tradizione nel deserto della tebaide (tra Il Cairo e Alessandria) proprio il giorno in cui la Chiesa ne fa la memoria. Nell’iconografia medioevale è rappresentato con un maialino ai suoi piedi ed è considerato protettore degli animali domestici.  Antiche leggende, per sottolineare il suo amore verso queste creature del Signore, sostengono che, durante la notte che ricorda il suo decesso, è data agli animali la facoltà di parlare.
Per ribadire quanto fosse grande il rispetto verso gli animali da parte di tanti grandi santi ( ricordiamo san Francesco ) mi è tornata in mente la preghiera in loro favore di uno dei massimi Padri della Chiesa:
“O Signore, accresci in noi la fratellanza; concedi che essi possano vivere non per noi, ma per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, come noi, la dolcezza della vita e ti servono nel loro posto meglio di quanto facciamo noi nel nostro.”  
(San Basilio Magno, dottore della Chiesa, 470 d.C.)

Meditarla seriamente può essere un esercizio proficuo e un metodo di valutazione del nostro quotidiano stile di vita.



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  STRADE DI CAMPAGNA
di Ceccardi Roccatagliata Ceccardo


Gazzetta del Popolo di domenica 29 luglio 1894

STRADE  DI  CAMPAGNA

 Ceccardi Roccatagliata Ceccardo

 

Le vie maestre, bianche e larghe, del vecchio piano sono due o tre: si torcono tra mezzo a’ campi; salgono, scendono, finché non tocchino i borghi; a destra e a manca sono sempre molte siepi di pruni, dei pergolati lunghi e qualche casolare, e lassù presso i pioppi della Parmignola, qualche molino… ma le viuzze verdi, fra due muri di macigni, larghe un palmo, lunghe una ghiarete, a fianco d’una gora… chi le ha mai contate? E pure quante ne ricordo! Quante ne ho ancora negli occhi, come se fosse poche ore appena che le avessi rivedute! Variano tutte, e sempre; or son tappeti d’erbe, ora liste di margherite, di ranuncoli; talora sparse di ciottoli. Qua e là il sole le fa tutte d’oro.
Pure i contadini del luogo le sanno tutte a mente: dove cominciano, dove si perdono e si trovano…quella è la scorciatoia di Valle, quella laggiù di Fossamaronca …. sanno del tronco messo a mo’ di ponte sopra lo stagno, quella gira nel campo di San Pero, dove è il ciliegio che ha cento anni, quell’altra in mezzo al canale degli Altivolti dove lavano le giovanette…, in mezzo ai vigneti di uva americana…E così via via le piccole strade verdi, le venuzze vanno, vanno….E poi si ricongiungono di nuovo, ingrossano, diventano acciottolati E poi finalmente, a una giravolta metton capo allo stradale bianco – la via Maestra  – dove il sole batte accecando, e passano i barrocci dei molinari, sollevando nembi di polvere.
Io le amo tutte, note e ignote, battute e non battute, ombrose e solatie. Ogni volta che torno al mio vecchio piano ne ricalco sempre qualcheduna: perdo sempre qualche ora per smarrirmi nei suoi dedali, per fremere ancora nella voluttà di una gioia passata, per sentirmi nel pensiero, quel soave rullio che m’infonde il sentimento d’un ricordo un po’ nebuloso, ma pur molto caro e assai dolce all’anima mia…
Laggiù negli oliveti di Valle, per esempio, sopra la via di Monteverde (la via del Tamburin, che gli ortonovesi percorrevano per andare alla stazione d’Avenza), l’anno triste che morì mia madre, ho colto le prime viole. Era un meriggio di febbraio assai diffuso: venivano voci di letizia un poco indistinte, che palpitavano al sole. Ed io ho pensato: Queste povere viole le porterò a lei lassù a mezzo colle, nel vecchio camposanto… Che poteva far per lei nell’inverno il suo povero figliolo? Era tutto gelato. La nebbia velava il borgo (Ortonovo), la pioggia sbatteva sui vetri, il vento urlava… Non era essa sparita fra le nebbie e le piogge, a novembre, come un fantasma? Ma ora che tornano l’azzurro e il sole ed esortano ad amare, io le porterò i primi fiori…ella vedrà che il suo figliolo si è ben ricordato di lei…
E perché dimenticarsi delle vecchie madonne? delle vecchie sante che vegliano i campi, i casolari, i boschi? Sono così modeste! Su piccole nicchie, su lastre di marmo – corrose, soffuse di muschi – ora murate su un muro di selci, sovra la porta di un casolare… ora perdute in fondo a una conca romita, oppure, proprio nel mezzo a un crocevia deserto, dove gli avi temevano che i demoni convenissero con le streghe a mezzanotte a far tregenda… Benché io non credo, le amo: le amo così, per i ricordi che di esse devono sapere e sanno, per tutto ciò che hanno veduto e han potuto vedere… pei molti soli che han coronate d’oro, per le molte piogge che le han solcate di lacrime… Esse fanno crescere e ben granire le biade, esse faran fiorire molti grappoli sulle pedane.
Ave o regina cieli… A tempestate libera nos, Domine…
Esse allontaneranno dalla casa degli avi la tempesta e la fame…
Pure a me piacciono quelle che sono smarrite fra i campi, nei sentieruoli, e, non han ceri a maggio, e non hanno altre corone che degli intrecci di vilucchi, nati sotto, nei poggi, tra macigni e macigni.
Sotto, ognuna di quelle immagini ha un’iscrizione; altri tempi, altri ricordi, altri sogni: vecchi miracoli e fede di anime… sono due o tre righe al massimo, in latino molto scorretto, intendibile anche alle più tardi intelligenze. Così: Sancta Maria ora pro nobis 1550. Oppure: Ex dev.ne Dom.cus Francios.us F.F.An D. 1612. Attorno, il piccolo simulacro che circonda la santa è già roso dal tempo, i mattoni dell’archivolto sono smussati… sotto, il muro di macigno frana tra una gran macchia di more spinose; qualche ondata di ortiche s’innalza audacemente… eppure la vecchia lastra di marmo effigiato è sempre là, da quattrocento anni… I muschi, le crittogame l’arrugginiscono, la corrodono; qualche mano iconoclasta la ingiuria atrocemente, eppure la vecchia iscrizione balza di sotto sempre alla vista dei passanti, oltre il bigio dei mattoni, e l’ondata delle ortiche…

 

Val di Luni

Stanno sempre le Sante a vigilare

su la placida via di Serravalle?

…. ma poi che ha vespri luminosi

più non vedono passar il Sognatore,

che mai pensan di lui in fondo al cuore?

di lui che aveva nei mesti occhi pensosi

tanti sogni ed in cuor?

Che amava il sole

i chiaroscuri verdi, i ciclamini,

i pioppi grandi e i rosei bambini,

che baci amava cogliere e viole?



  Conferenza del 2 dicembre 2017
di Romano Parodi



Cari amici, il libro di Massimo Marcesini, mi ha entusiasmato. L’ho letto più volte. Quello che emerge da questo libro è il grande fermento ideologico che c’era a Ortonovo dalla seconda metà dell’800 ai primi anni del novecento.
Nel paese c’era un conflitto continuo fra, socialisti, repubblicani, monarchici, anarchici, comunisti.
Lo sapete perché Ferrari Battista, socialista sfegatato, fu chiamato Batiston?
Mi raccontava mio nonno che una sera i mazziniani lo picchiarono selvaggiamente. Da quel giorno, quando usciva di casa aveva sempre un nodoso bastone, e siccome non lo lasciava mai, fu chiamato Batì dal baston, poi Batiston.
Nel libro di Massimo vi ho trovato la conferma di tutto quello che ho pensato e che scrivo da molti anni sul “Sentiero”. Io parlavo solo in base a “leggende paesane”, lui a differenza di me, ha documentato tutto. Vi ho trovato il nome di tre bisnonni e anche di una bisnonna. Mio nonno e la mi ze’ Ida (d’ batiston) mi parlavano spesso di quella tragica storia. Mio nonno aveva anche un tredici d’oro in ricordo di quel 13 gennaio del 1894. “T sen brut com’l tredisha” diceva un vecchio adagio.
In tempo di guerra ne hanno fatto un’anonima catenina. La mi zé Ida mi raccontava la leggenda d Fasholin, che conobbe, al tribunale di Massa; “Su su per quelle scale, su su per gli scaloni, davanti ai parrucconi per dir la verità.
La verità  a dè questa: à n’abiam fato gnenta, ci tolga la catena, ci dia la libertà - Gherardi Guido cosa avete da dire a vostra discolpa? - Signor presidente, signori della corte, se la fame di pane e di giustizia è una colpa, sono colpevole, se no rimandatemi da mia moglie e da mio figlio”. Sedici anni di carcere, sentenziò la corte. ” O giornate del ‘94, giornate piene di speranza, abiam messo giù l’aratro per la grande seminanza, ce l’ha tolta la canaglia di quel’Heusch cane feroce…” diceva la canzone di Fasholin.

Una leggenda paesana, racconta che i soldati del generale Heusch vennero  nel paese assieme al maresciallo e ai carabinieri per arrestare i dimostranti.
Si accamparono in chiesa San Lorenzo, perché molti fuggirono sui monti della Zura e di Volpiglione. Impiegarono giorni per farli scendere, convincendo tutti con colpi di fucile e promesse di pene lievi. Artefice primo, ma non unico, di queste promesse fu l’abate Montefiori (il Collefiorito di Ceccardo) che assieme al maresciallo convinsero le famiglie degli “imboscati”. Sappiamo poi, come andò a finire. E proprio per questo l’abate subì molti attentati negli anni a seguire.

Oggi anche di queste “leggende metropolitane” c’è traccia nel libro di Carlo Lucarelli: “Sotto la luna”, dato come inserto dal Corriere della Sera, un paio d’anni fa.

Racconta la vita sanguinaria di questo generale toscano. Egli nella campagna d’Africa lasciava i morti sulle strade come deterrente contro la popolazione indigena. Racconta inoltre che in Lunigiana, per catturare gli anarchici arrivò, anche a bombardare alcuni paesi a monte, sembra Ortonovo e Bedizzano.

Altra leggenda metropolitana racconta che negli anni a seguire, quando nelle vicinanze (Sarzana, Carrara, Spezia) passavano o sostavano uomini di governo o della famiglia reale, gli ex galeotti ortonovesi, dovevano andare in caserma, e se non si presentavano c’era ancora il carcere, come successe a molti, compreso Fasholin.

Altra leggenda, questa però, vera, racconta che alcuni di questi galeotti, cambiarono il nome ai figli (un tempo le colpe dei padri ricadevano sui figli): Maberini (Aramini), Bruschi (Gualtieri), Pedroni (Menconi), ecc.


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  LA “MAGIA” DI UN FRUTTO
di Millene Puglia


    


Il melograno si potrebbe definire il ‘re’ dei frutti autunnali, perché quel rosso così vivace non ha eguali tra le piante che si stanno preparando al riposo invernale. Non per niente è considerato un frutto ‘magico’ e portafortuna.
Molti avranno visto come in certi film ambientati nel Medioevo il frutto del melograno facesse bella mostra di sé sulle ricche tavole dove i nobili del tempo banchettavano. Altrettanto in molti affreschi e dipinti, specie di nature morte, di autori famosi.
La bellezza del melograno inizia con lo spuntare delle prime gemme verdi, che annunciano la primavera, seguite dai bellissimi fiori arancione. I piccoli frutti, verdi e poco appariscenti, si sviluppano rapidamente sul finire dell’estate per diventare quasi d’improvviso grandi e colorati di un rosso acceso con tante sfumature più o meno chiare che danno il caratteristico aspetto esteriore.
La pianta del melograno non è soltanto bella, ma è anche forte e molto resistente alla siccità, al terreno arido e povero ed è originaria del lontano Oriente, così ricco di storia.
Nel nostro piccolo le piante del giardino vengono …. da lontano attraverso un percorso locale e, direi, familiare, fatto di piccole tappe sparse nel tempo. Infatti la pianta di melograno del nostro giardino (diventata poi più di una) viene dalla vicina Villa Malaspina di Caniparola, perché le ville nobiliari dell’800 (ed anche più antiche) avevano i loro giardini abbelliti da piante belle e rare. Il marchese Malaspina era uno di quei nobili che curava il suo giardino per renderlo sempre più attraente. Già da fine ‘800 mio nonno Angelo, che aveva in gestione il suo mulino ad acqua, oltre al lavoro aveva con il marchese un rapporto di grande stima reciproca, perciò non fu difficile per lui avere una di quelle piante che per molti anni fece bella mostra di sé, forte e vigorosa, davanti alla casa-mulino dove i nonni Angelo e Assunta vivevano, in Val d’Isolone.

Purtroppo, come sempre succede, al termine della loro vita, il mulino cessò di funzionare e la casa diventò presto disabitata, con il terreno intorno incolto e abbandonato. Solo la pianta del melograno, sebbene non più potata e lasciata al suo destino, conservava la sua bellezza rimanendo lì a testimoniare con i suoi splendidi frutti che in quel luogo, un tempo, c’era stata la vita.

Nei racconti di mia madre Argentina si parlava spesso anche di questo. Quando mio marito Silvano ne venne a conoscenza, gli si accese la curiosità di andare a vederla durante uno dei suoi abituali giri da cacciatore a est di Caniparola. Innamorarsene e decidere di prendere alcune piantine da quel grande cespuglio, per Silvano, era stato un tutt’uno. Così dagli anni ’70 ci godiamo della bellezza di un melograno dalle ‘nobili’ origini. A parte l’aspetto estetico dell’albero, i suoi splendidi frutti sono una ricchissima fonte di oligoelementi dalle preziose proprietà nutritive e medicinali.

Chi ha pazienza può gustarsi un chicco dopo l’altro, altrimenti si può consumare sotto forma di spremuta: oggi esistono i mini estrattori di succo e polpa che riducono la fatica e lo spreco.

Per noi comuni mortali del terzo millennio, dove l’obiettivo di tutti è di vivere il più a lungo possibile, è il frutto ideale (o dovrebbe esserlo), poiché combatte i famosi ‘radicali liberi’, unità molecolari che ‘attaccano’ le nostre cellule rendendole deboli e fragili e che sono la causa prima dell’invecchiamento.

Credo di non esagerare se penso che queste salutari proprietà rendono ancora più ‘magico’ il frutto del melograno, detto anche melagrana. Forse… sarà questa la ragione che lo rende anche un frutto ‘portafortuna’?        

 

  Ricordi di un tempo passato
di Maurizio Aramini


Io leggo spesso il "Sentiero" e solo raramente trovo  articoli di persone che raccontano la loro storia. Siccome ritengo invece importante rievocare fatti realmente accaduti che sono rimasti scolpiti nella nostra memoria, in quanto costituiscono la nostra storia di vita, mi accingo a riportare alcuni episodi che riguardano la mia fanciullezza e giovinezza.
D'estate, siccome ero libero, non avendo l'impegno della scuola, mio babbo mi svegliava di buon'ora per portarmi nell'"Ardfelcia" ad annaffiare i fagioli. Si partiva quando appena albeggiava, e qualche volta era ancora notte, per essere i primi ad approvvigionarci dell'acqua del canale ma, dopo un po’, l'acqua calava: evidentemente qualcuno l'aveva presa più in alto, dato che noi eravamo gli ultimi ad utilizzare l'acqua del canale. Allora, bisognava correre a vedere chi si era intromesso per poterla recuperare ed immetterla nuovamente nel canale, senza neanche curarci di chi era stato l'artefice di questa intromissione. Allora l'"Adelcisa" era tutta coltivata a fagioli e mio babbo aveva utilizzato, per la semina, due "piane" in mezzo al castagneto.
Una persona, di cui ricordo benissimo nome e cognome, aveva tagliato un pezzo di bosco per ricavarne una fossetta che gli consentisse di portare l'acqua al suo terreno e poterci seminare. Erano tempi davvero duri e tutti dovevano arrangiarsi come potevano ed allora riaffiorano i ricordi più strani: mi ricordo quando la Zabè nella tarda mattinata raccolse un pomodoro, l'unico maturo e me ne diede una metà per portarlo a casa. L' altra metà doveva portarlo a casa per la sua famiglia. La Zabè era la zia di mia mamma e ci aveva affidato un terreno da coltivare.
In occasione della vendemmia suo genero portava il carro trainato da una mucca e lo lasciava al "Flicin" e quindi, attraversato il ponte, veniva nel vigneto. Caricato il carro, si andava a casa della Zabè che disponeva della cantina e dell'attrezzatura per vinificare.
Quando ripenso a queste cose mi prende una grande tristezza: ora l" Ardfelcia" è diventata un bosco in totale abbandono e pensare che allora non c'era un metro di terreno che non fosse coltivato!
Quando , d'estate, mio babbo non mi portava nell' "Ardfelcia", mia mamma mi portava in Valle e preparava un bel fascio di legna ed io lo avrei dovuto portare a casa sulle spalle. Per me era davvero un gran supplizio. Valle allora era interamente coltivata e forniva l'olio per tutto il paese. I coltivatori tutti gli anni la vangavano tutta. Ricordo che ai piedi di ogni pianta si facevano dei buchi per poter interrare il concime. Ma i risultati si toccavano con mano!
Il mio capo cantiere, quando lavoravo come muratore con Gatto Ronchero, mi diceva: "Se Ortonovo dà il via all'olio che produce, il Torrente Parmignola trasporta olio per una settimana!". Ora invece quasi tutti gli abitanti di Ortonovo devono comperare l'olio necessario per la famiglia e Valle è diventata un bosco in totale abbandono.
Per raggiungere Valle si potevano utilizzare tre strade: Via dei Cerri, Via di Mezzo e Via del Pino. Ebbene Via dei Cerri è ancora praticabile grazie al C.A.I. di Carrara che provvede alla sua manutenzione, dato che unisce la Toscana alla Liguria e finisce davanti al Ristorante Giramondo di Massimo.
Via dei Cerri ad un certo punto si divide in due ed è difficile individuarne il seguito. Lo conosco io perché sono pratico e conosco quel territorio palmo a palmo.
Via di Mezzo parte dal Santuario, dove incomincia anche Via dei Cerri e, a Piastorla, si biforca. Anche la Via di Mezzo, che percorrevo io per andare in "Piccion", si divide ancora formando il "Viol d Mezzo"che finisce in un oliveto e la Via di Mezzo che finisce nella "Macchiaccia", dove scorre un canale che d'estate si prosciuga e divide la Liguria dalla Toscana.
Poi c'è Via del Pin che è praticabile fino ad un certo punto, grazie ai cacciatori che provvedono un po’ alla sua manutenzione.
Io ricordo quando, d'estate, accompagnavo le pecore al pascolo ai "Carisciari", una località sovrastante Valle. Allora i prati erano tutti puliti perché nella tarda primavera veniva falciato il fieno.
L'ultima volta che mi sono recato in Valle, in quanto sono amante della caccia, ho provato un senso di profonda desolazione: il fuoco aveva distrutto tutto e questo anche per l'incuria dei proprietari. Mio babbo mi diceva: “Prima hanno abbandonato i Carisciari, poi hanno abbandonato l' Ardfelcia e quindi vedrai che abbandoneranno tutto il resto". Purtroppo, oggi devo ammettere che mio babbo aveva perfettamente ragione ed è stato un vero profeta.

  Una giornata a CASA SERENA
di Marta


                                    

Sono andata a fare visita ad una mia parente, ospite di Casa Serena.
Al primo impatto il luogo mi è piaciuto, perché è un edificio solare, ubicato nella facciata del paese; da lì s’intravede il mare, ma è circondato da boschi di cerri, da cui il paese prende il nome, e da colline frondose , un po’ merlate come un saliscendi, ora alte fino alle nuvole, ora basse a sfiorare il mare.
Il clima è mite, molto salubre, ora odora d’incenso, ora odora di salsedine.
Appena entrata nell’edificio, sono rimasta meravigliata dall’aria di festa e tutt’attorno tantissimi fiori molto variopinti fatti di carta. Vengono preparati dalle stesse nonnine durante il giorno ludico e li eseguono con amore, certo non tutte, solo quelle che ci riescono, mentre le altre lavorano con gli occhi.
Tutte sedute, chi in poltroncina, chi su seggiole, chi in carrozzina, attente alle parole di Agata, una bella signora con occhi chiari e capelli rossi, l’intrattenitrice delle nonnine, che con tanto garbo e rispetto ritaglia con le mani i petali dei fiori o prepara stelline per decorare l’albero di Natale e altre cose. Nei momenti di pausa, legge sul quotidiano tutte le notizie, anche di politica, per tenerle informate, sport e gossip; sono molto aggiornate e ognuna vuole dire la sua. Le interroga per stimolarle al ragionamento, certo le più argute rispondono subito, le altre si limitano ad ascoltare. Durante il pomeriggio, dopo un piccolo spuntino, o merenda, anche perché la cena è servita presto, alle 18,30, insegna le poesie. Il giorno della mia visita, stava leggendo La cavallina storna di Giovanni Pascoli, spiegando che era dedicata al padre del poeta ucciso da un colpo di fucile sparato da un ignoto nascosto dietro una siepe, mentre la sera tornava a casa sul calesse trainato dalla cavallina. C’era chi la sapeva e la ripeteva ad alta voce.  Durante un’altra visita – era il giorno del karaoke -  che bello sentire cantare le canzoni di quando erano ragazze, riaffiorando così i ricordi di quelle vite vissute ed il bello è che sono emersi solo ricordi felici, si incominciava con la mazurka, Claudio Villa, Mina, Celentano, Vasco Rossi, fino ai nostri tempi.
La nonnina più anziana, ospite di Casa Serena, ha 102 anni, ma ne dimostra dieci di meno. Durante altre visite, mi sono imbattuta nel giorno del pedicure, c’è anche il giorno del parrucchiere: tante stavano in fila in attesa del proprio turno nella saletta, mentre nel salone recitavano le preghiere cantando canzoni dedicate alla Madonna e poi…. ancora indovinelli e filastrocche, ecc.
La giornata a Casa Serena comincia presto al mattino; prima vengono aiutate le ammalate a lavarsi e vestirsi, poi tutte giù in sala da pranzo per la colazione; durante la mattinata vengono eseguite le terapie che ognuna ha da fare, infatti sono presenti dottori, infermieri, fisioterapisti, psicologi. Dopo il pranzo e un sonnellino, ecco un altro pomeriggio con tanti intrattenimenti, secondo il programma settimanale. Un giorno sono arrivate le suore con la statuina della Madonna di Fatima: hanno distribuito le coroncine del rosario.
Erano felici le nonnine, come bambine che hanno ricevuto un regalo.
Luana, una giovane signora che lavora come assistente, è una forza della natura e un dono del Signore, per la grande simpatia e bontà d’animo che dona a tutte, che desiderano parlare, parlare e sentirsi vive nei loro ricordi.
C’è chi le chiede dov’è Corso Cavour numero…, come si fa ad arrivarci, perché l’aspettano; c’è chi vuole telefonare alla mamma , malgrado lei abbia 95 anni. Luana ha sempre una risposta soddisfacente per tutte. Non posso che sottolineare i meriti che hanno tutti e tutte coloro che prestano servizio a Casa Serena, di cui non conosco il nome, poiché ho notato come lavorano sodo e con serietà: cambiare pannoloni a tutte durante la giornata, lavandole più volte al giorno fino al dopo cena, quando vengono sistemate per andare a letto, augurando loro la buona notte e sogni felici, non è un impegno facile, specie se ripetuto nel tempo, ricordando anche che gli ospiti di Casa Serena sono quasi sessanta. Per le nonnine di Casa Serena e per tutti sia un buon 2018.

  Il Teatro della Luna
di Giorgio Bottiglioni


Il teatro, luogo pubblico per eccellenza, nasce, in quanto struttura architettonica ben definita, in Grecia, dove viene codificato un preciso schema costruttivo basato su alcuni elementi fondamentali. Il teatro greco si presenta come una struttura a cielo aperto, imperniata sulla centralità dell’area riservata al coro (la cosiddetta orchestra); sfrutta per il koilon, l’ampia sezione circolare di gradinate per il pubblico, il pendio naturale di una collina; tangente all’orchestra e separata dai lati terminali del koilon da due corridoi d’accesso per gli artisti e il pubblico, si alza la skenè, l’edificio scenico.  Sebbene la prima opera teatri e in lingua latina sia stata rappresentata a Roma nel 240 a.C. per volontà del suo autore Livio Andronico, i Romani iniziarono a costruire teatri in muratura solo molto tempo dopo perché ritenevano le rappresentazioni che in essi si sarebbero svolte troppo molli per un pubblico che invece doveva perpetuare il carattere virile dei propri antenati. Quando decisero di costruire i primi teatri sul finire del 1°secolo a.C., gli architetti romani apportarono alcune modifiche al modello greco; le gradinate semicircolari riservate agli spettatori non erano più costruite  sfruttando un declivio naturale, ma poggiavano su una struttura portante in muratura, così da costruire un edificio disponibile ad ornarsi di una facciata esterna particolarmente vistosa; lo spazio dell’orchestra diventa semicircolare (conistra) ed era destinato ad ospitare le poltrone degli spettatori più illustri; la scena, dotata generalmente di 3 o 5 ingressi, diventava sempre più monumentale. Tra i migliori esempi di teatro romano c’è il famosissimo Teatro di Marcello a Roma, nel Campo Marzio Meridionale, poco lontano da Piazza Venezia.  Se si esce dalla capitale dell’impero e si estende lo sguardo sul suolo italiano si possono identificare entrambe le tipologie architettoniche, greca e romana; questo perché tutta l’Italia Meridionale e la Sicilia erano state colonizzate dai Greci ben prima che Roma diventasse una grande potenza militare. Pertanto la tipologia del teatro romano si sviluppa per lo più nel Centro-Nord Italia arrivando in alcuni casi a risultati davvero eccellenti. Nella primissima età imperiale un centro di straordinaria importanza la piccola città di Luna, sui confini settentrionali della Regione Etruria, oggi facente parte, dal punto di vista amministrativo, dell’estremo levante Ligure. Luna, era una colonia romana fondata nel 177 a.C. durante le campagne contro la bellicosa popolazione dei Liguri. Quando, con l’imperatore Tiberio, si iniziarono a sfruttare grandemente le vicine cave di marmo delle Alpi Apuane, Luna, divenne famosissima e dal suo porto venivano imbarcati i grandi blocchi destinati ad adornare i principali monumenti di Roma, In concomitanza con lo svilupparsi dell’attività estrattiva, Luna, fu dotata di un teatro che trovò posto nell’angolo nord-orientale del perimetro delimitato dalle mura cittadine. Le gradinate sono rivolte a nord, come prescritto da Marco Vitruvio Pollione che, nel suo De Architectura, raccomanda che, i teatri non siano orientati a mezzogiorno per evitare che il caldo vi ristagni, sempre secondo le prescrizioni era ben protetto a nord oltre che dal muro della città, anche dal muro della scena. Esternamente il teatro si presentava come una grande struttura rettangolare dotata di un portico sul lato meridionale e di 6 ingressi, di cui 2 davano accesso alla conistra e gli altri 4 alle gradinate.  Il livello pavimentale della conista è segnalato in situ da un piano di malta molto deteriorato, originalmente rivestito di lastre di marmo.
Dall’anello che recinge la conista si conservano a est bassi e larghi gradoni con lastre di marmo di reimpiego destinati ai posti d’onore, i cosiddetti subsellia. Del complesso della scena rimangono il fatiscente muro frontale del palcoscenico nel quale si aprivano nicchie curvilinee che dovevano ospitare elementi decorativi. Particolare interessante è, subito dietro il frontale, il canale nel quale era contenuto il sipario (aulaeum), formato fa più teli e che, come tutti i teatri antichi, veniva azionato dal basso. Il meccanismo funzionava grazie ad alcuni pali di legno che andavano ad azionare un argano con dei contrappesi. Delle gradinate, nella classica forma semicircolare qui iscritta nel grande rettangolo che delimita l’edificio, non resta granché a causa delle spogliazioni di materiale edilizio operate dai contadini e dalle installazioni militari tedesche nel corso dell’ultima guerra, qui particolarmente presenti data l’estrema vicinanza con la Linea Gotica. Fra i materiali recuperati nel corso degli scavi di fine ‘800, che spogliarono il monumento del suo apparato decorativo marmoreo, figurano alcune sculture di alta qualità, che dovevano decorare la fronte-scena o essere esposti nei vani adiacenti la cavea. Fra tutte spicca il busto-ritratto di Tiberio, oggi visibile al Museo Civico della Spezia, imperatore, come già detto, che fece la fortuna della città promuovendo l’attività estrattiva delle cave di marmo. Oltre al Teatro. Il sito archeologico di Luna offre altri interessanti monumenti, alcuni dei quali ancora ben conservati: il Grande Tempio, probabilmente dedicato a Diana/Selene, il Foro delimitato a nord dal Capitolium, la Domus dei Mosaici e quella degli Affreschi, l’Anfiteatro costruito all’esterno della cinta muraria è orgoglio, benché poca cosa rispetto al Colosseo, della gente del luogo.

  LE MACCHINETTE ...E IL LORO USO
di Paola G. Vitale



La seconda domenica di novembre, eravamo invitati da mia nuora Paola è così ho avuto occasione di godere la gioiosa compagnia della famiglia attorno alla tavola. Quanto è più gustoso il cibo stesso, in compagnia!
Piano piano il pomeriggio è trascorso e un mio nipote mi ha portato una scatoletta di video giochi, mettendo in vista il gioco della scopa a carte quaranta. Dapprima ero un po’ impacciata, poi ci ho preso la mano ed era facile andare avanti di gioco in gioco. Mi sono accorta che era più facile continuare a giocare piuttosto che smettere. Ho pensato: "Non è poi così facile per alcune persone di darsi l'ordine di smettere, di finirla lì "! Ecco perché alcune persone buttano cifre enormi nelle "macchinette"! Riflettiamo gente, riflettiamo!


 

  Auguri
di Luigi Testa


I miei auguri consueti a tutta la redazione ed ai lettori del Sentiero,
con la speranza che il nuovo anno ci porti un mondo migliore in cui regni la pace e, l’amore.
Luigi Testa

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