N° 1 - Gennaio 2016
Storie dei lettori

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  Appunti di un Pellegrino
di Gualtiero Sollazzi



Ma sono buoni…
Sosteneva quel babbo a proposito di figli, ricevendo una risposta beffarda: “Buoni? A nulla!”.
Abbiamo visto i Black Bloc devastare una città con ogni mezzo. Fabio Fazio ha notato (buonismo strano...) che è stato “tutto misurato e circoscritto.) Forse le macchine da bruciare o i negozi da distruggere dovevano essere di più? Il padre di un ragazzo che si definiva appagato nello sfasciare tutto, lo ha definito “un pirla”. Non c’è che dire: un genitore garbato, ma sicuro di ben educare? In ogni caso, il fenomeno di giovani scatenati per ogni evento, dal G8 all’EXPO, è inquietante. Si dovrebbe riflettere sulle cause.
Certamente, c’è l’influsso di cattivi maestri. Si pensi al ‘68: giovani gettati allo sbaraglio, affascinati da un cambiare tutto fino a giungere al terrorismo armato e finiti male, i più; mentre i “maestri” si sono poi sistemati in cattedre universitarie o in ben rimunerate presidenze di Enti pubblici o a pontificare sui giornaloni. Ieri e oggi.
Come cristiani, il problema “giovani con la voglia di spaccare”, dovremmo metterlo in agenda. Parlarne a tutti i livelli e cercare con fatica e passione lo snodo per dare luce a chi brancola così nella vita. Ha ragione De Balzac: “Ogni ora perduta durante la giovinezza, è una possibilità di infelicità per l’avvenire”.

 

Unitade!

Impressionante, la folla sulla piazza di Bucarest.
Di fronte a Giovanni Paolo II in visita; a tanti esponenti della Chiesa ortodossa gridava insistentemente: “Unitade, unitade!”. Quei cristiani sentivano vive le ferite della divisione.
“Ferite” non ancora rimarginate.
La divisione è un brutto segno anche per evangelizzare. Ne sanno qualcosa i missionari, talvolta derisi per questo. Ma quanto il problema interessa alle nostre parrocchie? In soldoni: quanto si prega per l’unità dei cristiani? Quanto si opera perché sia fatto qualche passo in più? Forse non ci tocca abbastanza la preghiera di Cristo nel Cenacolo “Fa’ che siano una cosa sola…”.
Una giovanissima suora di clausura, suor Gabriella, offrì la sua vita per la causa dell’unità.
Aveva capito tutto, e donò tutta se stessa. Se ogni cristiano si impegnasse davvero per la veste lacerata dell’unità, forse qualcosa succederebbe.
Scrive don Mazzolari: “La primavera incomincia con il primo fiore!”.


  Coro di animali intorno alla grotta di Betlemme
di Sconosciuto



L’ape, che la notte di Natale stava nel suo bugno nel cavo del tronco d’una quercia, sentì tutto il viavai che c’era lungo il viottolo e s’affacciò per chiedere cosa fosse successo. Le risposero che in una capanna vicina era nato il Redentore del mondo e tutti correvano ad adorarlo e ringraziarlo. L’ape voleva uscire, ma si accorse che il freddo l’avrebbe fatta morire, per cui si ritirò nella sua celletta, ma promise che da allora avrebbe fatto più miele per i bambini e più cera per illuminare gli altari. Così fa ancora e, se si ascolta bene, la si sente che mentre lavora recita continuamente le preghiere.

Il ragno era dentro il buco d’un travicello, assistendo allo splendore di luci nella stalla non si rendeva conto di cosa stesse succedendo e vide che tutti arrivavano portando doni al Bambino che vagiva sulla paglia. Si accorse che dalla finestra rotta entrava il vento gelido della notte e andò a chiudere le aperture delle imposte tessendo la tela e così fornì di tende la stanza, e il Bambino non ebbe più freddo. La Madonna lo benedisse e disse che da quel giorno la fortuna sarebbe stata nella casa dove si trovasse il ragno e da quel giorno nessuno lo scaccia più dalla propria abitazione.

La lepre stava girando per i boschi quando vide la grande luce che usciva dalla grotta di Betlemme e corse a vedere cosa accadeva unendosi agli altri animali e alla gente che s’affrettava verso i canti che si sentivano lontano. Quando giunse alla grotta adorò anch’essa il Bambino ma, quando si volse per tornare alla sua tana, ecco che vide tra le altre bestie gli occhi rossi della volpe che l’aspettava per divorarsela, e allora prese a tremare di paura avvicinandosi alla Madonna. La Vergine comprese il suo terrore e, presala in collo, le allungò le zampe posteriori e per bilanciarla le fece scendere le orecchie a collana. La lepre si sentì forte e sicura: prese la strada di casa e, quando la volpe cominciò a ricorrerla, con quattro salti sulle nuove zampe corse come il vento e s’eclissò nel bosco lasciando la volpe a denti asciutti.

Il grillo, che si trovava dentro il suo buco dormendo vicino alla capanna di Betlemme, ridestato dai canti e dai passi di uomini e animali che andavano e venivano nella notte, s’affacciò incuriosito al pertugio. Rimase stordito dalla luce sfolgorante che usciva dalla porta della stalla, poi a saltelli s’avvicinò ed entrò andando fin sotto la mangiatoia presso la quale i visitatori lasciavano i doni. Non sapendo cosa offrire si mise a cantare facendo divertire il Bambino. Per questo la Madonna gli sorrise e gli disse di restare accanto al focherello acceso e divenne così il Grillo del focolare.

Il bue, l’asino e il cavallo si trovavano nella notte nella stalla quando entrarono Giuseppe e la Madonna, la quale diede alla luce il Bambino che fu posto sulla paglia della greppia.
Commossi, il bue e l’asino si misero a scaldare col loro alito il neonato che piangeva per il freddo, ma il cavallo rimase tranquillo sullo strame a dormire. La mattina la Madonna guardando quei tre animali disse: “Voglio che questo sia sempre ricordato”. Fece una croce sulla groppa dell’una e dell’altra bestia e li preservò per sempre da qualunque malia e da qualunque maleficio, come dalle arti delle streghe e dei demoni. Per questo l’asino e il bue tengono lontani ogni sorta di maledizioni e di spiriti impuri. Il cavallo, invece, è preda della paura, teme la propria ombra ed è spaventato dai fantasmi e dai folletti che gli intrecciano la criniera e lo fanno imbizzarrire.

La pecora, quando l’Angelo annunciò la buona novella, andò con tutti gli altri animali alla grotta di Betlemme, lasciando solo l’agnellino natole da pochi giorni. Quando fece ritorno si accorse che il lupo gliel’aveva portato via e, belando pietosamente, corse di nuovo verso la capanna pensando: “A che serve disperarsi? Il mio agnellino non tornerà e la mia lana non gli servirà: la lascerò a quel Bambino che è nato stanotte, e non soffrirà il freddo nella grotta”. Arrivata davanti alla Vergine che teneva in collo Gesù, la pecora depose il suo fardellino di lana insieme agli altri doni e si guardò intorno.  Dio, che luce c’era dentro quella caverna e come tutti stavano incantati davanti al Signore! Sentì un belato flebile: si volse e vide il suo agnellino che si reggeva appena sulle gambe e accanto a lui c’era il lupo. La Madonna, deposto Gesù nella culla, prese l’agnello e lo ridette alla pecorella; quindi, accennando il lupo, le disse: “Perdonalo. Te l’aveva rubato per offrirlo al Signore perché non aveva altro da dargli, poveretto!”. La pecora allora, consolando il suo agnellino, gli perdonò e, tornando verso il suo ovile, pensò d’aver capito quella notte che solo il Signore sa cosa c’è nel cuore delle sue creature.

Il corvo, svolazzando nella notte, vide la processione di gente che andava a visitare il santo Bambino, per cui scese giù a basso e con sua sorpresa vide che una pastora portava sul capo una gerla piena di formaggi, di cui questo animale è assai ghiotto.
“Guarda, guarda, che ben di Dio! Che formaggio fresco ha quella donna nella cesta! Ma con tutta questa roba avranno da sfamarsi quei tre chi sa per quanto tempo. Non sarà male se si toglie la fame anche un povero corvo!”. Detto questo, scese a picco alla gerla della pastora e ne prese una bella caciotta e si risollevò in aria. In quel mentre lo vide San Giuseppe che stava attingendo a una fonte e disse: “Per la fame, tieni la caciotta, ma per la tua malizia sarai sempre nero, e ogni volta che canterai dovrai ricordarti questa tua marachella. Da allora il corvo che era tutto di bei colori è diventato nero e quando canta fa solo cra-cra.

La formica si trovava ad avere il proprio buco lungo il viottolo da cui passavano i contadini e i pastori per andare alla capanna la notte di Natale. Uscì fuori e sentendo quello che era successo disse: “Cosa m’importa se è nato un bambino? Ne nascono tanti! Se si dovesse fare tutta questa confusione tutte le volte che nasce un bambino si starebbe freschi!
Piuttosto diamoci da fare a raccogliere le briciole che lasciano cadere questi viandanti che mangiano lungo il cammino! Aumentiamo le provviste, che l’inverno può essere lungo, e lasciamo che questi citrulli se ne vadano a spasso!”. Così si mise a raccogliere le briciole e a portarle nel suo buco, ma un angelo passò nel buio e la vide. Disse due parole misteriose e da allora la formica vive sotto terra ed esce fuori soltanto per lavorare e rompersi le ossa dalla fatica.

Il tarlo era in fondo al suo foro che si era scavato nell’architrave della capanna di Betlemme e sentì nella stanza il trambusto di gente che andava e veniva. Gli venne curiosità di sapere cosa succedesse, ma s’era accomodato da poco tanto bene nella segatura che gli parve fatica e si girò dall’altra parte dormendo della grossa quasi fino a mezzogiorno. Quando seppe che quella notte era nato il Messia, si pentì amaramente di non essersi alzato a onorare anche lui il Salvatore e ancora, quando ci ripensa, piagnucola dentro il suo buco: iuc iuc iuc…

Gli animali, quando venne l’alba dopo la notte in cui nacque Gesù, parlarono chi sa perché in latino. Il gallo fu il primo a destarsi e s’informò dai passanti perché vi fosse tanta gente per le strade e quando lo seppe salì in cima a una pianta e cominciò a cantare: “Puer natus est…Puer natus est…”. Il bove che lo sentì cominciò subito a mugliare: “Ubi?... Ubi?...”. L’agnello, che l’aveva saputo dal pastore, rispose belando: “Bee-tlemme… Bee-tlemme…”. Allora l’asino che passava di là mandò un sonoro raglio: Andemus…Andemus…”. E tutti gli animali corsero e andarono a trovare Gesù Bambino.



  Caro don Romeo Rossetti,
di Marta


Caro don Romeo Rossetti,

ci è pervenuta la notizia che il 30 novembre (festa di sant’Andrea) lei è tornato alla Casa del Padre. Certamente in quel giorno sarà stato accompagnato amorevolmente da questo grande Santo nell’ultimo viaggio. E io torno con la memoria indietro nel tempo, molto indietro: al tempo che io la conobbi. Io ero una ragazza, eravamo negli anni ’50, lei un giovane sacerdote nella parrocchia di San Martino, a Casano. Diversi giovani frequentavano la parrocchia e tra questi anche Doretto. Tra voi due nacque subito una bella intesa. Lui militava politicamente nella sinistra ma aveva sempre avuto rispetto per la Chiesa, ma la sua fede era molto tiepida.
Con lei, con le sue parole, Doretto ha cominciato a lasciarsi coinvolgere e a leggere il Vangelo; poi diventaste veri amici. Con la sua potente moto, una Mondial 250, avete percorso le strade di San Francesco: Assisi, La Verna, Camaldoli… Doretto era veramente trasformato e San Francesco lo ha poi accompagnato per tutta la vita. E’ stata poi memorabile quella volta che partiste per Roma in udienza da papa Giovanni XXIII, il ‘Papa Buono’, ora Santo. Sempre in sella alla sua moto, col pieno di benzina fatto con tanto sacrificio; Doretto alla guida col suo casco in testa, lei dietro con la tonaca che svolazzava.
Mi raccontò che il Vescovo la convocò in Curia e le disse: “E’ vero che è stato a Roma in sole cinque ore?”. E lei rispose: “Eccellenza, la notizia che le hanno dato non è del tutto esatta: ci siamo arrivati in sole quattro ore, compreso le soste!”.
Nel 1961 io e Doretto ci siamo sposati nella mia parrocchia, a Marina di Carrara, nella chiesa dedicata alla Sacra Famiglia. Fu proprio lei, caro don Romeo, a celebrare il nostro matrimonio. Poi, non ricordo per quale motivo, lei fu trasferito a Valletti, un piccolo borgo vicino a Varese Ligure. Doretto, con la sua moto, veniva spesso a trovarla. Una domenica volle farle un’improvvisata. Arrivò all’ora della Messa; entrò in chiesa, la salutò con un cenno ed uscì. Andò nella cucina della canonica e vide che non aveva niente di pronto da mangiare. Doretto non si scoraggiò; scese giù nell’orto e raccolse quel che abbisognava; poi, nel pollaio, prese un bel pollastrello, tornò in cucina e in quattro e quattr’otto  preparò un bel pranzetto: pollo alla cacciatora con patate fritte, il tutto annaffiato con vino nero offerto da un parrocchiano. Peccato però che sia l’orto che il pollaio non erano di proprietà del parroco!
Poi sono trascorsi tanti anni e, malgrado le tante peripezie della vita, avete sempre mantenuto un legame forte di benevolenza e amicizia, prima con lettere, poi, negli ultimi anni, per telefono e con l’ invio di articoli da pubblicare sul nostro bollettino “Il Sentiero” nei quali ha ricordato il tempo trascorso qui e che mai ha dimenticato.
Che dire ancora, don Romeo! I ricordi sono tanti e tante persone, come me, la ricordano, ognuno con la propria storia di vita. Io ora amo pensare che lei e Doretto scorazzate ancora in sella ad una moto per le vie del Cielo.

 

                                                                              

  Pane burro e marmellata
di Paola G. Vitale



 

          Vanna mi raccontava volentieri le sue straordinarie avventure notturne; io l’ascoltavo stupita e, alla fine, ci lasciavo su un sorriso, senza commenti. Non avrei proprio saputo cosa dire, tanto era diversa la mia notte, immersa nel sonno, dopo l’ultima occhiata alla lezione del giorno. Non potevo davvero permettermi di trascurare lo studio, all’ultimo anno delle magistrali, con mio nonno paterno che pagava i libri e attendeva impaziente il mio diploma. Non che la mia vita fosse facile, con la mia mamma da aiutare in tanti modi, in tante incombenze e l’impegno di lavoro preso con gli artigiani della paglia, al piano basso dello stesso palazzo. Tuttavia, mi buttavo con coraggio in ciò che ritenevo possibile alle mie capacità.
Le ore di scuola erano la realtà più piacevole, pure se capitava di affrontare qualche ora con il batticuore nel timore di una interrogazione non perfettamente preparata. E poi c’era l’intervallo! Le più ostinate si affacciavano alle finestrelle che davano sull’Arno, per fumare la sospirata sigaretta, mentre io scappavo nel corridoio, perché l’odore della sigaretta mi faceva tossire con troppa facilità. Vanna, però, veniva subito da me e chiedeva: “Che hai portato di merenda?”. Al che, immancabilmente rispondevo: “Pane con burro e marmellata!”. Alla fine lei mi convinceva a fare a cambio con il suo “maritozzo”. In fondo, qualche volta, non mi dispiaceva cambiare merenda. Non sempre, però, perché io tornavo a casa in treno, dopo le quindici, e l’appetito era ben desto! Tuttavia c’era di mezzo quell’affetto che provavo per Vanna, così diversa, così disinvolta, e così sprovvista… di pane, burro e marmellata; e, in fondo, mi incuriosiva quella sua vita così diversa dalla mia.
Non ci siamo più incontrate dopo il diploma e ognuna di noi ha seguito la sua strada, ma ringrazio di cuore la mia famiglia e nostro Signore per quel periodo di vita.

                                                                                       



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  PRESENTAZIONE
di LA REDAZIONE


            Abbiamo ricevuto dagli amici e collaboratori Carlo Lorenzini e Maria Giovanna Perroni  l’ultima ‘fatica’ di Maria Giovanna, questa volta in prosa, dal titolo “Salvare il cuore” (Ed. Golden Press). In questo numero pubblichiamo la ‘presentazione’ a cura del marito, Carlo, in seguito pubblicheremo i racconti. 

                                                                               LA REDAZIONE

 

                              PRESENTAZIONE

“E allora (la gigantessa) decise di morire. E volle, ancor piena di forze e inconsunta, donare la ricchezza del suo immenso corpo per la fecondità degli sterili monti. E quando fu pronta si sdraiò dove ancora la vedi e cominciò a fissare il sole, la luce. E dagli occhi, anche per il dolore di dover morire, le spuntarono molte lacrime, che formarono numerosi ruscelli d’acqua dolce (le sue lacrime infatti non erano salate come quelle di noi uomini); ed i ruscelli, riunendosi, divennero fiumi che inumidirono il suolo, ormai fecondo degli umori del suo corpo. Nacquero così alberi ed erbe, intere foreste. Un giardino per gli animali che presto sarebbero venuti ad abitarlo. Intanto lo scheletro della gigantessa si fondeva con la terra, fossilizzandosi e producendo le ricche miniere da cui, ora, traiamo tesori.
Questa divenne presto la regione più ricca della terra. Ed i monti, riconoscenti, vollero conservare per sempre il ricordo della bella gigantessa e del suo nobile profilo”. 
(Dal racconto “La Gigantessa”).
Qui, in una visione apocalittica della storia della terra, sulla scomparsa dei giganti che abitarono il nostro pianeta in epoche preistoriche, abbiamo un racconto che è una specie di metafora della filosofia che è alla base della poetica di Maria Giovanna. Questa gigantessa che morendo vuol dare tutta se stessa alla continuazione della vita su questo nostro pianeta, esprimendo la volontà che il suo sacrificio serva alla fecondazione di una terra brulla e inabitabile per farla diventare feconda e vivibile, è la metafora del concetto filosofico-religioso che anima tutta l’attività di Maria Giovanna, scrittrice e poetessa.
I suoi libri di poesie, da Diamante (1991) a Preghiera di un Poeta (2014) e i suoi libri di prosa, La pace delle bambole (2002) e La casa sepolta (2011), si svolgono tutti, guidati da un unico motivo conduttore che è l’amore. Quell’amore che ha come regista il cuore, cioè l’amore che vuol dire buoni sentimenti, morigeratezza, equilibrio spirituale, vuol dire umiltà, sobrietà, vuol dire castità, operosità e ottimismo, e che tutto insieme vuol dire educazione e aspirazione al concetto di quell’armonia interiore che, secondo il Foscolo, le Grazie hanno elargito all’uomo, per la costruzione della civiltà. Il cuore creatore e regista dei buoni sentimenti è l’ispiratore di questo nuovo libro di Maria Giovanna, un cuore cullato nell’armonia dei sentimenti, in una visione della vita che vuole essere equilibrio e serenità, dove non esistono dissonanze, dove il male e il bene non sono mai causa di distruttive disperazioni o di smisurato orgoglio. Sono racconti in cui la vita è vista con gli occhi del saggio che tutto comprende ed è narrata con lo stile del poeta che ha in sé il dono del divino equilibrio. Vi è in ciascun racconto una pacata e serena visione delle cose.
In armonia  con il contenuto è anche lo stile del libro. I racconti non sono mai dei fiumi in piena che, lutulenti e rapinosi, straripano e distruggono, ma il loro stile è simile a ruscelli di un’acqua limpida, fresca e profumata, un’acqua che disseta e ristora, racconto dopo racconto. Ognuno un pezzo di vita che, come una favola, ha la sua brava morale, che è sempre all’insegna della vittoria del cuore, un cuore semplice, un cuore d’altri tempi, capace di farti amare la vita anche nel negativo, anche nelle sconfitte.

                                                                     Carlo Lorenzini

 

Questo libro, presentato al premio editoriale l’Incontro, edizione XIX (2014), promosso dalla casa editrice Golden Press di Genova, è stato segnalato dalla Giuria presieduta dallo scrittore Alessandro Mancuso, con la seguente motivazione:

“Una corona di racconti edificanti, morali, di pieno sentimento. La prosa, scolpita ed impeccabile, tratteggia personaggi di grande umanità e spessore, immersi in una realtà che non scalfisce la forza d’animo, anzi irrobustisce la fede, la fiducia negli altri, lo scambio reciproco”.



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