N° 5 - Maggio 2015
Storie dei lettori
  Appunti di un Pellegrino
di Gualtiero Sollazzi



     Sguardi   

E’ passato l’Anno della Fede e l’anima si fa sguardo. Su papa Benedetto che lo aveva indetto perché la Chiesa riscoprisse la gioia del credere. Poi, sulla rinuncia di questo cristiano umilissimo, creando dolore nel popolo di Dio.
Lo sguardo si posa sul nuovo Papa, col nome sorprendente di Francesco, venuto “quasi dalla fine del mondo”. Instancabile, annuncia la misericordia del Padre, spalmando sull’Anno della Fede la tenerezza del Signore. Scorrono nello sguardo le comunità cristiane diventate cantiere, per una fede che sia vita quotidiana.
L’occhio scruta ora il futuro. La seminagione c’è stata, ma non deve fermarsi.
Ci aiuta  Francesco con l’ ”Evangelii gaudium” invitandoci a essere una Chiesa povera, vicina alla gente, e a ricercare nuove strade per annunciare il Vangelo della misericordia.
Padre Vannucci, maestro di vita, ci mette in guardia per non proporre il cristianesimo come “una morale”, ma “sconvolgente liberazione”. Lo sguardo si ferma, infine, a un gesto che ha toccato il cuore. Un uomo, gravemente sfigurato, è abbracciato e baciato dal Papa.
Le sue parole: “Mi ha carezzato il volto e io ho sentito solo amore!” - “E’ stato come il paradiso!”.
Lo sguardo, allora, si fa sogno: cristiani che “carezzano” il debole e il povero, per far toccare il paradiso. Dall’Anno della Fede nascerebbe  il frutto più bello.

 

Ressurressi

 

Espressione storpiatissima di “Resurrexit”. Questo verbo (in italiano ‘è risuscitato’) fa parte del Credo. “Ressurressi” ha una storia, questa.
In una parrocchia toscana ogni domenica, prima della riforma conciliare, la Messa veniva cantata tutta in latino. Il Credo, composto da un musicista locale, era l’unico ‘pezzo’ non in gregoriano, assai bello oltretutto. La gente lo eseguiva a voce spiegata. C’era un contadino, faccia serena e onesta, che vi partecipava con particolare passione.
Specialmente al “Et resurrexit”. Interveniva con tutto se stesso, a voce piena. Il verbo, però, lo diceva a modo suo, riducendolo a “ressurressi”.
Fra i chierichetti, il più piccolo era sempre colpito dalla contenta veemenza di quel contadino e, non sapendo il suo nome, cominciò a chiamarlo semplicemente “Ressurressi”. Entrava in chiesa, vedeva quell’uomo, e rivolto al babbo diceva: “Babbo, c’è “Ressurressi”. Per anni lo chiamò e lo conobbe così.
E se anche noi cantassimo con la vita la Resurrezione facendola quasi diventare nostro nome? Auguriamocelo, in questa Pasqua del Cristo Risorto.


  Confidate, ho vinto il mondo!
di Giorgio Martelli (Turnea) con il Centro dei Volontari


Confidate, ho vinto il mondo!

 

Sempre pronto a captare e intuire la portata delle grandi novità del momento, nel 1967 Doretto è uno dei primi a La Spezia ad abbracciare l’Ideale ed a prodigarsi per far conoscere il Movimento. Ben presto tutto il suo reparto (era operaio alla Oto Melara) rimane conquistato da questa nuova proposta evangelica e approfittando della pausa pranzo, iniziano ad incontrarsi per condividere le esperienze che con stupore andavano facendo. Il gruppo via via si allarga e Chiara, venuta a conoscenza del nuovo impulso spirituale scaturito in un’azienda che produce cannoni da guerra, desidera conoscerli personalmente. Ed è così che in una trentina approdano a Rocca di Papa.
E’ un momento storico. Tanta emozione e tanta titubanza nel prendere la parola, ma Chiara li incoraggia, fa loro delle domande e li ascolta con grande interesse.
Le raccontano di come Gesù in mezzo stia cambiando la loro vita e il clima dello stabilimento. Alla fine lei esprime il suo apprezzamento per un’esperienza così straordinaria nella quale vede i prodromi di ciò che sarebbe poi diventato il movimento Umanità Nuova. E dà loro la Parola di vita: “Confidate, ho vinto il mondo!”, scrivendola di suo pugno con la dedica: “A quelli della Oto Melara”.
Doretto sente la chiamata a diventare un volontario e la sua vita è sempre più impregnata di slancio ed entusiasmo. Ma a fargli ingranare la “quarta” è l’affacciarsi della malattia che lo costringe sulla sedia a rotelle. Comprende di essere ancora una volta di fronte ad un progetto d’amore e il suo “sì” a questa nuova volontà di Dio gli procura una gioia incontenibile che desidera comunicare a tutti. Collabora col bollettino interparrocchiale Il Sentiero (www.ilsentieroweb.net), che pubblica le sue toccanti esperienze frutto dell’amore a Gesù Abbandonato e della sua particolare sensibilità a consolare e illuminare il dolore dei fratelli.
La sua partecipazione al nucleo diventa sempre più problematica, ma i volontari vanno spesso a trovarlo, così pure i focolarini di Genova. Doretto non può più usare le gambe, ma “gli spuntano le ali…”. Dice che non gli importa guarire, perché ha trovato una guarigione ben più importante, quella dell’anima. Negli ultimi tempi compie passi da gigante, sostenendo anche la moglie Marta, che lo accompagna con dedizione e coraggio nei tanti momenti difficili.
Doretto ci lascia il 24 ottobre. Tre giorni prima, mentre è in corso l’Assemblea dei volontari, telefona per dire che sta entrando in ospedale. Non sollecita preghiere per la guarigione “ma per compiere bene con gioia la volontà di Dio”.

                                  

  Ricordare è continuare a vivere
di Romano Parodi



 

Cena  - “s’avesa e s’ai fusa g’ien ndà ‘n let senza cena” –“ki al va ‘n let senza cena tut la nota s d’mena”.
Chiacchiera -  akua e k’iak’ra a n fan farina” – “men d’scorsi e condisc pu mei”.
Ciliegia  -“santa Maria cir’sciola da d’nverno a sen fora, ma s’al ven ‘l solak’in a sen ank a mez camin”.
Conta  (delle bimbe) - “a glin glon, tre kapin e tre kapon, p’r andar a la fontana, aiera na’ ragaza bela, al kontea vintitrè, a scapar a toka a mé” -  “A la tana d’ pigafontana, skap a Roma kon parana, ai pizi d Loré, kuant g’ien? Vintitré! Vintitré g’ien d kaneda, bafi bafi ‘n kantarèda, biascikin, kort’din, gamba d’oro, gamba d’argento, te t sen fora e me a son drento”. Per i maschi – “Pignarok miscimò, kos t fa ‘n questo bò (bosco), ‘n quest bò ai nasc d’ua, prima cerva e po’ matura, Cincinà i m’ dà vendù e me a do komprà, a dò komprà n barberia sort fora da ka mia”.
Corsaleto – “bela dona dal corsaleto a da vist ‘l mi gadeto? a do vist ‘n t d’altana ki pizeu la maiorana, sciugh d ki, sciugh d là, bela dona mandedo a ka”.
Culo – “man al kulo e lengua n boca” (stare zitti).
Curioso – “I kuriosi i s strin’n ‘l kulo”.
Dita – skiciapiok’i, lekamortalo, dal ditalo, da d’anedo, dito manuedo.
Donna – “la dona kal và n kampagna al perd pù ka n guadagna” - ’l mal d la dona e il zop d’l kan prest i vegn’n e prest i van”.
Dolore – “Oh Signoro anzi ‘n pan ken doloro; ma ‘l vilan k g’iè ‘n gran vilan i dicia: anzi ‘n dolor ken pan” (il contadino sapendo la fatica che gli costa)
Erbetta – guaimo
En’scio – uovo finto: di marmo per le galline e di legno per i rammendi.
Famiglia – “na bela famig’iola al komenza da na fig’iola”.
Fico – arbacero, binedo, calabreso, ribaldo, grasholo, tedesco, v’shosho, mon’co, pagnotaro,.. - “quando al pioa p’r santa Crosha, fichi al maro e poga nosha”.
Fuoco – “t’nir ‘l foco vio” (per cuocere) – “dar da magnara al foco” (a Natale alimentare il fuoco con del pane (un tempo), e con legna profumata come il ginepro, ecc.)
Fazzolettone – mandido, era il guarko che le donne si mettevano in testa. Era detto mandidon  anche il lenzuolo della Sindone.
Ferita (in campagna si curava con un po’ d’urina)  - “kos t vo’ kal shia, basta ‘n po’ d piscio”. Un tempo le donne lavoravano in campagna assieme agli uomini e non portavano le mutande, ed erano pronte anche a sanare le ferite degli uomini.
Gatto – “la gata furiosa a da fat i gatin morti – quand la gata al magna la sungia a d’è nera” (è miseria).
Gatarola piccola apertura nella porta per il gatto (serviva anche per prenderlo nel sacco e poi….).
Gallina – “la gag’ina kal canta a da fat d’oo” (si è tradita) – “a m ven la peda d gag’ina” (paura) – “la gag’ina ca n piza a d’a pizà” – “g’ià la popita com la gag’ina” (sempre sete, beone).

                                          


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  Vide e credette
di Romano Parodi



             

Mi piace approfondire alcuni “accenni” del precedente numero di Pasqua. Per primo quello di Claudia Pugnana sulla Risurrezione di Gesù.
Giovanni, entrato con Pietro nel sepolcro, scrive (20, 3-8): “entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a partevide e credette ”. Un’espressione sintetica, lapidaria, un’espressione che segna un momento solenne. E’ in quel preciso istante che nasce la fede e il cristianesimo. Giovanni conosce le scritture, “doveva resuscitare dai morti”, e quello che vede glielo conferma. Ma cosa vedono? I Vangeli sono scritti in un greco antico e questa sopra riportata è la forma conosciuta; ma perché, a differenza di Pietro, che davanti a quel che vede resta perplesso (blépei), Giovanni vide e credette? Don Persili - scrive V. Messori - ossessionato da quel vide e credette, dopo una vita dedita allo studio del greco antico, così, invece, traduce tutta la frase: “..entrò nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario che era sul capo di Lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica” (strana). All’apparenza c’è poca differenza, ma in realtà cambia molto. Non vi sto spiegando perché la parola “greca” keìma, secondo don Persili, significa disteso, adagiato (e non per terra) come si legge nel Vangelo. Giovanni vede e crede, perché le fasce che avvolgevano il corpo di Gesù, ora erano distese e vuote ma intatte, non manomesse, non sfasciate.Il corpo di Gesù, quindi, era sparito senza uscire dalle fasce!
Ma ancora più sorprendente, secondo don Persili, è la posizione del sudario. Esso non era disteso sulla pietra sepolcrale come le fasce, ma in posizione rialzata. Esso avvolgeva la testa di Gesù come un turbante arabo, ed era rimasto così anche quando la testa non c’era più, come se dentro ci fosse ancora. Era in una posizione così sorprendente che all’evangelista è necessario un intero versetto per descriverlo. I due vedono le fasce distese sulla pietra sepolcrale e sulla stessa pietra il sudario che, al contrario delle fasce (che sono distese orizzontali), è in posizione sollevata, anche se non avvolge più nessuno.
Quindi non piegato a parte”, come dicono i libri sacri, ma al contrario (rispetto alle fasce)  avvolto, è la traduzione esatta. Quindi Gesù era uscito dalle fasce senza toglierle. Scomparso il corpo, le fasce che lo avvolgevano, più pesanti, si collassarono con la Sindone che esse coprivano sulla pietra, e assunsero quella posizione “distesa” che abbiamo visto, mentre il sudario per il capo, più leggero e più piccolo, inamidato dall’essicazione dei profumi liquidi di Giuseppe d’Arimatea, restò, “al contrario avvolto”.
Che cosa è accaduto nel buio di quella tomba? La Resurrezione risponde il cristiano.

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La Sindone è sempre stata la mia passione. Dispiaciutissimo di non essere stato presente alla conferenza della dott.ssa Marinelli: avrei avuto tante domande da farle. Già ne avevo scritto sul “Il Sentiero” in occasione della precedente ostensione. Se ci sarà un’altra gita, per quest’altra, imminente, mi prenoto.
Sulla Sindone a differenza del sangue, che è entrato in profondità, l’immagine sul telo è visibile solo in superficie. Dove il sangue è presente, l’immagine è assente. Perché? Non si è formata per contatto perché esiste anche nelle zone, di non contatto. Come, allora?
Invano hanno provato a riprodurla. Che cosa può avere provocato, su un lenzuolo, avvolto intorno a un corpo, un’immagine che è più profonda là, dove il corpo poggia sulla pietra  e che è solo superficiale nel lato opposto? Che relazione c’è tra questo e un negativo fotografico che ha potuto mostrare per la prima volta, nel 1898, il vero volto di quell’uomo, fino ad allora sconosciuto?
 Quando il fotografo, con l’autorizzazione dei Savoia, fotografò per la prima volta la Sindone, ne rimase sconvolto; ma pochi gli credettero. Fino al 1930 la notizia non venne confermata: si pensava a un trucco fotografico. E così successe nel 1977 quando Paul Vignon ne scoprì la tridimensionalità. - Non può essere – dicevano; oggi è certo. 
Inutile dirvi che nel medioevo queste cose erano sconosciute. Ma le sorprese continuarono: nel 1954 scoprirono le impronte di due monetine sugli occhi, erano di Tiberio (14–37 d.C).  Nel 1976 lo scienziato svizzero Sulzer trovò molti pollini, tanti provenienti dalla Palestina; ebbene, alcuni avevano 2000 anni, altro che medioevo.
Nel 1978 il prof. Marastoni scopre delle scritte: Yeshua ben Yosef Nazarani in più lingue. Lo scienziato russo Kuznestov, chiamato da alcuni il salvatore della Sindone (dai falsari), ha confutato aspramente l’ipotesi medievale e ha dimostrato che all’analisi del radiocarbonio, dopo averla esposta al fuoco, la benda di una mummia egiziana è ringiovanita di milletrecento anni. Non dimentichiamoci che la Sindone è bruciata più volte, specie lungo i bordi, proprio dove sono stati prelevati i campioni per l’analisi al radiocarbonio. Ma i negazionisti continueranno a dire che è tutta opera di un grande falsificatore medievale (alcuni dicono Leonardo da Vinci). Alla TV hanno dedicato un’intera puntata a questa ipotesi. Ma come è possibile alimentare certe tesi? Leonardo è nato quando la Sindone era già documentata. Credo che ne vedremo ancora delle belle.    
Un grande filosofo italiano, spiega alla TV, che proprio perché in più lingue ciò è la dimostrazione di un falso; ma come si fa a dire una cosa simile. Non sono in più lingue anche quelle usate sulla Croce? Sono opera medievale anche quelle? Giuseppe d’Arimatea ammirava la grandezza universale dell’insegnamento di Gesù è l’ha voluto dimostrare a tutto il mondo. Dice il secondo libro sulla Sindone della storica Barbara Frale: “Giuseppe d’Arimatea, dopo aver ottenuto da Pilato il corpo devastato del “Nazareno”, acquista un telo, vi scrive il nome di Gesù e una frase sconcertante: “Gesù Nazareno, deposto sul far della sera, a morte, perché trovato”. Questa frase è in Aramaico, una lingua scomparsa nel 70 d.C. Perché nel 1300, un falsario avrebbe usato questa lingua?
Ma poi, anche se fossero state scritte in un secondo tempo dai Templari che custodivano e adoravano la Sindone (come qualcuno ipotizza), cosa cambia, caro professore?

                                                                                                          Romano Parodi

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 Marz mugnon i kaua i vek’i dai canton, ma si dic dalvero i kaua ank i gion”

 La notte 5 marzo 2015 raffiche di vento a 150 -170 km orari investono Ortonovo; tutti i tetti a nord del paese sono scoperchiati. Danni enormi. Dopo un mese il paese è ancora tutto un cantiere, le due chiese e il campanile sono circondati da impalcature con le quali chissà per quanto tempo dovremmo convivere, ma la curiosità è che questa calamità si è verificata anche nella notte del 9 marzo 1913, ne parla anche Elio nel suo libro. “Un ciclone d’inaudita violenza si abbatte sul paese, devasta uliveti, castagneti, vigneti, molte abitazioni, e la chiesa di San Lorenzo” il cui tetto finì alla “fontana colaggiù”. La chiesa era inagibile, e allora cosa fecero i bravi ortonovesi, oltre a rimboccarsi le maniche. Le varie “Fabricerie” vendettero numerosi oggetti della chiesa stessa, come le porticine d’argento dei tabernacoli, piviali, pianeti, turiboli d’argento, vecchi mobili da sagrestia, acquasantiere antiche e la bella statua di san Rocco del 1500, citata come “pregevole” dal vescovo Lomellini nel lontano 1550: ecco il motivo per cui quella attuale non ha il cane, è solo una copia. Alla fine dei lavori la spesa totale aveva superato le 7.000 lire”, (500 mila euro)



  Lettera da Montepulciano
di Carlo Lorenzini



 

Carissimi della Redazione, abbiamo ricevuto il Bollettino di aprile 2015 ricco di articoli densi di insegnamenti morali che invitano alla preghiera del fare e non alla preghiera del dire (Antonio Ratti), che indicano la via per arrivare a Dio (Doretto), che esprimono con una scherzosa battuta la sete di Eucarestia (Gualtiero Sollazzi); che affermano che la santità è un fatto personale (Stefania) e così via. Un giornale, dunque, con articoli 'difficili': tutti quanti ci mettono sull'avviso che la santità cristiana non è uno scherzo. E la via che porta in Cima sarà più agevole se accompagnata dalla fede che, poi, dopo, la nostra anima sarà una sorgente vivida di luce, e se, nonostante la tesi del narratore, non viene mai meno la speranza di poter trovare un'Agnese, una santa Agnese, anche ai nostri giorni.
Quest'anno corre l'anno 750°  dalla nascita del nostro poeta Dante. E se anche il Sentiero intende partecipare alle celebrazioni, io avrei pronto un contributo (che qui allego).
Il contributo prende occasione dall’episodio (Inf viii) che vede protagonisti Dante e Virgilio che sono sulla barca di Flegias che attraversa la palude Stigia e il dannato iracondo Filippo Argenti, fiorentino, che è immerso nella palude. Non è uno scritto culturale, non è un saggio, è frutto più che altro di immaginazione. Mette a confronto la figura del giovane Dante, teso alla ricerca del vero, del bene e del bello, con la figura di certi suoi coetanei concittadini, ricchi e sfaccendati che erano soliti calzare i loro cavalli con ferri fatti in argento.
Vi volevo inoltre ringraziare per il posto che ogni mese riservate ai nostri scritti. Ogni mese ci vediamo pubblicati nel 'nostro' Sentiero. E per noi, per me specialmente, è di grande soddisfazione, è un po' come vedermi rimpatriato a dialogare con i miei ortonovesi e nicolesi.
Da me e da Maria Giovanna un forte abbraccio  a tutti e buon lavoro.

Carlo Lorenzini

 

Ci fa veramente piacere avere dei lettori (ma anche collaboratori e sostenitori) così attenti e così affezionati al ‘nostro’ bollettino. Pubblichiamo questa lettera per dare soddisfazione alle persone citate e ancor più per i tanti amici e lettori di Carlo e Maria Giovanna.
Contraccambiamo l’abbraccio e tanti, tanti auguroni per tutto.

                                                                                                                      La Redazione



  Fedeltà
di Paola G. Vitale



Il Signore è fedele sempre…e allora apprezza sicuramente anche la fedeltà che da Ortonovo, e da tanti altri luoghi della diocesi di La Spezia, viene offerta a Maria Santissima ogni primo sabato del mese.
La presenza, la preghiera, la parola del Vescovo, dopo la processione dietro al labaro della Confraternita (questa volta del Santissimo Sacramento), offrono una testimonianza notevole e richiamano l’occhio di Dio su un popolo che vive la gioia del Signore in mezzo a tante lotte, tanti problemi e tante sofferenze.
Ho salutato una bella chiesetta aperta, mentre salivamo nella strada provinciale per La Spezia. Tanto bosco nella Val di Vara e colline popolate da secoli.
A Valeriano Lunense abbiamo venerato Maria Santissima del Buon Cammino (Buonviaggio); quel cammino verso la Patria Eterna.
Dietro l’immaginetta che riproduce quella posta sopra all’altare, c’è una bella preghiera composta a suo tempo da mons. Francesco Moraglia: in fondo è la preghiera che rivolgiamo al Cielo ogni sera.

 

  Il piccolo Rachid
di Marta



            Il piccolo Rachid si teneva forte forte al collo della sua mamma; la sentiva respirare con affanno mentre scappava via, lontano dalla guerra, che nel suo paese non dava tregua ormai da molto tempo. “Mamma, ho sete!”, diceva. “Pazienta ancora, piccolo mio… quando troveremo una fonte potrai dissetarti quanto vorrai!”. Ma tante ore sono passate e il piccolo Rachid aveva sempre più sete, e la mamma sempre più stanca. Dopo molte ore tutti quelli che scappavano come loro si trovano riuniti in un campo; un pezzo di pane e una misura d’acqua, poi, attraverso spintoni e urla, salgono sopra una barca, la barca della speranza: dopo sarebbero stati tutti liberi.           
Il barcone era gremito, non ci si poteva più muovere; la notte era buia; tanti tra loro piangevano; non avevano mai visto il mare e il rumore delle onde faceva paura; anche i più forti e spavaldi si intristivano, perché la paura è contagiosa.
Il piccolo Rachid piangeva: “Mamma, ho freddo, ho sete, ho fame…”. “Pazienta ancora, piccolo mio. La mamma è qui con te; ora ti canto una canzone così potrai dormire un poco”. Ma ad un certo punto una grossa ondata rovesciò il barcone e tutti finirono in mare. La maggior parte di loro non sapeva nuotare: nel loro paese non c’era mare né laghi, né fiumi, solo qualche pozza d’acqua molto spesso putrida. Rachid, sempre attaccato al collo della madre che aveva trovato qualcosa che galleggiava, strillava. Poi due mani le porgono un salvagente e aiutano il piccolo a salire a bordo di una scialuppa; lo coprono con una carta dorata e a tutti e due danno una bottiglietta d’acqua che Rachid beve tutto d’un fiato. Gli occhi del piccolo, ancora sbarrati per tutto quello che aveva vissuto, osservano questi uomini vestiti tutti uguale: erano molto diversi da quelli che nel suo paese sparavano, bruciavano, picchiavano… Questi amorevolmente si prendono cura di loro e di tutti gli altri.
Gli occhi di Rachid sono gli occhi di Gesù. Avevo sete, mi avete dissetato; avevo fame, mi avete nutrito; avevo freddo, mi avete coperto; ero pellegrino, mi avete ospitato…

            Gesù della Divina Misericordia, noi tutti confidiamo in Te!


 

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