N° 1 - Gennaio 2014
I nostri poeti
  ARIA DI NATALE
di Rosanna G.




 

La magia della notte di Natale

si diffonde nel cielo

sulla terra e nel mare;

corre da nord a sud

da est a ovest.

Nell’aria tersa le stelle brillano più che mai

per aiutarci a trovare la strada

della semplicità

della sapienza

della poesia.

la terra freme nell’attesa del mistero,

tutti corrono, i sorrisi affondano,

i cuori esultano.

Nel mare, al riparo delle rocce,

miriadi di pesciolini argentati

corrono indaffarati

prendono dal corallo un alberello

da addobbare

chiedono alle conchiglie di madreperla

e alle meduse luminose di illuminarlo

 con le loro inflorescenze,

ai moscardini bianchi di sostenere

sulla cima

una rossa stella marina,

alle ostriche di offrir le perle,

ai delfini di cantare.

I datteri di mare ammiccano

dalle loro finestrelle rocciose e

la murena severa

tiene lontano gli intrusi.

La notte di Natale

tutto il mare vive

e il Bambino Divino…sorride.

 



  La crescente solitudine
di M.G. Perroni Lorenzini




 

Ricordo bifronte

Nel sole, nel chiasso festoso,

percorro il mio fresco paese:

ritrovo i compagni d’un tempo,

nel gioco.

Io amo il mio verde paese!

Ma, ecco che è duro, severo,

s’abbuia il mio vecchio paese:

perduti i compagni d’un tempo;

rinchiusa.

Io odio il mio triste paese!

Lo amo, lo odio, il paese?

 

 

 

Finché fui alle elementari e un poco ancora alle medie inferiori, la situazione in famiglia, pur già compromessa e precaria, mi permise di vivere anche dei giorni lieti e spensierati. E poi avevo parte della mia vita e molte amicizie fuori casa, amicizie che fortunatamente nessuno contrastava. Dai ricordi di quegli anni ho in seguito tratto l’ispirazione per i racconti più luminosi e sereni del mio primo libro di prosa. Il paese mi offriva i suoi semplici divertimenti, come le fiere e le pésche di beneficenza; in esso non avevo difficoltà a trovare compagne e compagni che soddisfacessero il mio cuore; inoltre mi concedeva una certa libertà di movimento.
Già allora, però, mi accorgevo che i miei famigliari, troppo presi da altro, mi lasciavano presso che sola nei miei piccoli divertimenti; per esempio, se d’estate volevo andare al mare, dovevo accodarmi a famiglie di conoscenti. Mi si scoraggiava, inoltre, a che portassi amici in casa. La quale, in verità era poco adatta per ospitare bambini. Ed ero io a recarmi nelle abitazioni di chi possedeva un giardino; oppure negli spazi comuni a tutti. Al cinematografo del paese mi ci conduceva talvolta zio Mino; anche se lo decideva all’improvviso e quando era disposto lui. E i suoi gusti erano già allora molto differenti dai miei. Ad esempio io non potevo soffrire la “comiche”; lui le adorava.
Ma la situazione peggiorò a mano a mano che crescevo. E la mia libertà diminuì di colpo, appena non fui più bambina. Tutti i miei famigliari, infatti, avevano nei confronti della libertà delle fanciulle un concetto a dir poco ottocentesco. E mia madre pur di accontentare il mio desiderio di un vestitino, affrontava pesanti discussioni e talvolta litigi veri e propri, a proposito del concedermi qualche libertà, era la più severa di tutti. Lei, infatti, presto orfana di padre, era stata educata secondo i criteri del nonno; ed era rimasta sotto una stretta tutela fino al matrimonio. E così intendeva fare anche per me. E non serviva che accennassi cautamente al fatto che i tempi erano mutati e che io tramite lo studio avevo raggiunto una maturità che credevo degna di qualche fiducia. Così la mia libertà si ridusse drasticamente e, si può dire, da un giorno all’altro. E intanto perdevo anche le amiche del paese o, per lo meno, la possibilità di frequentarle.; perché, grazie al miracolo economico, i loro genitori comprarono presto l’automobile e la domenica e nelle vacanze portavano le figlie in gita o al mare; mentre io non potevo più accodarmi a loro come quando si viaggiava tutti in corriera. Ma anche altri svaghi culturali mi erano preclusi. Ad esempio, soprattutto per motivi economici, non potei mai partecipare alle gite scolastiche a pagamento che si svolgevano in genere nelle vacanze pasquali.

Il dover fare tutte queste rinunce (film, libri, gite, frequentazioni di amiche) e proprio nel periodo della crisi adolescenziale, mi rendeva spesso malinconica e talvolta insofferente. Ma in casa non si sopportava il mio minimo malumore; fu in quegli anni, infatti, che mi fu appioppato l’epiteto di “spirito di contraddizione”; e poi un mio broncio, anche piccolo, poteva bastare a suscitare discussioni a non finire o a innescare addirittura una lite.  Per cui non mi restava che ingoiare la noia e il tedioso pomeriggio domenicale da passare in solitudine e sparir mene, con un libro in mano, lontano dai soliti discorsi di mamma e di nonna, le uniche che restavano in casa; discorsi che molto spesso erano solo rimugina menti sull’ultima lite.
Intanto anche il mio modo di considerare il paese, che pure amavo, cambiò. E nonostante che la tragica divisione politica del primo dopoguerra avesse pin piano perduto le sue punte più estreme, e fosse ormai meno appariscente, tuttavia continuava; e io non ero più così bambina da non accorgermi che nella mia amata corriera di Calevo, certe persone evitavano di sedersi vicine; e non potevo più illudermi di abitare in un paese felice. E a ricordarmelo, poi, oltre la mia famiglia, c’erano altre persone colpite nel profondo, che non potevano e non volevano dimenticare. E per loro ogni pretesto era buono per far scoppiare nelle vie del paese una lite a cui io talvolta dovevo assistere. I miei famigliari, poi, erano tra i più irriducibili a non voler dimenticare.

Sarebbe mai cambiato niente? In certi momenti credevo di no. Ed allora temevo che tutto sarebbe continuato così per sempre.

                                                            (da La casa sepolta, ed. Albatros)



  Part Gh’irò
di Mario Orlandi




 

“Part Gh’irò” i gave la cà

al cordon d’Archimé:

da lì i partive a pé zopé,

r’mbalzand su ‘n t’n pé,

con la man alungà

p’r tocar carcun

chi div’ntev su figh’olo.

I n’ podev cambiar pé

      p’r non pigh’ar d’la bota

e tuti i gh’ stev’n ntorno,

a distanza giusta,

p’r non fars tocare.

Si tochev carcun

b’sognev rientrar a la cà

caminand svelti coi do pé

‘nseguì da tanta man alzà,

pronta a pistare.

Part Gh’irò col su figh’olo:

i do, a pé zopé e la man alungà,

i c’rchev’n altri figh’oli,

f’rmand’s ‘n po’ d’ tanto ‘n tanto

p’r arposar la gamba.

‘L giogo gh’er interesante

quand Part Gh’irò con tuti i su figh’oli:

la pià gh’er tuta ‘n r’mbalzar

e alungar d’ man

e i poghi armasti lib’ri

i c’rchev’n d’ girar larghi

e d’ far posar ‘l pé p’r tera,

coscì da dar di patach’on.

 

  

 

 ( da Pane per la memoria )

 

PARTE GH’IRO’ – Parte Ghirò aveva la casa al cordolo di Archimede*: da lì partiva a pié zoppo, rimbalzando su un piede, con la mano allungata per toccare qualcuno che diventava suo figlio. Non poteva cambiare piede per non prendere delle botte, e tutti gli stavano attorno, a distanza giusta, per non farsi toccare. Se toccava qualcuno bisognava rientrare alla casa camminando svelti coi due piedi, inseguiti da tante mani alzate, pronte a picchiare. Parte Ghirò col suo figliolo: i due, a pié zoppo e la mano allungata, cercavano altri figlioli, fermandosi un po’, di tanto in tanto, per riposare la gamba. Il gioco era interessante quando parte Ghirò con tutti i suoi figlioli: la piazza era tutta un rimbalzare e allungare di mani, e i pochi rimasti liberi cercavano di girare larghi e di far posare il piede a terra, così da dare delle manate.

*Archimede Cipollini, già sarto del paese e del circondario, era celebre per eseguire lavori senza le rituali “misure”. Affermava: “Ti ho visto in piazza: ti ho incontrato al piano…”. E tutto disponendo di un occhio solo.




  Paura
di Roberto Bologna (1985)




Lascio cadere la notte

sul triste giorno,

e di nuovo la paura del sole,

di quello che mi sta intorno,

e rifiuto la vera vita;

ripudio le parole

che mi dicon ch’è finita.
La paura d’amare mi assale:

a tal pensiero il cuor mi duole.

Ed è allora che l’amore fa male.

 



  Al mattino
di Sergio Marchi




Grazie, o Signore,

per avermi permesso,

anche oggi,

di poter aprire gli occhi

alla luce del giorno che viene.

Sia fatta la tua volontà se,

nel tuo volere imperscrutabile,

deciderai

che io non veda il tramonto,

poiché mi hai già concesso

di vivere più a lungo

di persone che mi erano care.

Grazie per la forza

di alzarmi da questo giaciglio,

per il cibo che me lo consente

e per le gioie della vita,

e scusami

per la quotidiana ingratitudine

di non riconoscerle,

quando ci sono.

 

                



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  Auguri a Natale
di Paolo Bassani




 

Buon Natale a tutti, ad ognuno:

alla città, ai paesi,

ai bambini, agli anziani,

a chi nella serenità raccolta

adagia il suo desiderio di pace,

e a chi, anche oggi, è costretto al lavoro.

Buon Natale a chi è nell’ombra,

piegato dal dolore

e avvilito dalla solitudine:

non suoni come vuota parola,

sia, invece, l’augurio d’una speranza.

Buon Natale a te, che negli anni

hai perduto l’entusiasmo d’un tempo;

a te, che oltre l’albero e il vischio

ricerchi il vero valore alla festa.

“Andiamo incontro alla solitudine;

aggiungiamo un piatto e una sedia;

lasciamo socchiuso l’uscio.

Nessuno sia solo a Natale!”.

E tu, e noi, finalmente,

dalle note d’un canto di bimbi,

sentiremo nell’animo infusa

quella pace profonda d’un tempo;

nello splendido sguardo innocente,

troveremo riflessa la stella:

la luce dell’antico Natale.

 

                                                           


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