N° 8 - Ottobre 2013
Storie dei lettori
  La disoccupazione dello zio Mino
di M.G. Perroni Lorenzini





Zio Mino

La vita ti lusingò con vana promessa;

e tu, giovane, spensierato,

ti sentisti padrone del mondo.

Crudelmente

il destino mise a nudo la tua fragilità,

la totale incapacità di vivere.

Ostinatamente non cessasti

di fabbricarti illusioni e principi,

per sentirti forte.

Per me, piccola, fosti un eroe.

Ma ora so

perché viziavi tutti i bambini:

era per consolarli di crescere.



                Durò undici anni la disoccupazione dello zio Mino. Era iniziata l’otto settembre del ’44, dopo il bombardamento dell’arsenale di La Spezia. Data che nonna Iole aveva segnata con la pietruzza nera. La morte di mia bisnonna Adele, la maestra, oltre che il lutto, aveva lasciato nella famiglia anche un notevole disagio economico, per la perdita della sua pensione; e per di più, poco dopo, zio Mino fu lasciato a casa. Giacomo era il suo vero nome; ma in famiglia lo avevano chiamato Giacomino, per distinguerlo dal nonno di cui portava il nome; ed io, da piccola, lo avevo accorciato in Mino.
Lo zio era stato disegnatore specializzato alla Vasca Sperimentale, ma insieme a molti altri operai e impiegati dell’arsenale dopo il licenziamento non fu più riassunto. Mio padre, invece, non aveva perduto il suo posto, anche se per qualche tempo aveva dovuto lavorare a Genova. Dopo il licenziamento, lo zio passò quegli undici anni quasi sempre senza un lavoro fisso né occasionale. Ad un certo punto, però, aveva trovato un’occupazione presso una cooperativa del paese. Ma fu un disastro. Perché, pasticcione e disordinato in un lavoro che gli piaceva poco, e soprattutto ingenuo e sprovveduto nei confronti della malizia umana, ben presto cadde vittima di una truffa. Ci rimise il posto ed anche dei bei soldi. E, per pagare questo debito, fu costretto a imbarcarsi per circa un anno come fuochista su una nave. Fu questo un lavoro molto duro per lui, che era di fragile costituzione e non abituato a lavori manuali.
Ma torniamo agli anni della sua disoccupazione. Soprattutto, orgoglioso com’era, gli costava molto dipendere da mio padre. Il quale col suo stipendio di semplice impiegato aveva ora sulle spalle una famiglia di cinque persone; e che, per sbarcare il lunario, si assoggettava a svolgere fuori orario dei lavori di contabilità. Ma i sacrifici di papà urtavano la suscettibilità dello zio, che era costretto a dipendere da una persona con cui i rapporti non erano mai stati cordialissimi. Ma questa sua disoccupazione ebbe almeno un lato positivo: acuì infatti il suo abituale amore per la Natura. Quando era bel tempo, lo zio girava per i terreni di proprietà della famiglia e per i boschi. E ne riportava sempre qualche cosa: dalla campagna frutta, pomodori, verdure; dal bosco funghi, asparagi selvatici, more, castagne. Quando pioveva, soleva invece trascorrere il tempo al bar. E se era senza un soldo, si rivolgeva a me per un prestito. Ed io, che ormai conoscevo questa sua cronica mancanza di denaro, tardavo a spendere i soldi dei regalucci, per poterlo accontentare: sapevo però che me li avrebbe restituiti puntualmente.

Forse, più di tutti gli altri famigliari, zio Mino si sentiva prigioniero di una vita che non avrebbe voluto; proprio lui che era uno spirito incapace di tollerare la benché minima costrizione; e lo aveva dimostrato ribellandosi al Fascismo, non tanto per fondate convinzioni politiche, quanto per la sua natura insofferente anche solo dell’ombra di un comando.
Riacquistava però tutto il suo spirito quando si trovava di fronte ad un bambino: allora ridiventava bambino anche lui, e si divertiva un mondo accontentandolo in tutto. Ma appena quel bimbo diventava grandicello, non se ne interessava quasi più. Non era alla persona del bambino che si attaccava ma alla sua infanzia. Solo con i bimbi comunicava o credeva di farlo. E nell’intuizione poetica della mia antica poesia a lui intitolata e a lui dedicata, penso di avere saputo ben cogliere il motivo per cui li viziava: “…era per consolarli di crescere”.

Col tempo ricominciò ad essere irritabile con tutti. Ma soprattutto con mio padre, di cui non sopportava più neanche la presenza nella stessa stanza. Ma si illuminava ancora anche solo a parlare di bambini. E continuò a viziare mia figlia fino a pochi giorni prima della sua morte.

                                                                      



  Lettera ad un amico
di Giuliana Rossini




            Caro Romano,

ho letto il tuo articolo “Una terapia per la solitudine della vecchiaia” apparso nel precedente numero de “Il Sentiero” che mi ha incuriosita e interessata.
Anzitutto scusami per l’uso del “tu” anche se ci conosciamo un po’ superficialmente, ma mi sembra più confidenziale.

M’è parso di cogliere nelle tue righe una notevole dose di dolore e sconforto uniti a una certa rassegnazione. Capita a tutti, credo, ad una certa età di fare il bilancio della propria vita con risultati non del tutto soddisfacenti. Risulta comune il senso di insoddisfazione e rimpianto per come sono andate le cose, lasciandoci l’amaro in bocca.

Sì, lo so, certi dolori bruciano in profondità e sono difficili da comprendere e sopportare. Non resta che posare lo sguardo su Gesù Crocifisso, sapendo che il nostro dolore, abbracciato e offerto, ci rende corredentori con Lui, come dice anche San Paolo.

Per quanto mi riguarda, per anni ho bisticciato col mio passato; poi ho capito che ogni avvenimento che mi capitava era legato agli altri da un filo d’oro, la volontà di Dio, e che tutto doveva andare così e non diversamente.

Del resto non potrei essere quella che sono oggi se non avessi vissuto quelle determinate esperienze. Ho imparato ad essere misericordiosa con me stessa e i miei errori e, soprattutto, a fidarmi della misericordia di Dio e a mettere tutto nel Suo cuore.

Anche tu, nel tuo scritto, parli di pietà e quindi so che puoi capirmi. Il passato rappresenta le nostre radici e costituisce la nostra esperienza che possiamo donare agli altri.

Tuttavia il passato è passato e non possiamo più modificarlo, ma solo affidarlo a Dio.

Ma neppure il futuro ci appartiene, perché non è ancora avvenuto. Resta soltanto il presente, anzi l’attimo presente. Tu parli di incanto del momento, ed è esattamente così. Per non avere rimpianti bisogna vivere bene ogni momento, come se fosse l’ultimo. Fare le cose, grandi o piccole che siano, nel migliore dei modi (come fanno i Santi che compiono tutto per Dio) così da non sprecare nulla.

Fai bene a rifugiarti nella scrittura di testi, se per te è così importante e ti riempie la vita, ma poiché non si può scrivere tutto il giorno, forse può essere il caso di trovare l’incanto anche altrove. Non sarò io a dirti dove, perché lo sai già da te. Ma c’è una cosa che mi sento di dirti: non c’è niente di più bello che instaurare e favorire rapporti personali.

Come tu acutamente dici, la gente preferisce essere ascoltata, piuttosto che ascoltare, ossia le persone hanno un infinito bisogno di ascolto. Aprire il cuore agli altri, metterli a loro agio, ascoltarli con interesse e delicatezza non solo costituisce un atto d’amore nei loro riguardi, ma è una cosa che dà gioia anche a noi, riempie la nostra vita, sì che alla fine della nostra giornata ci ritroviamo più soddisfatti.

Ho iniziato a scrivere queste righe per farti sorridere, per dirti che almeno una persona che ti legge c’è (normalmente leggo il Sentiero dalla prima all’ultima pagina e da oggi lo farò con ancora più attenzione), ma mi accorgo che il loro tono sta risultando un po’ troppo serioso. Anch’io, sai, spesso ho l’impressione che nessuno legge ciò che scrivo, perché anch’io spesso non trovo riscontri. Ma poi penso che il silenzio dei lettori sia dovuto più al pudore che all’indifferenza. E poiché, come te, credo all’importanza di testimoniare la nostra fede attraverso queste pagine, mi permetto di ricordarti le bellissime parole che ci ha rivolto padre Gabriel in occasione dell’incontro dei collaboratori de “Il Sentiero” al Santuario del Mirteto (di cui relazione bene Egidio Banti nello stesso numero). Padre Gabriel ci ricordava come chi scrive sul nostro bollettino interparrocchiale compie la stessa funzione che espletavano i pittori medievali nel raccontare la vita di Gesù e dei Santi attraverso i loro dipinti nei confronti di coloro che non sapevano leggere (niente meno!!) e ci esortava, prima di scrivere, a parlare con Gesù, a chiedere a Lui se ciò che stavamo scrivendo potesse piacerGli. Non ti pare una cosa meravigliosa, in grado di farci sentire del tutto vivi?

Con affetto


  Semi del Verbo
di Marisa Lisia




Invocazione dei Pellerossa della tribù dei Chippewa

 

            O grande Spirito, ti odo nel vento, Tuo è l’alito che dà vita a tutto il mondo. Io sono piccolo e debole, la tua forza e saggezza mi sostengano. Fammi camminare nel bello e i miei occhi possano vedere il tramonto infuocato. Fa che le mie mani rispettino le cose create da Te. Fa che le mie orecchie siano pronte nel sentire la Tua Voce; donami la sapienza per comprendere i Tuoi insegnamenti e così conoscere i segreti che hai nascosto nell’erba e nella roccia.
Dammi la forza, non per superare il fratello, ma per combattere il mio maggior nemico, cioè me stesso. Fammi essere sempre pronto per venire da Te con le mani pure e gli occhi giusti, così quando la mia vita sfumerà come il sole al tramonto, il mio spirito potrà giungere a Te senza vergogna.

 

                                                                                            


  La Misericordia di Dio
di Doretto




            Il fondatore di un importante quotidiano, attraverso le colonne del suo giornale, si è rivolto al Papa e gli ha posto alcune domande sulla fede. Egli ha premesso che: “Io sono un non credente e non cerco Dio, anche se sono da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazaret, figlio di Maria e Giuseppe, ebreo della stirpe di Davide”. Ecco cosa gli risposto il Papa: “Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la Misericordia di Dio non ha limiti, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire”. Questo è il Papa Francesco.
           
Il grande (lasciatemelo definire così) cardinale Martini, di fronte ad un non credente che però era convinto che : “…di fronte a quella cosa bellissima che è la vita e che non ha potuto crearla nessun altro che un essere straordinario”, rispose così: “Nonostante la differenza tra il mio credere e la sua mancanza di fede siamo simili, lo siamo come uomini nello stupore davanti al creato e alla vita e si interroga la nostra coscienza, un muscolo che va allenato”. E cita un proverbio indiano che divide la nostra esistenza in quattro parti: la prima si studia, nella seconda si insegna, nella terza si riflette. E nella quarta? Si mendica, anche senza accorgersene.
Ora occorre sapere che il fondatore di questo quotidiano ha più di 90 anni; il Papa ne ha 77. Il Santo Padre gli ha chiesto di fare un tratto di strada insieme. Gesù, le tue vie sono veramente infinite. Tu vuoi che tutti gli uomini siano salvati!

Quando prego per i defunti, penso a tutti i miei amici che sono morti ma nelle loro vita non hanno frequentato la Chiesa. Ma erano uomini buoni (io li definisco buoni di natura), onesti, lavoratori, buoni padri di famiglia, hanno cresciuto i loro figli insegnando loro sani principi, dove e quando hanno potuto hanno fatto del bene…: e allora? Dio come li giudicherà? Ed ecco la magica parola: MISERICORDIA. Sì, Gesù è morto anche per loro, è risorto anche per loro. Poi penso ad un paesino sperduto della Cina, dove nessuno ha mai sentito parlare di Gesù e dove non è mai giunta la Parola di Dio.
Mi domando: ma anche loro sono figli Suoi, non li ama come ama me? Ed ecco le parole del Papa: “Se avranno seguito la propria coscienza la Misericordia di Dio sarà grande, e forse anche di più”. Sì, perché penso a me; penso a tutti noi, uomini e donne di questo mondo occidentale, dove si può dire che non ci manca niente, dal lato materiale. E dal lato spirituale abbiamo ricevuto tutto (almeno la stragrande maggioranza), a cominciare dal Battesimo. La Parola di Dio è giunta a noi, giunge a noi tutti i giorni, la Sua mensa è preparata per noi tutte le domeniche nella Santa Messa, i nostri pastori circolano in mezzo a noi, sempre pronti per insegnarci la via, per guidarci, per ascoltare i nostri peccati e, in nome di Dio, assolverci.

E allora? Ecco, io ho paura. Sì, perché il giorno che verrò giudicato (e viene, viene stiamone certi) non potrò dire: ma io non sapevo, non credevo, non avevo tempo.
Abbiamo avuto molto e ci chiederà molto! E allora anche noi invochiamo la Sua Misericordia.
Misericordia, Gesù, Misericordia!

                                                                                             



  

  La storia di Alma
di Marta




 

Correva l’anno 1912 e a Emilia e Lazzaro era nata la loro prima figlia che avevano chiamato Alma. Dopo nove mesi ne è venuta al mondo un’altra, poi un’altra ancora, fino alla Settima, poi, finalmente, era nato un maschietto. Ma non era finita: ancora femmine fino alla quindicesima! Alcune, le più deboli, erano morte ancora piccine, di stenti, di tifo o altre malattie; ne erano rimaste otto, le più sane e robuste. Alma, la prima, si occupava delle sorelline per quanto in quello squallore era possibile. Lazzaro faceva il contadino e, quando vendeva un po’ del raccolto, con quei denari passava subito dall’osteria a bere e offrendone a tutti. Chissà come, ma anche in quella miseria le bambine crescevano senza troppo lamentarsi. Il padre-padrone con tutte quelle femmine, le costringeva ad alzarsi il mattino presto, con pioggia o vento o gelo, e a fare il giro dei campi con i piedi congelati in miseri zoccoli e pochi stracci addosso.
Lazzaro era un ometto magro, con occhi chiari e come di ghiaccio e due baffetti sottili: il suo aspetto incuteva timore; era un anarchico convinto e, negli anni a seguire, quando era ubriaco, urlava a squarciagola: “Morte al fascismo!”. Botte, purghe e prigione non gli sono mancate, ma l’arroganza non gli veniva mai meno. Sono rimaste sempre unite queste sorelle e ricordavano, anche dopo diversi anni, quando il padre le picchiava con crudeltà anche solo perché gli rispondevano: metteva una corda in ammollo nell’acqua, così diventava più rigida e faceva più male mentre colpiva le loro gambette; i lividi vi rimanevano per dei mesi: via i vecchi, pronti quelli nuovi. Lazzaro morì ubriaco, ancora in buona età, cadendo giù dal carro tirato dai buoi; e così cessarono le nascite e le morti.
Quando ad Alma chiedevano della sua infanzia, rispondeva che lei non l’aveva mai vissuta; diceva: “Non ho neanche succhiato il latte della mia mamma, perché ho dovuto cedere il posto alle sorelline”. Quando Alma era ancora fanciulla era andata servizio in una casa signorile e, con i pochi soldi guadagnati, sognava di comprarsi un vestito nuovo e un paio di scarpe, ma non aveva fatto i conti col padre che l’aspettava all’uscita, si faceva dare quei soldi, per poi passare alla solita bettola dove li sperperava ubriacandosi con gli amici. Un giorno Alma, ormai giovinetta, tornando dal fiume a lavare i panni, aveva conosciuto Michele, un bel marinaio alto, moro, occhi verdi, e aveva anche una bella voce; tutte le volte che la incontrava le cantava la canzone del marinaio: quando all’alba se ne parte e lascia la sua casetta con la dolce mogliettina che l’aspetta… .

Alma non era mai andata a scuola, ma aveva imparato, autodidatta, a leggere e scrivere avendo sempre tra le mani la “Famiglia Cristiana”. Si era finalmente sistemata, era uscita dalla lunga miseria; era riuscita a farsi una casetta accogliente, piena di fiori; era gioviale e dispensava sorrisi a tutti con la sua bella bocca piena di denti bianchissimi; a chi le chiedeva quanti anni avesse lei, se ne aveva 40, rispondeva che ne aveva 20, perché 20 li aveva “dormiti”. Ripensando alla vita trascorsa diceva sempre: ”Ora potrei permettermi anche una bella bistecca, in barba a tutte le privazioni! Ma, ahimé, non posso più”.
Alma a 68 anni, improvvisamente affetta da un terribile male, in poco tempo se ne è serenamente andata, senz’altro in Paradiso.

                                                                                                         


  Quel primo viaggio a Santiago di Compostela [seconda parte]
di Angelo Brizzi




            Mancavano ormai una decina di chilometri alla meta, infatti, poco dopo, un cartello stradale dava a chi percorreva quella strada il Benvenidos en Santiago de Compostela. La strada si faceva sempre più stretta, non per il restringimento delle corsie, ma bensì perché le case si avvicinavano sempre più alla carreggiata, una attaccata all’altra, tutte in fila, fino ad essere tutt’uno col marciapiede. La cosa cominciava a preoccuparci non poco e costretti a ridurre di molto la velocità e creando dietro di noi una lunga coda di auto. Si procedeva in silenzio facendo attenzione ai terrazzini sporgenti, allorché una vettura della Guardia Civil  ci sorpassò e andò a posizionarsi davanti a noi, facendo apparire nel lunotto la scritta: “Sigen nostro, por favor” (seguiteci, per favore). Li abbiamo seguiti e ci hanno condotti ad un parcheggio adibito alla sosta dei pullman; era spazioso e ordinato e, olte alla custodia continua, offriva un bar con cucina e servizi con docce. Ringraziato gli agenti e parcheggiato i nostri mezzi, dietro consiglio dei custodi abbiamo preso alloggio in una posada, lì vicino e, dopo una belle rinfrescata, avendo alcune ore di tempo prima della cena, abbiamo deciso di dare una prima occhiata alla città.
Dopo un breve percorso, ammirando i bei palazzi, monumenti e vetrine siamo giunti nella piazza della Basilica brulicante di gente. Il mio sguardo è stato subito attratto dalle magnifiche due torri della Cattedrale poste una per lato della parte frontale, come due sentinelle a difesa della sua preziosità., ed ho provato una gioiosa emozione: pensavo di aver raggiunto il punto centrale della cristianità. I miei due giovani colleghi mi hanno chiesto: “Qual è il motivo dei lucciconi che ci vengono agli occhi?”. Ho loro risposto che il motivo lo troviamo nel guardarci attorno: vedere quella moltitudine di pellegrini oranti che gremisce la piazza, in maggior parte giovani provenienti da diverse nazioni come testimoniano le bandierine appese agli zaini, tutti attrezzati per il lungo viaggio e per le soste notturne, tutti sereni e felici. Per gran parte di loro, oltre allo zaino, faceva parte dell’equipaggiamento il classico bastone del pellegrino, el bordon, un particolare bastone per viandanti: ha una misura approssimata a chi lo usa; la parte superiore è ricurva; poco più su della cintura vi è attaccata una concha (conchiglia) e una cantimplora (borraccia), ossia una zucca secca, molto usata nelle cantine dai nostri vecchi aperta alla fine del manico e richiuso con un tappo di sughero, contenente acqua; la conchiglia veniva usata per raccogliere l’acqua dalle sorgenti basse fin sotto il livello stradale, con essa si può bere o riempire la borraccia. I pellegrini, spontaneamente, avevano formato una colonna di tre file e, procedendo lentamente, vanno a compiere il ‘giro del pellegrino’ all’interno della Cattedrale. Ci siamo uniti a loro riuscendo con santa pazienza a varcare il portale della chiesa. Una volta all’interno ci apprestiamo a compiere il giro come pellegrini: attraversiamo il ‘portico della gloria’ adornato di statue di Santi; nel fianco di una colonna, sotto la statua di San Giacomo, si vede l’impronta delle dita di una mano, è lì che i pellegrini affaticati dal lungo viaggio, posano le loro dita a significare il raggiungimento della meta e la fine del pellegrinaggio, ognuno con un proprio desiderio da chiedere e sperare.
Fatto quel giro emozionante ci ritroviamo sotto al gigantesco botafumerio, un gigantesco turibolo attaccato alla volta della cupola. Durante le funzioni viene fatto oscillare sopra i pellegrini da otto uomini che indossano una lunga veste rossa dispensando su tutti fumo d’incenso. Si dice che questo veniva fatto per ridurre l’acre odore di sudore che saliva dai pellegrini; oggi è spettacolo per pellegrini e turisti. A questo punto faccio notare ai miei colleghi la presenza, vicino alle pareti, di sacerdoti con cotta e stola viola: mi guardano sgranando gli occhi, hanno capito quello che vorrei che facessero, ma si rifiutano con mille scuse; però con calma e gesso le cose si aggiustano, dice un proverbio; e così, piano piano, tenendo vivo l’argomento confessione, siamo tutti e tre in fila per un bell’atto penitenziale, in un luogo saturo di spiritualità. Sono ormai le ore 21, non c’è la Santa Messa, ma in punti segnalati si distribuisce l’ostia consacrata: il Corpo di nostro Signore. Usciamo dalla Cattedrale un po’ più leggeri per aver scaricato il peso di qualche peccatuccio e contenti di esserci riappacificati col Padre Celeste. Come tre comari in ciarle siamo rientrati alla posada per consumare la cena e ritirarci nelle nostra camere.

La mattina seguente ripercorrendo le strade e viuzze del giorno prima e aver spedito qualche cartolina, siamo giunti davanti alla Cattedrale gremita ancora di più della sera prima. Abbiamo appreso da alcune locandine dell’arrivo dell’Obipso (il vescovo) di Cordoba: anche lui arrivava dopo aver percorso per tre giorni, a piedi, l’ultimo tratto del camino dell’Andalusia. Durante la Santa Messa presieduta dal Vescovo abbiamo avuto modo di ammirare lo spettacolo del botafumerio in azione nel dispensare ai fedeli il profumato fumo d’incenso.
Altre volte ho avuto occasione di recarmi a Santiago di Compostela; mai ho potuto percorrere il camino. Il più lungo e conosciuto è il ‘cammino francigeno’; il suo percorso inizia a Roncisvalle, in Francia, entra attraverso i Pirenei in Spagna, quindi per Pamplona, capitale della Navarra, prosegue passando sul Puente la Reina, punto storico d’incontro tra il camino francese con quello che sale da Aragona, incrocia poi Logrono nella Rioja, Burgos, nella Castiglia, punta su Astorga, città romana, lì si interseca col camino che arriva dalla lontana Andalusia, sfiora Ponferrada… ormai mancano pochi chilometri, il più è fatto; il pellegrino è stanco ma felice; ha percorso i suoi 800 chilometri per arrivare lì, a Compostela, ad onorare il Santo Apostolo, il Figlio del Tuono.

El milnovecientasochentaysiette, el Consejo de Europa, declarò  el camino de Santiago como Itinerario Cultural Europeo”.

 

                                                                                                          


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