N° 8 - Settembre 2018
CONCILIO VATICANO II
di Antonio Ratti

  

Tentativi   precedenti. 

Fin dall’improvvisa e brusca sospensione del Concilio Laterano I nel 1870 a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana e della presa di Roma da parte del Regno d’Italia, l’orientamento della gerarchia è quello di riprendere i lavori delle sessioni per completare la discussione degli argomenti raggruppati nei 49 schemi su 51 non affrontati.
Ma, in sostanza, non c’è nessuna azione concreta fino alla fine della prima guerra mondiale, quando, in un periodo in cui i vecchi e i nuovi Stati, nati dal disfacimento dei tre grandi Imperi dell’Europa centrale ( prusso-germanico, austro-ungarico e russo-zarista ) sono impegnati a strutturarsi nella nuova realtà politica e a curare le immani ferite in termini di vite umane e di drammatiche condizioni economiche, Pio XI pensa che potrebbe essere meno difficile individuare le ragioni per riprendere le sessioni conciliari e favorire anche un più stabile equilibrio politico e dialogo nella nuova  Europa.
L’intenzione è manifestata con l’enciclica Ubi Arcano Dei Consilio del 1922. A questo scopo invia una lettera ai cardinali e ai vescovi nella quale chiede il loro parere e disponibilità. L’iniziativa non ha fortuna: si teme che la vastità dei temi lasciati in sospeso, dopo mezzo secolo, possano non essere più attuali così come sono proposti negli schemi preparatori di allora e, poi, la Questione romana è ancora aperta senza prossime prospettive di soluzione.
Anche Pio XII prende in considerazione la ripresa dei lavori delle conciliari, ma pensa anche all’ipotesi di indire un nuovo concilio. Dà incarico, infatti, al Sant’Uffizio di studiare la questione e una piccola commissione di esperti si mette al lavoro dal 15 marzo del 1948. Le conclusioni di detta commissione devono apparire favorevoli, perché nel febbraio del 1949 Pio XII istituisce la Commissione speciale preparatoria guidata dal cardinale Francesco Borgongini Duca e dal gesuita Pierre Charles come segretario. Il gruppo di lavoro conclude sostenendo che una pura e semplice ripresa del Vaticano I non sarebbe in grado di affrontare in modo adeguato le nuove realtà e le problematiche sorte nella Chiesa e nella società civile dal 1870 al 1950, mentre la convocazione di un nuovo concilio comporterebbe tempi molto lunghi nella determinazione e impostazione degli argomenti da sottoporre alla discussione dei padri conciliari e per le notevoli difficoltà nell’organizzazione di un’assise la più ampia possibile, quando i postumi della 2° guerra mondiale non sono ancora riassorbiti: il clima politico mondiale è incerto a causa della guerra fredda e della politica dei blocchi contrapposti ( filo americano e filo russo ). In parole povere, il timore di un flop (fiasco) dalle conseguenze imprevedibili e imponderabili per l’immagine della Chiesa e, forse, la convinzione che il male minore è lasciare le cose come sono, in attesa di tempi migliori, fanno cadere il progetto.
Pio XII, nel gennaio 1951, giustifica la rinuncia con il timore che alcune nuove tendenze teologiche, sorte in ambito protestante e diffusesi in Francia, Germania e Olanda, non in linea con il magistero della Chiesa, attraverso l’assise conciliare, avrebbero potuto insinuarsi e destabilizzare la dottrina cattolica.
Come vedremo, Giovanni XXIII, il vecchietto “papa di transizione”, eletto perché niente possa cambiare, abituato a vivere la dura realtà di nunzio apostolico in Nazioni complicate ( Romania, Bulgaria, Turchia, ecc. prima di essere Patriarca a Venezia ) si mostra deciso e, tra lo stupore, le perplessità e un po’ di ostilità della Curia vaticana, restia per tradizione secolare ad abbandonare il comodo tran tran burocratico ( papa Francesco dice: non siate funzionari del sacro ), dopo tre mesi dall’elezione al soglio di Pietro, il 25 gennaio 1959, annuncia ai cardinali riuniti nella sala capitolare del monastero benedettino presso la basilica di San Paolo a Roma, la sua ferma intenzione di indire in tempi brevi un Concilio che sappia cogliere i rapidi cambiamenti della società civile e, di conseguenza, stabilire insieme come affrontarli, non rifiutarli chiudendosi in un tragico isolamento, tenendo ferma la barra della navicella petrina nella rotta dell’ortodossia teologica millenaria.
L’idea di un Concilio coglie fortemente di sorpresa i potenti cardinali della Curia, cioè i responsabili dei vari dicasteri ecclesiastici. Del resto i primissimi atti del pontificato di papa Roncalli sono del tutto in linea con la consuetudine dei papi precedenti, nel senso che non scendevano a compromessi con la modernità. Poco prima del Concilio, per esempio, il Sant’Uffizio, l’organo di tutela dell’ortodossia, cioè la moderna Inquisizione, pone fine con durezza in Francia e in Italia all’esperienza dei preti operai, quei sacerdoti che decidono di lavorare in fabbrica condividendo la vita quotidiana e le fatiche degli operai al fine di avvicinarli alla fede (non si dimentichi che papa Woityla è stato un prete operaio). Negli anni ’50–’60, diversi teologi, sacerdoti e studiosi ricevono pesanti limitazioni e divieti nell’esercizio delle loro professionalità, perché propongono una lettura biblica più attenta a cogliere il nuovo che non può essere solo un tabù da rigettare. Tenendo presenti le molteplici iniziative di riforma della Curia romana per ridurne il potere accentratore a vantaggio della collegialità, operate da Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e da Francesco, che rifiuta di vivere prigioniero del palazzo e nel palazzo, non siamo troppo lontani dal vero se si ritiene che la paternità di certe obsolete decisioni e del palese immobilismo sia da ricondurre proprio ai condizionamenti delle lobby curiali. In ogni campo la storia ci insegna che le brutte abitudini non diventano mai materiale facilmente rottamabile.   (1, continua)


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