N° 9 - Ottobre 2015
PAPA FRANCESCO CI SPIEGA CHE I VERI MIGRANTI SIAMO NOI
di Egidio Banti


 

Francesco è un Papa coraggioso. Di fronte alla profonda crisi che la Chiesa sta attraversando ed ancora di più di fronte alla crisi di gran parte dei valori umani cui sempre ci siamo riferiti, in primo luogo quelli della vita e della famiglia, ed anche quelli del rispetto dell’uomo e della natura (pensiamo ad un film straordinario come fu “L’albero degli zoccoli”, del cattolico Ermanno Olmi), il Papa non ha scelto la linea della difesa ideologica o della chiusura in se stessi, talora comoda e all’apparenza confortante, bensì quella ben diversa che in termini calcistici potremmo chiamare del contropiede, dell’uscire in campo aperto. Senza paura. Il viaggio a Cuba e poi negli Stati Uniti, sotto questo profilo, è stato davvero significativo, forse – sinora – la tappa più importante di un pontificato che non cessa di stupire. Che in pochi, tre anni fa, si sarebbero attesi. E’, se vogliamo, la grandezza della Chiesa. Mi pare di averlo scritto altre volte: quando si dice che i cardinali in conclave sono assistiti dallo Spirito Santo, non dobbiamo pensare che una forza esterna o misteriosa scriva al loro posto il nome del candidato prescelto. Non è questo: è la sapienza millenaria di una Chiesa che non ragiona per se stessa, nell’ottica modesta e parzialissima della vita di ciascuno di noi, ma in una prospettiva ben più grande e infinita: “sub specie aeternitatis”, “nella prospettiva dell’eternità”, come si diceva un tempo.
Ogni Papa è diverso da chi lo ha preceduto, ma straordinaria è la continuità di fondo nel loro insegnamento. Una continuità che non è statica, ma dinamica, nel senso che si sviluppa, pontificato dopo pontificato, non solo seguendo, ma spesso anticipando i risvolti della storia. Paolo VI, ricordiamolo, fu il Papa che ammonì: “Il nostro tempo non ha tanto bisogno di maestri, quanto di testimoni”. Che cosa voleva dire, se non che, all’orizzonte, libertà e sviluppo scientifico facevano intravvedere modificazioni profonde nei costumi e nella vita delle persone umane, per cui compito della Chiesa (così come, in diversa misura, delle diverse “agenzie” umane, politica compresa) non sarebbe più stato tanto quello dell’”alfabetizzazione” delle coscienze, quanto la sfida alla solitudine ed alla debolezza umana? Giovanni Paolo II sviluppò quell’intuizione con il grande programma della “nuova evangelizzazione”, del “Non abbiate paura !”, e Benedetto XVI lo fece proprio sin dalla semplicità del richiamo al suo essere “umile lavoratore nella vigna del Signore”, un richiamo di cui la rinuncia al pontificato è parsa la testimonianza forse più alta, oltre che più sofferta.
Francesco sta rilanciando con forza tutto questo percorso. Se è vero, come riferisce la sua biografa argentina Elisabetta Piqué, che all’inizio del conclave diversi cardinali lo avrebbero avvicinato e incoraggiato, dicendo “Bergoglio, ora tocca a te”, quando i media di tutto il mondo invece lo ignoravano tra i favoriti, a che altro si può pensare se non alla forza di una storia millenaria ed al soffio dello Spirito? Ascoltando, giorno dopo giorno, la straordinaria serie degli interventi nel viaggio americano, pensavo a tutto questo. Alla grandezza di un Papa e della sua Chiesa, ed alla debolezza di ciascuno di noi, in particolare di noi italiani ed europei, che ancora non ci rendiamo conto del fatto di come la “nostra” Chiesa non sia più quella euro-centrica e romano-centrica cui da generazioni eravamo abituati. La Chiesa del nuovo millennio respira con tanti polmoni, e nelle due Americhe quei polmoni, carichi di difficoltà e forse di contraddizioni, ma anche di amore e di speranza, sono particolarmente efficaci. Ci spaventiamo dei migranti che bussano a casa nostra, che dilagano sulle nostre strade, e spesso non ci rendiamo conto che i primi migranti siamo noi: migriamo, come gli ebrei nel deserto, dalle nostre convinzioni di un tempo, dalle nostre abitudini, dagli scenari abituali e comodi di una Chiesa che faticava a riscoprirsi “ospedale da campo”.
Il Papa ci indica questo, e ci accompagna con coraggio lungo strade nuove, inesplorate. Davvero, noi spezzini, dovremmo comprendere ed amare i nostri missionari, e penso ora in particolare a quelli nativi di Ortonovo, che nei decenni scorsi, scontando forse la perplessità di tanti, hanno lasciato la loro terra per annunciare il Vangelo altrove, e per ritrovarsi diversi: non ad insegnare, ma ad imparare. I discorsi più belli del Papa, nei giorni scorsi, non sono stati a mio giudizio quelli delle grandi celebrazioni, pur così affollate ed intense, quanto quelli rivolti ai vescovi, ai sacerdoti, alle suore oppure quello, semplice ma anch’esso straordinario, ai detenuti nel carcere di Filadelfia, con lo spunto di Gesù che lava i piedi ai discepoli: “Vivere comporta “sporcarsi i piedi” per le strade polverose della vita e della storia. E tutti abbiamo bisogno di essere purificati, di essere lavati. Tutti, io per primo. Tutti siamo cercati da questo Maestro che ci vuole aiutare a riprendere il cammino. Il Signore ci cerca tutti per darci la sua mano”. 
Vorrei concludere con una bella vignetta comparsa su un quotidiano americano e citata da Andrea Tornielli in uno dei suoi commenti. Ci sono un politico democratico ed uno repubblicano che discutono davanti al Papa. “Sul cambiamento climatico è con me”, dice il primo. “Sulla vita è con me”, dice il secondo. Un po’ più distante, c’è Gesù, che commenta: “Scusatemi, ma io sono ben sicuro che sia con me”…




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