N° 2 - Febbraio 2013
I PADRI DELLA CHIESA (3)
di Ratti Antonio

 

 

 

                                  

 Epoca dei Padri. 

E’ delimitata entro i confini dell’antichità cristiana, cioè, fino al settimo secolo e si è soliti suddividerla in tre periodi non della medesima durata.

1. Periodo delle origini.  Di fatto arriva fino al Concilio di Nicea (325). Appartengono a quest’epoca i Padri Apostolici, i cui scritti, quasi sempre privi di valore letterario o filosofico, riflettono l’immediatezza della predicazione apostolica, evidenziando il quadro autentico della vita, dei sentimenti, delle aspirazioni, delle idee e delle difficoltà a recepire il senso della Parola all’interno delle prime comunità cristiane  sparse nel bacino orientale del Mediterraneo tra il I e il II secolo e ci offrono il modo di capire come veniva intesa e realizzata la Chiesa voluta da Cristo. La lettera scritta da Clemente Romano alla vivace (ricordare le lettere di Paolo per sollecitare e rimproverare) comunità di Corinto verso il 96-98 viene considerata come il più antico documento patristico. Alla metà del II sec. compaiono i Padri apologisti, così definiti per l’opera di difesa e di esaltazione del cristianesimo su ogni altra forma di religione. Si hanno, così, i primi saggi di sistemazione dottrinale della predicazione di Gesù.

2. Periodo aureo. E’ un periodo abbastanza breve, in quanto termina con la morte di S. Agostino (431), ma è il più importante per il contributo teologico e dottrinale. Per l’ortodossia è sicuramente uno dei periodi più travagliati di tutta la storia della Chiesa. Personaggi più o meno importanti e influenti con le loro tesi innescarono una serie infinita di posizioni eretiche che neppure i frequenti Concili ecumenici riuscivano a dirimere e a disinnescare. Sotto il peso di eresie come quelle abilmente sostenute da Ario, Eutiche, Nestorio, Pelagio, Sabellio, Montano, tanto per citare qualcuno, la crisi dottrinale disorientava le comunità cristiane e minava pericolosamente l’unità della Chiesa. Infatti, questi signori, non si sottoponevano alle decisioni conciliari, ma si mettevano in proprio, dando vita a Chiese separate (alcune ancora esistenti) in competizione con la vera Chiesa. I Padri di quest’epoca s’impegnarono in grandi dispute, dando un decisivo contributo alla sistemazione delle scienze teologiche e del dogma. Sono figure di assoluto rilievo come S. Atanasio, S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno, S. Giovanni Crisostomo, ritenuti i massimi Dottori non solo della Chiesa Orientale; mentre in Occidente e nell’Africa latina emergono incontrastati S. Girolamo, Dottore delle Scritture, S. Ambrogio, il Dottore dell’indipendenza e dell’autonomia della Chiesa dal potere politico, S. Agostino, il Dottore della Grazia e Dottore universale, cioè, colui che per diversi secoli è stato il principale, se non l’unico, ispiratore del pensiero e della dottrina cristiana dell’intero Occidente.

3. Periodo della decadenza. Il periodo si estende fino al 750, anno della morte di S. Giovanni Damasceno. Cause esterne come le condizioni di estrema precarietà a causa delle invasioni barbariche con la formazione di instabili regni in Occidente e il dispotismo intrigante degli imperatori in Oriente, sono alla base del decadimento culturale. Venute a mancare figure in grado di fare la differenza, gli scritti risentono di ripetitività, di stanchezza e di mancanza di originalità. Tutto ciò non ha impedito l’emergere di personaggi di altissimo livello come S. Giovanni Damasceno e S. Gregorio Magno, ma restano felici eccezioni. I Padri di quest’epoca, pur nel loro anonimato, hanno avuto il merito di aver conservato intatti i tesori e la creatività dell’antico sapere teologico, rappresentando così l’anello di congiunzione tra il mondo antico al tramonto e quello nuovo. In sostanza ebbero il merito di preparare i fondamenti della civiltà e della dottrina cristiana medioevali.

 

Lingua dei Padri.

Fin quasi a tutto il II secolo la lingua usata è stata il greco. Del resto, i primi viaggi missionari sono stati in Medi Oriente e in Grecia e i primi cristiani, non giudei, erano prevalentemente orientali di cultura greca. Inoltre, come l’inglese oggi, il greco era la lingua internazionale per eccellenza in tutto il bacino del Mediterraneo, quindi capito e parlato almeno dal ceto colto, dai mercanti e dai marinai. Infine era la lingua che, per l’abbondanza etimologica di vocaboli, lo sviluppo della sintassi e la capacità di esprimere compiutamente un sistema filosofico (basta pensare alla complessità del pensiero di Aristotele e Platone), si prestava al meglio ad esporre la ricchezza e l’originalità della dottrina cristiana. Dopo il III secolo, nell’Oriente, pur restando il greco la lingua d’elezione, si cominciano a usare idiomi locali, come l’armeno e il siriaco. Quest’ultime erano lingue parlate dalle popolazioni dell’interno (es. Cappadocia), dove l’influenza della cultura greca era scarsa, quindi, per farsi capire bene, in considerazione del fatto che gli scritti in genere contenevano argomenti di catechesi, suggerimenti e sollecitazioni a comportamenti corretti per comunità poco portate alle discussioni teologiche, si utilizzavano forme dialettali locali di greco o lingue diverse. Molti dei primi Padri, per meglio adattarsi alle capacità di ascolto e di comprensione del popolo, quasi tutto analfabeta, si servivano del greco volgare, la coinè, come si era sviluppato in Alessandria. Ma già gli apologisti della fine del II secolo, rivolgendosi con i loro scritti agli ambienti culturali dell’epoca, cominciano ad avvicinarsi al greco classico, riservando le forme dialettali alle lettere indirizzate alle comunità. Clemente Alessandrino fu il primo ad abbandonare definitivamente le lingue popolari; dopo di lui l’utilizzo della lingua degli autori classici greci diventa prassi comune.

Il IV secolo rappresenta l’apogeo della letteratura cristiana: veri capolavori di pensiero, di purezza e finezze linguistiche non sfigurano per contenuti ed eleganza dello stile ai modelli della letteratura greca classica. Non potrebbe essere diversamente, perché i Padri ormai sono consapevoli di dover dare sostanza scritta alla Tradizione apostolica e di definire i capisaldi teologici e dogmatici, codificati dai numerosi Concili. In Occidente solo a partire dal 380-90 abbiamo le prime testimonianze di manifestazioni letterarie in latino, che si preparava a diventare la lingua esclusiva dei Padri occidentali. Il ritardo ha varie cause: il mondo latino ha sempre subito una forma di soggezione psicologica verso la cultura e la lingua greca, uno stato d’inferiorità che evidenzia le differenze tra le due civiltà, una portata alla speculazione filosofica, all’estetica, al gusto del bello, l’altra caratterizzata dalla concretezza, dall’essenzialità, da un elevato senso pratico. Ovviamente anche la lingua non fa eccezione a tale predisposizione. Il latino, a differenza del greco, è povero di vocaboli, quindi è poco malleabile e poco duttile a esprimere il complesso mondo delle idee astratte come la filosofia e men che meno l’originalità del pensiero cristiano (es. la questione trinitaria o cristologica della doppia natura). Già Seneca, che non era certo un filosofo innovatore, ma solo una persona di grande cultura, aveva lamentato la sua povertà.  Sotto l’influenza creatrice di grandi personalità come S. Cipriano, Tertulliano, S. Agostino, S. Gerolamo la lingua di Roma entra in una nuova fase di sviluppo, annullando il gap nei confronti del greco e arricchendosi di elementi lessicali nuovi, derivati in parte dall’immenso tesoro linguistico greco, in parte da forme in uso nella tecnica giuridica e da idiotismi dialettali dell’epoca e, non ultimi, da neologismi. Il risultato è stato la nascita del latino ecclesiastico, uno strumento docile a esprimere compiutamente il pensiero teologico e dottrinale. Certamente non era più il latino di Cicerone e Virgilio  - per questo disprezzato dagli eruditi -  ma era l’espressione della nuova letteratura che da romana s’era fatta cristiana sotto l’impulso dell’ideale evangelico. Spetta a questi grandi nomi e al loro linguaggio nuovo il merito di aver conservato, in tempi di decadenza globale, il prestigio della latinità, della cultura e delle lettere di Roma.

Senza voler fare una classifica di merito che non avrebbe senso, perché tutti hanno dato il massimo sia nella parola che nell’azione e per tutti vale il principio che “ il consenso dei Padri ha valore teologico e probativo”, ma solo per darci un obiettivo, parleremo dei grandi Padri e dottori** della Chiesa.  Nella Chiesa occidentale abbiamo Ambrogio di Milano, Ilario di Poitiers, Agostino di Ippona, Gregorio Magno, Gerolamo, mentre la Chiesa orientale annovera Basilio il Grande, Atanasio e Cirillo, entrambi d’Alessandria, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo. (continua)

 

Nota. ** “Dottore è il titolo con il quale la Chiesa cattolica sottolinea l’importanza di quei santi che hanno contribuito in modo rilevante ad approfondire la comprensione e la comunicazione del mistero di Dio e la ricchezza dell’esperienza cristiana”. In altri termini, hanno indicato il percorso dell’ortodossia suggerendo i punti fermi della teologia, dei dogmi e dei canoni contro ogni devianza.

 

 

 

 


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