N° 9 - Novembre 2010
In cerca dell'anima
di Antonio Ratti

 

 

Può capitare di chiedersi perché, come e quando l’uomo ha deciso di dare sepoltura ai propri morti e di dedicare loro culto e attenzioni speciali. Sappiamo dai reperti archeologici giunti fino a noi, che già le popolazioni preistoriche prestavano ai defunti grandi premure corredando i monumenti funerari, piccoli e grandi, ricchi o modesti, di quanto ritenevano necessario per una misteriosa, quanto sperata come una reale certezza, forma di vita che si poteva svolgere oltre la tomba. In epoca storica tutte le civiltà progredite resero ancora più intenso e manifesto il culto ai defunti. Qualche esempio:  le piramidi egizie intese come luogo d’incontro dell’umano col divino e di ascesa al divino; le etrusche città dei morti, come quelle di Tarquinia e Cerveteri, dove appaiono palesi gli intenti di fornire spazio e modo per continuare a vivere in una nuova dimensione; l’omerico re Priamo che con accorate parole convince l’iroso Achille a restituirgli il cadavere del figlio Ettore per potergli dare sepoltura e consentirgli così di accedere all’Ade, luogo dove le anime potevano entrare solo dopo una degna inumazione del corpo. Analoghi comportamenti li ritroviamo nelle civiltà orientali e delle Americhe precolombiane.

Da quanto detto, cosa si può dedurre? L’uomo per sua natura si rifiuta di finire nel nulla della morte, pertanto col progredire delle culture, cerca di individuare soluzioni soddisfacenti a questo suo tenace e insopprimibile bisogno. In modi diversi si viene delineando nel pensiero, come razionale esigenza, la certezza che nell’uomo esista una componente non corporea destinata ad una vita fuori dalla finitezza del tempo e dello spazio. Nel bacino del Mediterraneo è la filosofia greca, in particolare, che dedica la massima attenzione nella ricerca per dotare di un senso logico le varie componenti  extracorporee individuate nell’uomo come la ragione, l’intelletto, i sentimenti, lo spirito. Di questi solo lo spirito ha gli attributi per sopravvivere alla morte. Platone concepì un’ idea divina dell’anima che si incarna nel corpo dentro il quale si sente a disagio, quasi prigioniera e insoddisfatta attende di potersene tornare nel regno dell’eterna felicità da cui è stata staccata.  Si comprende, allora, il valore etico dell’anima e il suo operare perché la componente corporea si comporti in un certo modo, anziché in un altro. Dunque nel DNA dell’uomo è presente l’aspirazione di non perdersi nel nulla, ma di poter continuare ad essere con la propria identità, seppure con diverse modalità.  Anche gli atei e gli agnostici si ritagliano la loro eternità. L’agnostico poeta latino Ovidio, condannato all’esilio nella lontana e desolata provincia di Odessa, scriveva all’imperatore Augusto: finchè sui colli di Roma sorgerà il sole, nonostante la tua ostilità, la fama dei miei versi splenderà imperitura e il mio nome non cadrà nell’oblio.

Se ciascuno di noi ritiene di allinearsi a quanto generazioni e generazioni hanno cercato, pensato e accettato sull’umana volontà di non morire per sempre, non possiamo non comparare quanto in merito è stato pensato, detto e scritto. Nel mondo pagano classico si concepiva l’Ade ( Inferi per i latini ) un luogo sotterraneo avvolto da una perenne atmosfera caliginosa e da una luce opaca dove le anime dei trapassati, senza distinzione tra buoni e cattivi, vagano tristemente inappagate, perché, all’apparenza, private delle gioie terrene, in realtà, perché sprovviste di una mèta e di una finalità che sapessero dare una prospettiva al loro eterno vagare.  Basta leggersi nell’Eneide di Virgilio, l’incontro di Anchise col figlio Enea, disceso all’Ade per conoscere il proprio destino, per comprendere lo stato di amarezza e di frustazione, oltre alla sensazione di vuota inutilità che affligge quelle ombre.

 Sperando che l’uomo operi le sue scelte guidato da un “sano egoismo”, è pensabile che sappia cogliere la soluzione più appropriata per fornire la giusta, e quindi la migliore, risposta al suo cercare. Il valore unico e incontrovertibile del Cristianesimo è che un Dio, Gesù, si è incarnato, è morto e risorto solo per consegnare un progetto-prospettiva di esistenza felicemente eterna e un significato all’essere dell’uomo e del suo spirito.  Il Paradiso promesso è una condizione di luce non solare, cioè caduca, ma divina, cioè infinita.

 Sostenuto dalla curiosità, il dubbio che spinge sempre verso la certezza, mi ha indotto a scuriosare nell’islam, nell’ebraismo, nel buddismo, in Geova. Sarebbe ingiusto e inveritiero sostenere che sia tutto da buttare, se non altro sostengono il valore etico della vita al fine di essere migliori. Obiettivamente è un po’ poco se lo confronto con chi mi offre l’opportunità, se mi è gradita e se lo desidero, di essere a tutti gli effetti figlio del Dio-Creatore. Un Dio che crea e ama il frutto del suo creare al punto da proporre non un’alleanza  assoggetata alla legge o  alla paura, nè di semplice creatura soggetta, bensì un rapporto stretto di figliolanza basato sull’amore, è una proposta unica e risolutiva anche per le più alte e complesse aspirazioni umane. La scelta, a questo punto, dovrebbe apparire ovvia, eppure l’ovvietà, anche se ciò può sembrare una contraddizione insensata, è ancora lontanissima da realizzarsi, poiché una grossa responsabilità grava sulle spalle dell’uomo: la necessità della libera scelta, così come ha deciso Lui.  La libertà senza regole è solo disordine, ciononostante, furbescamente, si ritiene conveniente non scegliere o scegliere il più tardi possibile.  Temo che il buon Dio non accetti il last minute trip ( viaggio dell’ultimo minuto ), un saldo super scontato per non restare invenduto come fanno i Tours operators per realizzare almeno le spese e certi turisti per spendere il meno possibile.  Concludendo, mi resta obiettivamente molto difficile individuare una confessione religiosa che possa reggere nei contenuti e nelle prospettive il confronto con la fede in Cristo a patto che si voglia coglierne il vero valore intrinseco.

 Il ricordo del figliol prodigo sia di aiuto a recuperare la rotta: un padre, per quanto severo e inflessibile, è pur sempre un padre che non può non amare.

Il mese di novembre - sarebbe meglio dire ogni giorno dell’anno – propone l’occasione di meditare su questi temi che sollecitano con concretezza le decisioni sul nostro futuro.  In questa ottica, i fiori e le cure alle tombe sono elementi  decorativi importanti, ma non essenziali.

                                                                                  Antonio  Ratti

 

P.S. Ho detto della grossa responsabilità che incombe sull’uomo, è vero, ma rappresenta il più alto segno di fiducia e di libertà che Dio-Padre manifesta in modo tangibile verso la sua creatura, che, improvvida, continua a tergiversare se accettare o meno la sua paternità.

 

 

 


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